domenica 22 maggio 2016

"The Times They Are A-Changin" mi commuove ancora

 
Qui di seguito riporto l'intervento da me letto sabato 21 maggio al Caffè Letterario Mameli27, a Roma, all'interno della Maratona Dylan Jam, organizzata per festeggiare i 75 anni del cantautore statunitense.
 
 
The Times They Are A-Changin’ mi commuove ancora
di Cinzia Baldazzi
 
 
Nella Filosofia dell’Arte dove è stata inserita questa parte di presentazione alla vostra jam session su Dylan - sulla scia del pensiero di Immanuel Kant e di Ludwig Wittgenstein - ogni legame di forzata dipendenza dell’arte dal naturalismo, “dall’apparire sensibile dell’idea”, di natura legata alla filosofia hegeliana, viene interrotta: abbiamo accolto invece l’allargamento di ogni metafisica o poetica all’esistenza, in modo da permettere alla nostra immaginazione, alle nostre idee, di prodursi attraverso le canzoni di Dylan per mezzo di una forza potente di per sé.
Il tutto è romanticamente inserito nel campo della vista e della sensibilità nella misura più vasta del termine, che riguarda musica da ascoltare e alla quale assistere nella sua performance, e quindi in prima istanza come pura registrazione delle cose in chiave sensoriale, fonte principale dei sentimenti, di adesione o rifiuto ad essa.
La filosofia dell’arte, grazie all’espressione che gli è propria di “giudizio di gusto”, si mostra in grado di gestire una autonoma forma di sintesi, di appello alle categorie logiche del pensiero, della storia, idonee e ritenute universalmente valide. Tale determinazione di gusto è forma particolare di giudizio sintetico a-priori, ma non è fonte di conoscenza, perché si vuole occupare solo della bellezza del soggetto esaminato. Noi qui, alla poetica musicale di Dylan, abbiamo voluto dedicare uno sguardo più prettamente conoscitivo, quindi ci siamo rivolti a un autentico giudizio sintetico a-priori, dove si uniscono la universalità e la necessità finora attestata dalla precedente critica dylaniana, con la fecondità e l’aggiunta di informazioni da parte di un’indagine nell’hic et nunc dello spazio-tempo da ognuno di noi vissuto ed elaborato.
Pertanto, gli oggetti artistici dell’indagine vengono pensati liberamente e in modo contingente da noi: non sarà il nostro intelletto e quello di Dylan a doversi adeguare alla storia, ai sentimenti elencati per trarne concetti analitici universali del messaggio, ma viceversa sarà la storia a regolarsi sui concetti suscitati dall’intelletto e ad accordarsi con essi. Come dice Wittgenstein, “il mondo è tutto ciò che accade”, “ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose”, “l'immagine logica dei fatti è il pensiero”, che noi stessi vi mettiamo.
Credo sia il modo migliore per iniziare a parlare di The Times They Are A-Changin’, dove innanzitutto, da parte dell’autore, esiste il dichiarare la verità incontestabile del proprio trovarsi nel mondo per mezzo del semplice porsi del nostro pensiero. Per quanto precaria e riformulabile, tale indicazione dovrebbe suggerire un forte senso di sollievo: possiamo scrutare, attraverso il suo sviluppo, una prospettiva di salvezza, in qualche modo raggiungibile, sia pure nell’annunciato e irreversibile capovolgimento continuo dei tempi.
Ricordate l’incipit?
Venite intorno gente
dovunque voi vagate
ed ammettete che le acque
attorno a voi stanno crescendo
ed accettate che presto
sarete inzuppati fino all'osso.
E se il tempo per voi
rappresenta qualcosa
fareste meglio ad incominciare a nuotare
o affonderete come pietre
perché i tempi stanno cambiando.
 
The Times, ascoltandola mi ha sempre, profondamente, commossa e turbata. Così io, magari, chissà, insieme a quanti altri, con The Times ricevo, intercetto una commozione coinvolgente, emozionante, che mi cattura e induce a riflettere, colpita, scossa, ma anche intenerita e incoraggiata.
Era senz’altro la “commozione” “ingenua” e “sentita” di una dodicenne della borghesia romana della fine degli anni Sessanta, quando la ascoltai a casa di Dina, una mia amica, nel disco comprato dal fratello Federico, di qualche anno maggiore di noi. Era il 1967. Oggi, il professor Federico Tron è qui con noi.
Lui, a sua volta, quindicenne, era stato iniziato da un assiduo partecipe, adulto, di un gruppo archeologico con cui effettuava periodicamente delle gite in comitiva: a volte accadeva che, in qualche pausa, cantassero e parlassero di musica. Questa persona raccontò di uno strano personaggio, una specie di “folletto”, il quale anni prima, nel ’63, aveva seguito in una esibizione al Folkstudio.
Il giovane cantautore era giunto dagli Stati Uniti ancora senza effettivi mezzi economici: Federico sentì raccontare che fu visto dormire dentro il furgone posteggiato davanti al locale, a poca distanza da qui. Incuriosito dal personaggio, poco dopo andò in un negozio di dischi e acquistò il vinile a 45 giri di The Times (l’altro lato conteneva Honey Just Allow Me One More Chance). Il singolo era ovviamente stato tratto dall’omonimo LP uscito nel ’64. E lì, con Dina e Federico, è cominciato il mio sogno dylaniano, e questa sera si specchierà nei vostri occhi.
Non lo conoscevo. Tuttavia, della musica statunitense avevo già apprezzato alcune canzoni dei Beach Boys, certamente di Aretha Franklin (perché Federico amava la musica nera). Dunque, sono quarantanove anni che mi commuovo, passando ovviamente dal vinile al cd, e ancora, sempre, quasi mi si stringe il cuore se ascolto quell’album. Nonostante i toni squillanti dell’iniziale title track, subito penetro nella sua dolorosa e purtroppo non risolutiva depressione in una misura che nessuna altra opera  dell’autore, nello spazio delle mie sensazioni, è mai riuscita ad evocare.  
La commozione però non coincide, solamente, con una passione, con un pathos generazionale: quale  generazione, infatti, si commuoverebbe in virtù di un medesimo messaggio, senza interruzione, per cinquant’anni?  Se non si trattasse, appunto, del frutto di un giudizio di gusto sintetico a-priori, nello stesso tempo universale eppure aggiuntivo di conoscenza attuale, ogni volta che si ripete.
Secondo Clinton Heylin, nel libro biografico Day by Day, Dylan ha scritto e composto The Times They Are A-Changin’ alla fine di agosto del 1963, nell’appartamento sulla Quarta Strada di New York. La canzone vede l’aria come demo suonata al pianoforte per la Witmark Music (a quanto pare, un paio di settimane dopo essere stata scritta). Questa versione di The Times They Are A-Changin’  viene pubblicata, nel  1991, sul cofanetto The Bootleg Series (vols.1-3). Da allora, fino ad oggi, è stata eseguita circa “soltanto” 633 volte nei concerti dal vivo: cifra assai inferiore a quanto già citato, ad esempio, alle 1377 esecuzioni di Blowin’ in the Wind, più del doppio.
Quando fu cantata la prima volta in pubblico a Filadelfia, il 25 ottobre del ’63, in poche parole era semplicemente diversa da qualsiasi altra “cosa” girasse a quei tempi, e con “lei”, la musica non sarebbe stata più la stessa: e molti esperti fan di Dylan e del panorama culturale complessivo del ‘900, aggiungono “se non addirittura il mondo”.
Cerchiamo di diradare, attraverso l’intuizione sintetica a-priori, il mistero dello stato d’animo trascinante ed appassionato della canzone, in parte causato da alcuni meccanismi di giudizio inerenti il testo. Sarà utile, comunque, mirare ad elaborarne personalmente il simbolismo poetico-musicale: vorrei cioè evitare di privilegiare una prospettiva a carattere universale o categoriale, che comporterebbe il voler raggiungere, come tappa finale, un giudizio analitico universale. Ritengo sia proficuo, invece, percorrere un sentiero intimistico, solo per un breve intervallo mimetizzato in una passione generale, tipica della vita e della storia, come di qualsiasi autentico discorso poetico in progress lungo le idee delle quali, di volta in volta, è veicolo. Ma che sia il mio, il vostro, non quello predominante dei tempi in atto: in quanto a loro, lo suggerisce Dylan, siamo i primi a non prestare fede.

Ecco la  seconda strofa:
 
Venite scrittori e critici
che profetizzate con le vostre penne
e tenete gli occhi ben aperti
l'occasione non tornerà
e non parlate troppo presto
perché la ruota sta ancora girando
e non c'è nessuno che può dire
chi sarà scelto.
 
Quando venne pubblicato il terzo album di Bob Dylan, con il titolo appunto The Times, nel gennaio del ‘64, il successivo assassinio di John Kennedy del 22 novembre dello stesso anno diede risonanza maggiore al brano. Dylan lo utilizzò per aprire la sua set list in un concerto la sera dopo la morte del presidente. Dichiarò: “Ho dovuto suonare questa canzone la stessa notte che il Presidente Kennedy è morto. In qualche modo divenne una costante canzone di apertura e lo restò a lungo”. Al biografo Anthony Scaduto raccontò: “Qualcosa era impazzito nel nostro Paese e loro applaudivano a quella canzone”.
L’11 febbraio del 2010, alla Casa Bianca davanti a un altro presidente, il nero Barack Obama, durante l’evento “A Celebration of Music From the Civil Rights Movement”, Dylan ha riproposto dal vivo la canzone: solo al centro della scena, a sinistra un pianoforte e a destra il fido Tony Garnier al contrabbasso, presente solo in silohuette.
Era stato simbolicamente invitato - lui, ebreo praticante - a dimostrare quanto, con l’elezione di un presidente di colore, qualcosa fosse finalmente cambiato rispetto alle minoranze. Ma il menestrello lo sapeva che la vittoria sul razzismo rappresentata da quel presidente di un paese che aveva condotto in catene gli schiavi dall’Africa, fosse solo parziale e momentanea: forse non con i neri, ma con altri. Chissà cosa sarebbe successo dopo.
Racconto un episodio avvenuto un paio di anni fa, per testimoniare quanto appena detto. La cantante Aretha Franklin si trovava a Buffalo, nell’estremo nord dello stato di New York, per un concerto. Entrò in una boutique e scelse una borsa costosa: la commessa si rifiutò di dargliela: secondo lei, non sarebbe stata alla sua altezza, forse non se la sarebbe potuta permettere. Chiaramente non l’aveva riconosciuta. Aretha Franklin rispose che non solo quella borsa, ma l’intero negozio avrebbe potuto acquistare. E se ne tornò, amareggiata, a dormire nel suo lussuoso albergo.
Un’esecuzione tristissima, quella di Washington, dove lui non ha trovato pace con la tracolla della chitarra, eliminando le pause tra le battute quasi volesse far prima (come gli capitava da giovanissimo). Dopo la solenne premiazione, dove si guarda bene dal togliersi gli occhiali neri, se ne va, senza partecipare al “finalone” dove era presente, a celebrare i diritti civili, in prima linea anche Joan Baez, che lui, a testimonianza unanime, persino questa volta ha evoluto evitare di incontrare.
Il critico Michael Gray, all’epoca  descrisse The Times come l'"archetipo della canzone di protesta". Così la commentò: “L'obiettivo di Dylan era di cavalcare il sentimento inespresso del pubblico di massa per dare a quell'incipiente sentimento un inno e al suo clamore uno sfogo. Ci riuscì, ma il linguaggio della canzone, tuttavia, è impreciso e generalmente poco diretto”.
Non voleva - né ovviamente poteva - parlare per ciascuno di noi. Sempre Gray suggerisce, infatti, come la canzone fosse già allora vecchia rispetto ai grandi cambiamenti che predicava, e politicamente fosse antiquata dopo essere stata scritta. Andare avanti toccava a noi, per l’appunto, con la nostra esperienza, con la nostra intuizione sintetica a-priori. The Times non è una canzone del poter essere ma di quello che invece sta avvenendo nel concreto. Ma quando? Sempre, ogni volta che “scriveremo”, “profetizzeremo”, “parleremo troppo presto” cioè, prima di aver ascoltato la nostra voce e quella degli altri, fuori.
Bob Dylan, come noi tutti, è certo che per decifrare pensieri e discorsi altrui - in questo caso: lui i nostri per coinvolgere, noi i suoi per accoglierne il messaggio -  ciascuno crei una esclusiva gerarchia di valori attendibili o anche vuoti di significato secondo una competenza di natura storica, culturale, personale, analitico-universale. Nessun episodio comunicativo quotidiano o complesso avrebbe esito se il polo espressivo (qui poetico-musicale) della trasmissione non fosse implicato nell’agire del mondo, utopico oppure operativo, ma còlto nel suo svolgersi in corso, a smentirsi o ad auto-confermarsi.
Come nella edizione dal vivo del grande Eddie Vedder dei Pearl Jam. In una versione degli anni ’90, alla conclusione canta in sequenza consecutiva le penultime righe di ogni strofa: una smentisce, l’altra si autoconferma. Il ritornello viene replicato per dimostrare quanto non basti dichiarare una sola volta che i tempi siano cambiati: bisogna dimostrarlo ribadendolo in più occasioni, sempre ovviamente in modo spazio-tempo diverso, differenziandolo “a voce alta”, come lui stesso conclude dopo l’esibizione: “I spoke loud”.
Come in ogni grande  opera, non è opportuno separare il tessuto delle parole  dalla superlativa performance del disco. È come se la unicità sbrigativa, risoluta,  perfettamente conclusa, di “dizione”, ci trascinasse, all’opposto (nonostante ciò volutamente) nell’enfasi di immagini toccanti, autocritiche, con una intensità e fatica , ancora una volta commoventi, avvincenti ma un po’ come si dice, accorate. Lungo il solco musicale  di gruppi di parole-suoni altamente esortativi ed autoritari: di  continuo essi spingono, inducono a impegnarsi, a dolersi perché i cambiamenti continui  delle cose  non perdano il valore eversivo nella drammaticità del complesso.
Se la canzone ruota in modo inesorabile con ogni segno-parola, nota-accordo  dylaniano, intorno ad affermazioni quali “riunire”, “accettare” e “affondare”, ebbene, come si può, mi chiedo da sempre, riuscire nell’intento di stare al suo passo? Perché “il perdente adesso /sarà il vincente di domani?”. E la sua caratteristica antifonale insuperabile, di continuo ritornello, come può essere in grado di lasciare lo spazio anche a noi, al nostro canto d’intesa, continuamente esortato? Il critico Andy Gill precisò che il testo della canzone rimandava al Qoelet, un libro contenuto nella bibbia ebraica ( al quale si ispirò anche Pete Seeger nel suo inno Turn! Turn! Turn!). Il verso di Dylan  sarebbe, quindi, un riferimento diretto al vangelo di Marco 10:31 «E molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi»
Tuttavia non accade come per l’altra grandissima, Blowin’ in the Wind: lì, la voce per noi osserva, registra, con un tocco irripetibile di armonica e chitarra riflette, e pone domande a cadenza inesorabile.
In The Times, invece, dobbiamo avere la forza di ascoltare agendo, per non essere sopraffatti dalla battaglia in corso, anche se presto in qualche altro modo si riproporrà:
Venite senatori, membri del congresso
per favore date importanza alla chiamata
e non rimanete sulla porta
non bloccate l'atrio
perché quello che si ferirà
sarà colui che ha cercato di impedire l'entrata
c'è una battaglia fuori
e sta infuriando.
Presto scuoterà le vostre finestre
e farà tremare i vostri muri
perché i tempi stanno cambiando
È come se alla luce di parametri di conoscenza collettiva, chissà come rinnovati, immediatamente dopo questi precipitassero, e senza il tempo di consumarne il lutto toccasse rinnegarli in quanto, ben presto, il loro valore è tramutato. Ma chi, tra la gente, è capace di tale stravolgimento? Noi stessi, sì proprio noi, in una zona intima che Dylan non vuole oltrepassare: non perché si senta indifferente, ma in quanto personale e privata da non potersi condividere. Come dice Wittgenstein, “noi delle cose non conosciamo a-priori se non quello che noi stessi vi mettiamo”.
Magari fosse possibile, nel mondo, condividere tutto ciò che accade, ma non lo è, perché il sussistere degli avvenimenti coincide con la nostra personale logica dei fatti, con il nostro irripetibile pensiero.  
 
Venite madri e padri
da ogni parte del Paese
e non criticate
quello che non potete capire
i vostri figli e le vostre figlie
sono al dì la dei vostri comandi
la vostra vecchia strada
sta rapidamente invecchiando.
Per favore andate via dalla nuova
se non potete dare una mano
perché i tempi stanno cambiando.
 
Almeno, se così non fosse, la solidarietà evocata non sarebbe più una solidarietà di apparenze, ora fantastiche ora premeditate: coltivate, per conto proprio, contro una incombente unità mediata della coscienza che, per essere tale tradisca, sempre se medesima, e soprattutto noi. L’ultima strofa, infatti, canta:
La linea è tracciata
La maledizione è lanciata
Il più lento adesso
Sarà il più veloce poi
Ed il presente adesso
Sarà il passato poi
L'ordine sta rapidamente
scomparendo.
 
Mi commuovo ancora, ad ascoltare The Times They Are A-Changin’, a pensare alla forza necessaria, da allora ad oggi a credere che le cose, gli eventi, sparsi nello spazio-tempo a catena, in successione ininterrotta, siano  in procinto di mutare, senza poter sapere o stabilire i perché, i come, i quando. Ma siamo noi stessi in prima linea a combattere per mantenerne la indecifrabilità. È la nostra unica, grande libertà, come insegna Dylan: intoccabile, assoluta, anch’essa molto commovente.