sabato 29 dicembre 2018


Marco CAMERINI - In memoria di Amos Oz

 
 

“È  scomparso uno scrittore straordinario, voce unica della Letteratura israeliana insieme a Abraham Yehoshua. A poche ore dalla morte, vogliamo ricordarlo con la recensione di Giuda, il suo libro forse più bello”. (m.c.)

 
“Tante persone sono oggi furiose con i musulmani. Non dobbiamo però dimenticare che quanto è successo a Parigi ha prima di tutto a che fare con i fanatici e non con i musulmani. Nel mondo islamico persiste un forte sentimento di frustrazione, rabbia, un profondo senso di sconfitta e umiliazione. Solo i musulmani potrebbero e dovrebbero provare a confrontarsi con questi sentimenti e cercare di guarirli”.
Queste parole, tratte da un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” l’11 gennaio 2014 da Amos Oz, appaiono quanto mai opportune per iniziare a parlare di Giuda (Feltrinelli, 2014): un bellissimo romanzo – bastava molto poco perché lo definissimo il suo più suggestivo e profondo…chiariremo quel “poco” – che nei drammatici fatti di Parigi ha trovato un motivo in più per essere letto ed apprezzato. Semplicemente, l’ideologia che lo sostiene, le motivazioni letterarie che alimentano l’intreccio riflettono la posizione degli intellettuali israeliani più moderati ed equilibrati (Yehoshua fra tutti, si rilegga L’amante) di fronte all’integralismo armato jihaidista.
Sullo sfondo di una Gerusalemme umida e polverosa, densa di profumi speziati e intriganti, per lo più notturna ma improvvisamente illuminata da albe sul Sinai e rinfrescata da brezze terse e rigide (una presenza pulsante del libro, magnificamente descritta) si incontrano, nel 1959, i destini misteriosi del colto Gershom Wald, dell’affascinante nuora Atalia e del timido studente Shemuel Asch, che ha interrotto i promettenti studi universitari ferito nei suoi sogni politici ed affettivi, lontano da una famiglia in dissesto e alla ricerca di un momentaneo impiego. Lo troverà assistendo Wald, in una casa dove si aggirano i fantasmi drammatici di un passato che lega disperatamente l’anziano alla sfuggente donna e ha il volto di due straordinari “protagonisti in assenza” (per ricorrere ad una definizione narratologica) che non cessano un attimo di tormentare i vivi, incapaci a tratti di considerarsi tali: Micah, il marito di Atalia e figlio del vecchio (precocemente morto nel conflitto arabo-israeliano del ’48) e Shaltiel Abrabanel, padre di Atalia.
Il “muezzin” che, nel pieno della guerra d’Indipendenza del ‘47-‘48 – fermamente convinto che la decisione di fondare uno stato ebraico senza l’avvio di un dialogo costruttivo con i Palestinesi fosse uno sbaglio – lascia il Comitato sionista, in disaccordo con “il sognatore Ben-Gurion, il pifferaio magico che ha condotto tutti al massacro. Al macello. Alla cacciata. All’odio eterno fra due comunità”. E sarà quest’ultimo, “ateo, come tutti i socialisti sionisti”, presidente sino al ‘48 dell’Agenzia ebraica – governo ombra degli ebrei residenti in Palestina sotto il mandato britannico – il promotore vincente, sino al 1963, della politica israeliana e delle sue aperture alle potenze occidentali anti-arabe.
Il delicatissimo conflitto lascia, grazie alla sapienza narrativa di Oz, il macrocosmo della Storia per riprodursi nel microcosmo, a tratti claustrofobico, di silenzi carichi di rancore, di stanze assorte dove un genitore e una moglie vivono accanto in nome dell’amore per la medesima persona, più forte, alla fine, delle convinzioni culturali e politiche dell’ebreo Wald e della “figlia dell’Arabo” Atalia, che sulle alture di Gerusalemme ha perso l’uomo della sua vita, prima che constatare il fallimento, nell’ignominia, delle idee di un padre (inconsciamente) amato.
 
 
Chi è il traditore? Che significa tradire? Perché è questo il tratto che salda, in Giuda, la dimensione storico-politica a quella religiosa. “Chi è pronto al cambiamento, chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento” sostiene Shemuel, parlando dei suoi studi su Giuda: il colto e intelligente possidente della città di Keriot – unico fra gli apostoli a non essere originario della Galilea – inviato dalla casta ortodossa gerosolimitana per infiltrarsi fra i seguaci del Nazareno, ne diviene il più fervente discepolo, strumento consapevole di un tradimento necessario, maturato non certo per l’insignificante compenso di trenta denari (la paga mensile di un suo salariato) ma per la sopravvenuta, esaltante fiducia in un progetto di redenzione universale dell’uomo.
Ed è in nome di questo che incoraggia e sostiene “il vero e unico figlio di Dio”, Gesù, “nato e morto ebreo”, fedele alla Torah, certamente riformatore “fondamentalista” e fautore del ritorno a un ebraismo primitivo, depurato dalle ridondanze spirituali di Farisei e Sadducei, secondo l’ipotesi della tesi di laurea mai conclusa e suggestivamente maturata sulla scorta di una bibliografia che va da Giuseppe Flavio a Yehuda Halevi, da Maimonide a Nahmanide (è il terzo tradimento, quello del talentuoso studente avviato alla carriera universitaria nei confronti dei suoi professori e della famiglia).
Giuda come Abrabanel, allora, traditori per la Storia – contingente e soprannaturale – banditi dal consesso umano dei Templi e delle Convenzioni internazionali da una damnatio memoriae che l’ambizioso libro di Oz sembra voler interrompere nel nome della tolleranza, sola capace di riavviare il confronto fra Ebrei e Cristiani (“Fintanto che da loro ogni bambino continuerà a succhiare con il latte della madre il fatto che esistono delle creature che hanno assassinato Dio non conosceremo pace” confessa Wald), Arabi ed Israeliani, il presente angoscioso dei personaggi e un trascorso di rimorsi e rimpianti con il quale la partita è aperta.
È nelle corde dell’autore e (probabilmente) non poteva mancare la componente sentimentale, che egli ha saputo sempre affrontare con miracolosa abilità, sondando i meandri più intimi della passionalità, particolarmente all’interno dei rapporti di coppia: stavolta – forse perché sovrastata dalle tematiche cui abbiamo accennato – ci sembra l’anello debole del tutto. Sarà la doverosa speranza che uno dei massimi scrittori contemporanei ci regali una storia ancora migliore o altro, comunque proprio la vicenda d’amore, nella sua prevedibilità, lascia delusi…nessuna “scatola nera”, tutto è abbastanza chiaro sin dalle prime pagine, come sempre formalmente ipnotiche e raffinate, nell’apparente semplicità strutturale di dialoghi e descrizioni.
Certamente Amos Oz sa “narrare” e il monologo di Giuda (cap. 47) insieme alle sorprendenti pagine 209-213, sulle quali non sveliamo volutamente nulla, ne sono un nitido esempio che non mancherà di emozionare il lettore.


 

 

lunedì 24 dicembre 2018


 

Enrico GRAGLIA – Presepe vivente (racconto breve) 

 



Quando la luce fu spenta e la porta chiusa, dalla stella cometa sopra la capanna si staccarono alcuni brillantini. Prima che toccassero terra, dopo aver volteggiato nell’aria come minuscoli fiocchi di neve, una leggera luminescenza si diffuse tutto intorno. Veniva dai brillantini ancora attaccati al robusto cartone della stella cometa e dalle piccole stelle disegnate sullo sfondo del presepe. 

L’angelo appeso sulla capanna spiegò le ali, stiracchiandosi e sbadigliando. La donna vicino al pozzo appoggiò a terra l’anfora rossa, che teneva su una spalla da ore. La vecchina che filava tossì leggermente per un prurito alla gola a cui aveva faticato a resistere. La ragazza che lavava i panni posò il sapone e si sciacquò le mani nella bacinella d’acqua. Il vasaio riprese a modellare la creta, ormai quasi secca, e il caldarrostaio riattizzò il suo focherello spento. L’acqua della fontana scorreva e il toro ricominciò a berla avidamente; poco più in là, il contadino si tergeva il sudore dalla fronte con la manica del vestito. La gallina saltò giù dal suo trespolo nella capanna e iniziò a razzolare nei dintorni, mentre il bue e l’asinello si contendevano la paglia nella mangiatoia. Ancora lontani, i tre Re magi posarono i loro doni e si sedettero sotto due grosse palme di plastica. Vicino allo sfondo una pecorella gemette: era caduta su un fianco e si stava tirando su da sola, visto che nessuno si era accorto di lei. Per ultimo, il bambino nella culla si mosse ed iniziò a piangere. Giuseppe lo avvolse nel mantello e lo diede a Maria, che iniziò ad allattarlo. Non mangiava da troppo tempo e aveva fame.

«Scusa.», disse il pescivendolo alla donna vicino al pozzo. «Mi dai un goccio d’acqua, per favore? Sto morendo di sete.»

«Ecco qui.», rispose lei con un sorriso, porgendogli l’anfora. «Ma non svuotarla, che se poi il bambino ha sete non ho più niente da dargli. Nel pozzo non è rimasta quasi più acqua.»

Il pescivendolo mandò giù un sorso e le restituì l’anfora.

«Eh, sì.», ammise. «Quest’anno non ha piovuto molto.»

«Proprio per niente.», si lamentò un pastorello. Portava sulle spalle una pecorella così magra che faceva pena a guardarla. E, come tutti i pastori, aveva una giacchetta di lana di pecora, pantaloni ruvidi, un cappello floscio in testa e scarpe robuste ai piedi.

«L’erba è secca.», aggiunse. «Non so che dare da mangiare a queste povere bestie.»

«Una volta era diverso.», asserì il pescivendolo. Era un ragazzetto che ne stava tutto il giorno con in braccio una cesta piena di trote e una mano alla bocca, per decantare le qualità del pesce che vendeva ai passanti. Aveva addosso solo un paio di pantaloni blu, stretti in via da una fascia bianca, e una casacchetta rossa, aperta sul petto scarno. Si vedeva che era povero, ma aveva occhi azzurri e riccioli d’oro che alla donna vicino al pozzo piacevano molto. Lei aveva la pelle scura: si vedeva che era straniera. Era molto bella, con dei lunghi capelli neri e una veste color del cielo all’imbrunire, su cui erano ricamate piccole stelle bianche. Portava dei sandali di legno intarsiati che sembravano robusti, ma che usava poco: di solito restava immobile, appoggiata al pozzo ad ascoltare le chiacchiere del suo pescivendolo e dei due o tre pastorelli che si trovavano nelle vicinanze. Solo raramente Maria la chiamava e allora lei andava con la sua anfora rossa fino alla capanna, per portare acqua fresca al bambino.

«Sembra che ci sia meno spazio!», mormorò il pescivendolo.

«Sicuro, che c’è meno spazio.», annuì il pastorello.

«Proprio così.», gli fece eco un pastore più anziano. «Ogni anno ce n’è di meno. Se andiamo avanti così, non so come finirà. Voi siete giovani e non potete saperlo, ma una volta non finiva tutto lì.»

Così dicendo, indicò con un gesto vago il punto in cui lo sfondo era tagliato e non c’era altro che il legno scuro del mobile su cui era stato disposto il presepe quell’anno.

«Ah, no?», fece finta di stupirsi il pescivendolo, che moriva dalla voglia di sentir parlare ancora una volta il vecchio dei bei tempi andati. «E che cosa c’era, invece?»

C’era una collina, che saliva e saliva, fin quasi a toccare il cielo. E su di essa delle case. E una chiesetta. E poi pastori e pecore, molte più di adesso, e un fiume che scendeva dalla collina e arrivava fin dietro la capanna. E c’era anche tutta un’altra luce. Le stelle erano più luminose, più vive. E la capanna era illuminata a giorno da una grande sole posto ad occidente. A quei tempi, l’angelo e la cometa risplendevano da far male agli occhi. E lo sfondo era più grande, si estendeva in là... e c’era più vegetazione, anche qui, sotto i nostri piedi. Un sacco di muschio. C’erano anche un suonatore di liuto e un altro che suonava un lungo strumento nero, seduto su un tronco d’albero tagliato. E cammelli. Ho visto persino un elefante, una volta.

«E dove sono finiti tutti quanti?», chiese il pastorello.

«Un anno, Loro non li hanno imballati con noi, ma avvolti in bende di carta igienica e poi sistemati in un vecchio fustino di detersivo vuoto. Non so dove li abbiano portati. Non lo sa nessuno.»

«Ma perché ora le cose stanno così?»

«Eh... è passato del tempo. E il Figlio è cresciuto. Ero uno dei Suoi preferiti, sapete? Ma ora è diverso. Non bada più molto a noi, e così il Padre ha deciso di limitare lo spazio e di togliere la collina e le luci e la Madre ha smesso di attaccare i brillantini alla stella cometa, così è divenuta tutta opaca.»

«Peccato.», commentò il pescivendolo.

Per qualche attimo restarono in silenzio, come per riflettere su ciò che avevano perso. Intanto, uno dei Re magi si avvicinava alla capanna, inchinandosi rispettosamente davanti al bambino, che dormiva tra le braccia di Maria.

«Giuseppe.», sussurrò.

«Sì, Melchiorre?»

«Senti, Giuseppe.... anche quest’anno ci tocca portare sempre gli stessi doni.», spiegò, bisbigliando. «Il bambino sarà stufo: non c’è più sorpresa, quando apre i pacchetti. E poi, che se ne fa di oro, incenso e mirra?»

«La tradizione, Melchiorre.», disse Giuseppe, che aveva una pazienza infinita. «La tradizione è importante. Non si può andare contro la tradizione. Vorrebbe dire cambiare tutto, mettere tutto in discussione. Stravolgere, travisare.»

«Sì, però noi pensavamo una cosa.»

«Che cosa?»

«Pensavamo di cantare.»

«Cantare?»

«Senza farci sentire da Loro, naturalmente. Abbiamo già pensato a tutto. Appena se ne vanno a dormire, noi attacchiamo con il pezzo. Giusto per fare divertire un po’ il bambino, così non ci resta troppo male. Eh? Che ne dici? Pensavamo a qualcosa tipo il Gloria, ma fatto bello allegro. Non so, un gospel. Sentissi Baldassarre, che voce da baritono che ha! Eh, che ne pensi? Va bene?»

«Ma sì.», disse Giuseppe, un po’ imbarazzato. «Magari potete farvi accompagnare dall’angelo.»

«Oh, ma certo! Quello ha una voce!», sussurrò il Re magio per non farsi sentire dall’interessato, che penzolava poco al di sopra della sua testa. «Poi magari ci mettiamo d’accordo. Grazie, Giuseppe!»

E Giuseppe sorrise, lasciando che Melchiorre tornasse dai suoi due amici. Era sicuro che avrebbero provato per tutta la notte. Erano veramente cortesi, anche se un po’ stravaganti. Trovava esotici quei vestiti colorati, i turbanti e le scarpe a punta. Stava ancora sorridendo tra sé, quando si avvicinò a Maria e le diede un lieve bacio sulla fronte: si stava per assopire anche lei, insieme al bambino. Come sempre, era stata una giornata dura. Ferma in quella posa, a metà tra tenerezza e adorazione, il tempo sembrava non passare mai: la capiva perfettamente. Lui almeno poteva appoggiarsi al bastone di legno di cedro, ogni tanto. Soprapensiero, si avvicinò alla mangiatoia e sporse un po’ di fieno al bue e all’asinello.

Sopra di lui, l’angelo guardava il panorama che si godeva dal ripiano del mobile su cui Loro li avevano messi. Gli piaceva quel salotto, col tavolino basso, i due divani e la libreria. Quella era una bella casa, una Famiglia tranquilla, senza Figli piccoli che potevano farlo cadere in qualsiasi momento sulle piastrelle del pavimento, dove si sarebbe sbriciolato in mille pezzi. E la fascia che teneva tra le mani, su cui stava scritto in elaborate lettere dorate GLORIA IN EXCELSIS DEO, era di seta finissima.

Sì, pensò, nella sua lingua antichissima lingua, qui si sta bene. Certo, è dura dover stare immobili per tutto il giorno, ma almeno non c’è pericolo che...

In quel momento, il caldarrostaio si ustionò leggermente una mano ed urlò con quanto fiato aveva in gola.

«Zitto!», lo redarguì con un sibilo la vecchina che filava e lui si tappò la bocca con la mano sana.

Il bambino si mosse in braccio a Maria, aprì gli occhi per un attimo e poi li richiuse subito, tornando a dormire. Al pescivendolo per lo spavento cadde il cesto con le trote e si chinò a raccoglierle tra l’erba finta. Il vasaio fece un movimento brusco e la creta si sformò completamente. Il cane lupo di uno dei pastori abbaiò un paio di volte.

Nessuno ebbe tempo di contare fino a tre, che si aprì la porta. Tutti si bloccarono nella posizione in cui erano, irrigiditi dal terrore: forse uno di Loro li aveva sentiti. Non erano ai loro posti, ma era meglio restare fermi che farsi sorprendere in movimento; così rimasero immobili, trattenendo il fiato.

Attendevano con ansia che venisse accesa la luce, ma era soltanto il Padre che andava in bagno. Accadeva sempre più spesso e i Re magi sostenevano, sulla base degli studi compiuti, che fosse normale, perché i Loro bisogni notturni aumentavano con l’età. Per fortuna, però, il Padre non accendeva mai la luce quando si spostava per la casa di notte; probabilmente lo faceva per non disturbare il sonno della Madre, di cui in quel momento arrivava alle loro orecchie tese il russare leggero.

Tutti tirarono un sospiro di sollievo: era già capitato che rischiassero di farsi scoprire, ma quella volta ci erano andati veramente vicini. Troppo vicini, secondo Giuseppe.

«Tornate ai vostri posti!», ordinò; aveva perso la sua proverbiale pazienza. «E per stanotte non muovetevi più, va bene? E che non si ripeta!»

Nessuno ebbe il coraggio di fiatare.




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Una volta, pare che il celebre Fernando Botero abbia affermato:

Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste… Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande… E con voi, il mondo diventa più fantasioso, più colorato… Ma non cambia mai!»

Forse, anche l’originale pittore e scultore colombiano sembra aver incontrato una sorta di “presepe vivente” (“anime belle”, “persone oneste”), come avete scoperto nel racconto di Enrico Graglia: «l’angelo appeso sulla capanna» spiegare «le ali», una vecchia tossire, una ragazza sciacquarsi le mani, insomma, il popolo del paesaggio interagire con una fenomenologia di vita consona alla nostra. Rammento il componimento di Salvatore Quasimodo apprezzato da studentessa, dedicato al presepe, dove nella pace della finzione, del silenzio, scolpite nel legno, emergevano figure ma, all’improvviso, «ecco i vecchi / del villaggio e la stalla che / risplende / e l’asinello di colore azzurro». Reale o apparente? Nelle poetiche in versi e in prosa, un’eterogeneità del genere non possiede effettiva pertinenza. Scriveva Wolfgang Goethe:

È questo il momento d'accennare a un'altra costumanza popolarissima fra i napoletani: si tratta dei presepi, che si vedono in tutte le chiese durante le feste di Natale e che rappresentano l'adorazione dei pastori, degli angeli e dei re, in gruppi più o meno completi di figurine abbigliate riccamente e vistosamente. Fin sui tetti a terrazza dell'allegra città si allestisce questa esibizione; entro una leggera impalcatura a forma di capanna, ornata di piante e d'arbusti sempreverdi, si collocano la Vergine, il Bambino e tutti gli altri partecipanti, posati a terra o svolazzanti nell'aria, in splendide vesti, per le quali i padroni di casa spendono grosse somme. Ma un tocco d'inarrivabile bellezza all'insieme è dato dallo sfondo che raffigura il Vesuvio con i paesi circostanti.

Dunque, per il grande poeta e pensatore tedesco, «l'adorazione dei pastori, degli angeli e dei re» coesisteva in misura perfetta con l’icona del vulcano, nonché con il fascino del circondario. Nel brano di Graglia, però, leggiamo:

“Una volta era diverso”, asserì il pescivendolo. Era un ragazzetto che se ne stava tutto il giorno con in braccio una cesta piena di trote e una mano alla bocca, per decantare le qualità del pesce che vendeva ai passanti. Aveva addosso solo un paio di pantaloni blu, stretti in vita da una fascia bianca, e una casacchetta rossa, aperta sul petto scarno. Si vedeva che era povero, ma aveva occhi azzurri e riccioli d’oro che alla donna vicino al pozzo piacevano molto. Lei aveva la pelle scura: si vedeva che era straniera.

Pertanto:

Solo raramente Maria la chiamava e allora lei andava con la sua anfora rossa fino alla capanna, per portare acqua fresca al bambino.

Cos’è accaduto? L’area disponibile era diminuita; infatti, sostiene un pastore esperto:

“Ogni anno ce n’è di meno. Se andiamo avanti così, non so come finirà. Voi siete giovani e non potete saperlo, ma una volta non finiva tutto lì”.

La parola latina praesaepe indica “mangiatoia”, la quale costituisce il centro delle cultualità, delle rappresentazioni natalizie, con Maria, Giuseppe e il “pargoletto” scaldato dall'asinello insieme al bue. L’oggetto quasi rituale risulta legato a Francesco d’Assisi, quando scelse di illustrare in chiave realistica (ossia vera, verosimile, non falsa o ingabbiata di simboli) la Nascita del Bambinello a beneficio dei cristiani, in specie dell’ingente numero di essi accomunati da analfabetismo e, quindi, impossibilitati ad accedere al Nuovo Testamento, in particolare nei tratti relativi a quella solenne tappa della storia. La Basilica di Santo Stefano a Bologna ne conserva un prototipo analogo, risalente al 1223.

Nell’epoca attuale, dopo secoli e secoli, il presepe, continuando a vivere, si confronta con significati che appaiono estranei al suo antico, nondimeno universale, modo di concepire le cause, gli effetti:

“Eh... è passato del tempo. E il Figlio è cresciuto. Ero uno dei Suoi preferiti, sapete? Ma ora è diverso. Non bada più molto a noi, e così il Padre ha deciso di limitare lo spazio e di togliere la collina e le luci e la Madre ha smesso di attaccare i brillantini alla stella cometa, così è divenuta tutta opaca”.

La scrittrice italiana Benedetta Cibrario, nel romanzo Lo Scurnuso (2010), dichiara con certezza:

E immaginerete anche voi che molte di queste fisionomie sono reali. Queste sono le facce di duecento anni fa. Guardate questo storpio con le mani e i piedi bendati, potete immaginare che non abbia mai vissuto?».

Commuove il nostro Graglia, nel consigliare ai personaggi il ricordo di vecchie consuetudini casalinghe:

C’era una collina, che saliva e saliva, fin quasi a toccare il cielo. E su di essa delle case. E una chiesetta. E poi pastori e pecore, molte più di adesso, e un fiume che scendeva dalla collina e arrivava fin dietro la capanna. E c’era anche tutta un’altra luce. Le stelle erano più luminose, più vive. E la capanna era illuminata a giorno da un grande sole posto ad occidente. A quei tempi, l’angelo e la cometa risplendevano da far male agli occhi».

Da bambina, illuminata da quella luce, contemplavo il piccolo Gesù, la Cometa, i rivoli d’acqua con una lavandaia intenta al bucato, il ritmo cadenzato del martello del fabbro. In seguito, ormai adulta, non avendo, chissà, letto pagine come in questa novella, uniformata al resto mi sono distratta: ricorrendo alle parole stesse della voce narrante di Graglia, «stufata» di ricevere sempre gli stessi doni dai re Magi. Allora, ho imballato «in bende di carta igienica» le statuine del presepe paterno, credendo mio figlio vedesse, in tale allestimento, solo un’ulteriore «commedia infantile»: non rendendomi conto - lo precisa il filosofo Emanuele Samek Lodovici - «di quale enorme difesa di fronte alla stanchezza della vita, alle abitudini, ai tedi, alle fatiche, la mancanza di essa privi il bambino, e col bambino l'uomo».

Per fortuna, nel corso degli anni, coltivando rispetto per il Santo Evento, maturavo l’auspicio di qualche “sorpresa”, forse «qualcosa tipo il Gloria, ma fatto bello allegro. Non so, un gospel». E poi, Giuseppe a chiedere imbarazzato: «Magari potete farvi accompagnare dall’angelo».

Buon Natale a tutti, e grazie a Enrico Graglia per aver di nuovo permesso, con il racconto, a ciascun personaggio di cantare per noi, ascoltandoli prima che, fatalmente, nessuno abbia più «il coraggio di fiatare». (c.b.)






























venerdì 30 novembre 2018


Cinzia BALDAZZI – Il viaggio poetico di Anna Santoliquido. Un libro dedicato.



Belgrado, 2005 - Ritratto di Predrag Bajo Luković  

Con Una vita in versi, raccolta di interventi critici e testimonianze, poesie e racconti, spartiti musicali e opere d’arte, il mondo intellettuale rende omaggio ai settant’anni della poetessa Anna Santoliquido.   

la carne perisce
io non la sento
una voce mi chiama
la seguo convinta
mi porta per mano
per mare per monti
mi dice parole
soavi suadenti
è la poesia 

Anna Santoliquido, da La vigna, 1981
 

Suppongo sia realistica l’osservazione di Wolfgang Goethe quando sosteneva:  

Chi desidera capire la poesia deve recarsi nella terra della poesia, chi desidera capire il poeta deve andare nella terra del poeta. 

Da studentessa, lettrice, poi critica, di entrambe le terre poetiche, volevo (meglio: tentavo) di percepirle con efficacia percorrendole numerose, guidata dalla speranza di acquisire, nel viaggio, uno strumento necessario o, al minimo, utilissimo, a cogliere i messaggi dell’arte sul vivere ogni volta interpellati. Indifferente, quindi, ai successi, magari parziali, della messa in campo di tali indici esegetici, anche da ragazza – prima dell’avvento della semiotica - ho sempre nutrito un atto di coscienza, non vago, capace di suggerire la domanda: dove mai si troverebbe una “terra” analoga, generale ed esclusivo contesto di poesia?
Oppure, rimanevo perplessa per via di un altro quesito: se il versificare autentico collima con la libertà dell’animo, uno status originario non dovrebbe essere l’autore a sceglierlo spontaneamente in chiave autonoma da τόποι-tópoi geografici e storici, temporali? Ero sicura di quanto i due ambiti coincidessero, in un rapporto, tuttavia, non di stampo logico-causale come in apparenza, piuttosto di matrice dialettica, in cui l’itinerario sociale e quello della natura divenissero interlocutori immediati.
 
Roma, 2017 - Università Pontificia Salesiana. Conferimento della Laurea Apollinaris Poetica.
 

 In una simile classe di riferimenti, con l’esperienza della maturità, inserisco con ammirazione l’aura creativa di Anna Santoliquido – poetessa, saggista, narratrice, traduttrice – della quale il libro Una vita in versi costituisce un articolato segno di ossequio prezioso da parte del mondo intellettuale in occasione del settantesimo compleanno. La singolare, raffinata sintesi narrativa-illustrativa si mostra ricca delle significative tracce di un’esistenza alimentata dalla greca ποίησις-poíesis, nell’intimo di una “poetica” – nei termini introdotti dal professor Walter Binni – mutata in vita essa stessa.
Il volume, pubblicato da LB Edizioni, curato dalla saggista Francesca Amendola con prefazione di Antonio Decaro, sindaco di Bari, è un omaggio speciale, strutturato, nonché corredato, in virtù di passato, presente e futuro intensi, lirici, concreti di questa donna nata nella Basilicata, da cinquant’anni residente nel capoluogo pugliese, fondatrice e presidente del movimento “Donne e Poesia”. Come scrive la Amendola, introducendo la prima parte dedicata a interventi e testimonianze,  

scrittori, poeti, saggisti traduttori hanno ricostruito l’iter letterario e umano di Anna; ne è nata non solo una “geografia”, attraverso i luoghi che caratterizzano gli incontri e le tappe, ma anche una schedatura critica della sua scrittura. 

Mentre accoglieva dall’Associazione Culturale “Euterpe” il prestigioso Riconoscimento alla Carriera durante la cerimonia conclusiva del VII Premio di poesia “L’arte in versi”, a Jesi il 10 novembre, una τύχη-tiùke favorevole ha sortito il nostro incontro. La circostanza – in senso semiotico – per conoscersi meglio e comunicare era pertanto ottimale, anche quando abbiamo sfogliato insieme l’antologia.  

 
Jesi  (Ancona), 2018 - Palazzo dei Convegni. Premio alla Carriera 2018 conferito dall'Associazione Culturale "Euterpe". Da sinistra Michela Zanarella, Lorenzo Spurio, Anna Santoliquido e l’Assessore alla Cultura.
 

Il giudizio estetico trasmesso dalla sua figura complessiva è stato quello di nutrire una visione esaustiva del successo dell’atto semico avviato nell’affrontare l’evocazione di un τόπος-tòpos letterario. La Santoliquido è stata infatti, sin dagli inizi, ben cosciente di quanto il ricevente, per comprendere il messaggio considerato, debba poter interpretarne, nei vari segni, i segnali lanciati e, parimenti, le circostanze relative.
Nel microcosmo dei suoi componimenti, nonché nelle pagine di Una vita in versi, il posto principale per cogliere il significato degli scritti spetta al destinatario: e tuttavia – in virtù dell’abilità magistrale dell’autrice, e in base alla teoria dell’argentino Jorge Luis Prieto - ecco la poetessa, fissando l’obiettivo del processo semiologico concepito per divulgarlo, mostrarsi in grado (secondo una Weltanschauung personale) di stabilirne lo scopo, pur di radice dialettica, in rapporto al quale la comprensione di noi interlocutori sarà “buona” o “cattiva”: vale dire, potremo aver compreso o meno una poetica del genere.
 
        Bari, 2006 - Sede di “Donne e Poesia”. Presentazione del poeta vietnamita Nguyen Chi Trung.

La parte di Una vita in versi intitolata “Disegni e ritratti” ospita dipinti e sculture dedicati ad Anna da noti artisti: Barbarito, Damiani, De Luca, Linzalata, Lodeserto, Masini, in compagnia di altri. Segue il capitolo “Fotografie”, attinente gli incontri di Anna Santoliquido con personaggi della cultura conosciuti nell’hic et nunc della quarantennale attività letteraria: il Nobel Iosif Brodskjj, la grande Desanka Maksimović, Predrag Matvejević, il siriano Adonis, gli italiani Margherita Guidacci, Maria Luisa Spaziani, Mario Luzi, Dacia Maraini. Non mancano celebri figure del Mezzogiorno con i lucani Albino Pierro e Vito Riviello, la pugliese Maria Marcone, il compianto professor Michele Dell’Aquila dell’Ateneo di Bari, il meridionalista e poeta Vittore Fiore.   
 
 
Bari, 2017 - Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti-Volpi”. XVI Edizione di “Cocktail diVersi”. Con la scrittrice Simha Siani di Israele.
 
Inoltre, sono riportati coinvolgenti componimenti indirizzati alla scrittrice, ad esempio di Mariella Bettarini («collettiva Parola che / Dentro l’anima riposa a / Onor di sé e di coloro che – come te Anna – la onorano») e di Michele Damiani («Anna / della pietra e delle noci / Anna / del cardo e delle spighe / Anna / dei piccoli miracoli / dei tuoi pochi o molti ben compiuti»), traduzioni in inglese (Mary V.C. Pragnell) e in latino (Orazio Antonio Bologna), accanto a spartiti musicali dei maestri Komorowski, Golia, Stea.
Ma, in fin dei conti, cosa accade se 
 
il tempo
nel silenzio
ha scolpito
la sua storia
sulla facciata esterna
per offrirla in dono
agli occhi curiosi
dei forestieri dell’estate?  
 
Bari, 2017 - Biblioteca Nazionale “Sagarriga Visconti-Volpi”. XVI Edizione di “Cocktail diVersi”. Con la poeta  Vanja Angelova della Bulgaria.

Nelle strofe de La casa di pietra del 1981, suppongo che da stranieri, in una calda estate rasserenante si possa, però, mirare un riparo in versi dalla calura e dalla nebbia dell’afa, auspicando, con ampio trasporto, ad andare al di là di ricordi ininfluenti, illusori; come del resto, nel primo Ottocento, Emily Dickinson ammoniva in Non esiste un vascello veloce come un libro 

There is no Frigate like a Book
To take us Lands away
Nor any Coursers like a Page
Of prancing Poetry
This Traverse may the poorest take
Without oppress of Toll
How frugal is the Chariot
That bears the Human Soul.  

 
Roma, 1989 - Centro Culturale “E. Montale”. Con Maria Luisa Spaziani.

A lungo ha viaggiato la Santoliquido, tanto quanto i suoi libri (tradotti in oltre venti lingue), conducendo un impegno operativo di storiografia letteraria o di letteratura storica in equa misura orientato verso una natura e una società progressive. Ma non è opportuno – più di una volta asseriva Binni – valutare i poeti «come un dopo almeno ideale rispetto a strutture e tendenze di loro non bisognose», poiché la loro forza di interpretazione è originale «e di sollecitazione di moti spesso oscuri e fermentati di una situazione storica, sociale, politica, culturale».
La poetessa di Forenza continua a viaggiare nei giorni a seguire con la sua ispirazione letteraria imparando a illuminare luoghi della sensibilità e dello spirito: nel brano La sposa agreste (dalla raccolta Med vrsticami/Tra le righe pubblicata a Lubiana nel 2011), dalle parole di una donna rimasta in patria ad attendere il marito emigrato viaggiando per mare negli States dickinsoniani, apprendiamo:  

Credeva che il firmamento si sfogliasse
invece lanciava fiamme
l’anima sull’incudine
i cavalli a briglie sciolte. 
Sežana (Slovenia), 2011 - Con la scrittrice e traduttrice Jolka Milič.

Concludendo, vorrei citare lo studioso canadese Northrop Frye nel suo celebre lavoro Agghiacciante simmetria, dedicato a William Blake:  

Coloro per i quali soggetto e oggetto, esistenza e percezione, attività e pensiero sono tutte parti di un’antitesi gigantesca, penseranno naturalmente che l’uomo sia diviso tra una volontà egocentrica e una ragione che stabilisce contatti con il non-Io.  

Con Anna Santoliquido, e con il mitico Blake, illustratore del Paradise Lost di John Milton, di sicuro noi non lo crediamo. 

 
Una vita in versi.
Trentasette volte Anna Santoliquido
a cura di Francesca Amendola
LB Edizioni, Bari, 2018, pp. 228, € 16,00
 

 
Bari, 2001 - Foto di Frasca

MOVIMENTO INTERNAZIONALE DONNE E POESIA - Logo della pittrice Grazia Lodeserto


 
 
 

 

mercoledì 21 novembre 2018


Cinzia BALDAZZI – Giocare con le parole. Un’antologia per Gianni Rodari.


 

Favole, fiabe, novelle, piccoli racconti, ninne nanne, scioglilingua, filastrocche, storie, racconti, poesie, articoli, saggi, critiche letterarie: all’antologia dedicata a Gianni Rodari, sotto l’egida dell’Associazione Culturale Euterpe, si partecipa fino al 31 dicembre.

 

Avete mai pensato all’importanza rivestita dalla “lettura” della matematica nel mondo dell’infanzia? Una dichiarazione del genere potrebbe sorprendere sino a quando non abbiamo l’opportunità di ascoltare o ri-ascoltare A inventare i numeri, l’amatissima filastrocca del nostro Gianni Rodari, uscita postuma del 2006. La rammentate? Ecco un breve estratto:  

"Inventiamo dei numeri?"
"Inventiamoli, comincio io. Quasi uno, quasi due, quasi tre, quasi quattro, quasi cinque, quasi sei".
"È troppo poco. Senti questi: uno stramilione di biliardoni, un ottone di millantoni, un meravigliardo e un meraviglione".
"Io allora inventerò una tabellina:
- tre per uno Trento e Belluno
- tre per due bistecca di bue
- tre per tre latte e caffè
- tre per quattro cioccolato
- tre per cinque malelingue.
"Quanto costa questa pasta?"
"Due tirate d'orecchi".
"Quanto c'è da qui a Milano?"
"Mille chilometri nuovi, un chilometro usato e sette cioccolatini".
"Quanto pesa una lagrima?"
"Secondo: la lagrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra".
"Quanto è lunga questa favola?"
"Troppo".
"Allora inventiamo in fretta altri numeri per finire. Li dico io, alla maniera di Modena: unci dunci trinci, quara quarinci, miri miminci, un fan dès".
"E io li dico alla maniera di Roma: unzi donzi tenzi, quale qualinzi, mele melinzi, riffe raffe e dieci". 


Gli illustri versi del grande Rodari, e chissà, l’intera letteratura, la prassi pedagogica, l’etica giornalistica, appaiono tra le fonti ispirative di Martino Ciano, ideatore di un’«antologia tematica per una nuova cultura, volta a rileggere, riscoprire e approfondire mediante opere di produzione propria (racconti, poesie, articoli, saggi e critiche letterarie) un intellettuale di prim’ordine del panorama culturale italiano del secolo scorso».
L’invitante progetto, intitolato Il «libbro» di Gianni Rodari, prenderà forma all’interno della collana “Stile Euterpe”, dove sono già stati realizzate le monografie Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà (2015) e Aldo Palazzeschi, il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico (2016), entrambe edite dal fiorentino PoetiKanten.
L’Associazione Culturale Euterpe, sotto la presidenza di Lorenzo Spurio, apre dunque lo spazio, in un volume curato dal docente e critico letterario Francesco Martillotto, a tutti coloro i quali vogliano partecipare: i minori con «favole, fiabe, novelle, piccoli racconti, ninne nanne, scioglilingua, filastrocche, storie raccontate», gli adulti nel campo creativo di «racconti, poesie, articoli, saggi e critiche letterarie», con l’unica, stimolante indicazione a rimaner fedeli «allo stile, alle tematiche e al curriculum letterario che ha caratterizzato la figura dell’intellettuale».
Nel 1980, in occasione della prematura scomparsa di Gianni Rodari, furono pubblicati centinaia di essay o esegesi dialettiche sullo scrittore, personaggio internazionale di prima linea e soprattutto operatore della cultura nell’entourage della Sinistra, maestro elementare, giornalista, pedagogista: personalmente, preferisco “parlarne” evocando le testimonianze dell’amico fraterno, il docente di linguistica Tullio De Mauro, attraverso commenti acquisiti “in diretta” durante i corsi frequentati presso l’Ateneo romano, altrimenti segnalati a noi studenti sempre negli anni Settanta e di poco antecedenti la morte dell’autore.
 
Condividiamo, di conseguenza, le riserve avanzate da De Mauro, docente a “La Sapienza” di Roma, famoso per l’edizione mondiale del Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussure, quando ribadiva:
 
Buona parte degli esseri umani si guarda bene dal pensare troppo alle parole. Parlare è una cosa così naturale! E, in certo senso, è vero: fa parte degli sviluppi ordinari dei piccoli della specie imparare fin dai primi mesi di vita a confrontarsi con le parole, a isolarne il suono tra i tanti che colpiscono l'orecchio, a interrogarsi sul loro valore, a capirne il tono affettuoso o irritato, finché un po' alla volta i piccoli imparano a produrre anche loro parole. E, da allora, le parole accompagnano, come parole dette, ascoltate, lette, scritte, pensate, sognate, ogni momento della nostra vita: la vita degli affetti, delle amicizie e inimicizie, delle opere d'ogni giorno o più ardue, dei pensieri, delle riflessioni banali o altre che siano. Vivere tra le parole è naturale come respirare l'aria, dissetarsi con l'acqua.
 
Dopo aver sostenuto come «per molto tempo quasi tutti gli umani non hanno pensato né all'aria né all'acqua, così in generale non hanno pensato alle parole», De Mauro spiegava:  

Alcuni pochi però ci hanno pensato: i maestri che insegnano a scrivere, i grammatici, i professori, chi fa titoli e articoli di giornale, chi fa vocabolari, chi studia la struttura e la storia delle parole, e cioè i linguisti. In generale, quanti ci hanno pensato lo hanno fatto con mente analitica. E anche loro avevano le loro brave giustificazioni. Come si scrive questa parola? C'è una parola per esprimere questo concetto? Per tradurre nella nostra lingua una parola straniera? Qual è l'etimologia, la pronunzia, la struttura morfologica di questa parola? 

E terminava affermando con enfasi:  

Chi ha pensato alle parole lo ha fatto per rispondere a queste domande. E così un po' alla volta la maggior parte dei competenti ha finito col convincersi che è giusto considerare le parole una per una, come farfalle o insetti sotto il vetrino dall'entomologo. Qua e là, per la verità, negli ultimi cinquanta, sessanta anni, qualcuno ha cominciato ad avere qualche dubbio sulla cosa. Gianni Rodari è stato in sintonia con questi. 


Ora la buona sorte tocca a noi, magari sulle tracce semiotiche, rispettando l’obiettivo del capolavoro rodariano Grammatica della fantasia (1937): sono le pagine in cui nasce l’indimenticabile “libbro” che, «con due b sarà / Soltanto un libro più pesante degli altri, / o un libro sbagliato, / o un libro specialissimo?». La strada di successo da intraprendere suppongo sia quella indicata nel progetto di Stile Euterpe: elaborare brani, inaugurare testi in un’ottica escogitata a riscattare la «chiave meramente ludica e semplicistica» nella quale il nostro autore, a fianco a diversi “classici”, fu durante un certo periodo emarginato.
Nel merito di simile classicità, annoveriamo uno degli aneddoti prediletti da De Mauro: candidandolo a voce a una cattedra di Filosofia del Linguaggio parallela alla sua (precisando: «Non ho l’autorità da solo» per eseguire un intento del genere), raccontava:  

Così si mise a ridere quando uscì la Grammatica della fantasia e io mi buttai a scrivere che, con molta grazia e levità, Rodari ci aveva dato un “classico”. 

Ma, lo sappiamo, è il “gioco” privilegiato dal geniale intellettuale di Omegna, collocare sempre l’enunciato nel duplice registro realistico-immaginato, verosimiglianza-utopia. Cosa accade allorché ricorriamo al veicolo formale, orale e scritto? A parere di Rodari, unico italiano vincitore del rinomato Premio Hans Christian Andersen:  

Si prendano due parole a caso, dal vocabolario o da qualsiasi altro testo stampato... Si gettino le due parole l'una contro l'altra e si osservino le varie combinazioni, si afferrino i suggerimenti espressi dal loro occasionale duello... 

 
Essendo poi vicini i tempi del Natale (ricordiamo che al libbro si partecipa fino al 31 dicembre), approfittiamo per citare il mirabile Pianeta degli Alberi di Natale (1962):  

Su quel pianeta hanno inventato un gioco
che si chiama duello di parole.
A impararlo ci vuole poco.
Uno dice, una parola,
per esempio pianta.
Il secondo ne dice un'altra,
per esempio gatti.
Il terzo le mette insieme
e inventa la pianta dei gatti.
Roba da matti.
Ma non è tutto.
Il quarto la deve disegnare,
con un gatto al posto d'ogni frutto.
Al quinto invece tocca raccontare
la storia del contadino
che un giorno va per cogliere le pere
e crede di stravedere
(La storia come continua?
Prova un po' a dirlo tu). 

In sostanza, proverei a ipotizzarlo nell’antologia proposta, guardando le coesioni semantiche messe in contatto tra i lessemi, altrimenti isolati: e ciò in virtù di un’aura cosale, consona al quid tipico della filosofia di Martin Heidegger, in grado di rimandare al microcosmo del linguaggio per trasmetterle; al contrario, l’universo comunicativo, per essere compreso, rinvia alla rodariana «scuola grande come il mondo». Del resto, il consiglio di Gianni Rodari è ulteriore, rinvenendo nel suo repertorio l’input di dialogare con i tasselli semiologici, le presenze oggettive: queste, infatti, non solo  

“raccontano segreti” preziosi, ma ci fanno avvertire che parole e cose contano in quanto sono in relazione con noi, ciascuno e tutti insieme. Le parole stanno dentro di noi, nella nostra memoria, nella memoria delle nostre esperienze vitali. Ogni parola diventa viva davvero (e noi con lei) se la sentiamo come nodo di relazioni con altre innumeri parole possibili, con le cose del vasto mondo, con l'intera nostra personalità di “animali...”.  

I partecipanti alla raccolta affronteranno un impegno piacevole, meglio gratificante, forse anche complesso: per Rodari, era importante «fare le cose difficili». Comunque, da ciò non dovrebbe scaturire alcuna forma di scoraggiamento: in tale contesto, di sicuro, le parole possono condurre a significati antitetici tra loro! 

 

IL BANDO DI PARTECIPAZIONE
 

STILE EUTERPE VOL. 4
«IL 'LIBBRO' DI GIANNI RODARI»


Raccolta tematica organizzata dall' Associazione Culturale Euterpe. Speciale partecipazione ai minori con favole, fiabe, novelle, piccoli racconti, ninne nanne, scioglilingua, filastrocche, storie raccontate.

Un «libbro» con due b sarà
Soltanto un libro più pesante degli altri,
o un libro sbagliato,
o un libro specialissimo?

Il redattore della rivista di letteratura online “Euterpe”
Martino Ciano ha ideato il progetto Stile Euterpe – Antologia tematica per una nuova cultura, volto a rileggere, riscoprire e approfondire mediante opere di produzione propria (racconti, poesie, articoli, saggi e critiche letterarie) un intellettuale di prim’ordine del panorama culturale italiano del secolo scorso.

I volumi già editi sono:
- AA.VV., Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà, a cura di
Martino Ciano, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2015, 124 pp., ISBN: 9788894038859.
- AA.VV., Aldo Palazzeschi, il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico, a cura di
Martino Ciano, Lorenzo Spurio, Luigi Pio Carmina, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016, pp. 212, ISBN: 9788899325275.
La selezione di materiali per il terzo volume, Elsa Morante, rivoluzionaria narratrice del non tempo, a cura di
Valentina Meloni nel 2017 non ha permesso la pubblicazione di un volume ma i materiali sono stati pubblicati nel n°22 della rivista (febbraio 2017).


Il progetto

Ogni edizione i redattori della rivista sceglieranno un autore contemporaneo.
Quest’anno i partecipanti potranno inviare saggi, racconti e poesie che siano fedeli allo stile, alle tematiche e al curriculum letterario che ha caratterizzato la figura intellettuale di Gianni Rodari. Il volume porterà il titolo di Il «libbro» di Gianni Rodari con riferimento ad alcune sue considerazioni apparse in Grammatica della fantasia (1937) in cui si legge:
«Un “libbro” con due b sarà/ Soltanto un libro più pesante degli altri,/ o un libro sbagliato,/ o un libro specialissimo?».

Per la partecipazione all’iniziativa editoriale bisognerà riferirsi all’opera dell’autore, alle sue fasi e percorso letterario, ai suoi luoghi cari e alle tematiche di fondo della sua carriera di scrittore di fiabe, racconti, narrazioni nonché di pedagogista, giornalista e teorico del mondo del mirabolante. Gli autori potranno anche ispirarsi direttamente ai personaggi delle sue narrazioni, ampliandone i caratteri o provvedere a sequel o prequel di narrazioni già note mediante la narrazione di Rodari all’ampio pubblico.
L’obiettivo non è quello di plagiare o scovare il nuovo Gianni Rodari, bensì omaggiare o rileggere lo stile dello scrittore di Omegna attraverso un’antologia tematica, aperta soprattutto a coloro i quali hanno apprezzato il serio impegno dell’autore nei riguardi del mondo dell’infanzia (ma non solo). In questo modo Euterpe vuole dare risalto ad autori che, benché siano piuttosto noti da poter definire ‘classici’ risultano spesso un po’ sommersi o letti in chiave meramente ludica e semplicistica com’è il caso di Rodari. 


Selezione del materiale e composizione dell’antologia

I partecipanti potranno presentare:
- 2 poesie/ filastrocche/ ninna-nanne (massimo 30 versi l’una)
- 1 racconto/ favola/ fiaba (massimo cinquemila caratteri spazi esclusi)
- 1 saggio breve o articolo (massimo cinquemila caratteri: spazi, note a piè di pagina e bibliografia escluse);
- 1 recensione a un suo libro (massimo cinquemila caratteri spazi esclusi)
-1 intervista (allo stesso autore o a terzi nella quale risulti ben centrato il tema dell’infanzia o il riferimento a Rodari).
La novità di quest’anno è rappresentata dalla possibilità di partecipazione anche da parte di minori: bambini, ragazzi e adolescenti (sino all’età di 18 anni) e scuole che potranno inviare, grazie all’aiuto e alla disponibilità dei genitori, tutori, insegnanti o di chi ne fa le veci, le loro produzioni: favole, fiabe, novelle, piccoli racconti, ninne nanne, scioglilingua, filastrocche, storie raccontate.
Ci si può candidare a un massimo di due sezioni.
I lavori, corredati dei propri dati personali e un curriculum letterario, dovranno essere inviati a rivistaeuterpe@gmail.com entro il 31-12-2018.
L’organizzazione del futuro volume sarà promossa dalla Redazione della Rivista di letteratura Euterpe e l’opera verrà curata dal critico letterario prof.
Francesco Martillotto.
Entreranno a far parte dell’Antologia un congruo numero di testi poetici, narrativi e saggistici nonché recensioni, articoli e critiche letterarie alle sue opere o eventuali adattamenti cinematografici di storie narrate.
La pubblicazione dell’antologia, che avverrà entro la primavera del 2019, sarà dotata di regolare codice ISBN, immessa nel mercato librario online e disponibile alla consultazione e al prestito in alcune biblioteche del catalogo OPAC della penisola dove verrà depositata.
La partecipazione alla selezione dei materiali è, come sempre, gratuita.
L’autore selezionato per la pubblicazione s’impegnerà ad acquistare nr. 2 (DUE) copie dell’antologia al prezzo totale di 20€ (spese di spedizione incluse con piego di libri ordinario) dietro sottoscrizione di un modulo di liberatoria rilasciato alla Ass. Culturale Euterpe e versamento della cifra direttamente alla casa editrice.
Non vi sarà una premiazione, non essendo il progetto volto alla costruzione di una classifica di premiati. Tutti i selezionati verranno pubblicati in antologia secondo i criteri sopra esposti. In base ai tempi di selezione e pubblicazione dell’antologia, sarà scelta una location dove verrà presentata l’opera alla quale gli autori presenti nel testo sono caldamente invitati a intervenire. Gli autori hanno altresì diritto e facoltà di proporre all’organizzazione eventuali luoghi e date, in vari ambiti del territorio nazionale, dove il volume – con il loro appoggio e aiuto – potrà essere presentato al pubblico.

www.associazioneeuterpe.com
rivistaeuterpe@gmail.com
ass.culturale.euterpe@gmail.com