giovedì 31 maggio 2018


Diego RIA – “Odore di Margherita” (racconto breve)

 
Carlo riconobbe subito quel profumo. Gli entrò nel naso come un vento tropicale e, con la velocità del fulmine, gli strinse cuore e stomaco in una morsa calda. Le sue guance avvamparono, erano otto mesi che non sapeva niente di lei, e ora era lì, nell'aria intorno a lui. Posò la tazza che stava tenendo vicino alle labbra e si voltò lentamente. Trasse un respiro, per orientarsi tra la decina di tavoli di quel caffè e vide, a tre passi da lui, la fonte di quell'inconfondibile misto di patchouli, vetiver e chissà cosa che dominava ogni sua immaginazione emotiva.
Lei era di spalle, con la chioma di capelli castani un po' più lunga di quel che ricordava e un vestito molto più appariscente di quelli con cui l'aveva vista al bar, da lui. L'uomo che le stava davanti aveva un'aria scanzonata e affascinante e parlava svelto mentre, con la mano, dondolava il bicchiere. Lui non l'aveva mai visto. Margherita era solita scendere per pranzo con Maria e altre due impiegate delle assicurazioni Pegaso. Si erano sedute allo stesso tavolino per un anno intero, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, alle 13.15 in punto, e per tutto quel tempo Carlo le aveva servite col cuore in gola, immergendosi un passo alla volta nell'odore di lei, fino a venirne completamente dominato. Era una fragranza particolare, non del tutto femminile con quelle note legnose e muschiate, ma aveva qualcosa di sfuggevolmente dolce e, soprattutto, emanava da lei.
Carlo se n'era innamorato a prima vista, il giorno stesso in cui l'aveva vista entrare. Conosceva già Maria e, quando gli presentò la nuova collega, rimase immobile a balbettare un tanto piacere. Non era mai riuscito a scambiare due parole con Margherita. Né lei né le altre due parlavano mai con Carlo, al di là dell'ordinazione, solo Maria gli buttava lì due domande quando si spostavano al bancone per il caffè. Un ottimo caffè. Carlo era un grandissimo barista. Col suo olfatto riusciva a distinguere le varie miscele e coglieva anche la minima nota di bruciato ma, quando si avvicinava Margherita, quell'odore improbabile e pungente lo catturava e continuava a stazionare nella sua testa per ore.
Carlo sapeva di non essere brillante con l'altro sesso, ma l'attrazione per lei era cosi forte che, quando le vedeva entrare e sedersi, lasciava il bancone per precipitarsi al loro tavolo e si posizionava sempre all'angolo tra Maria e Margherita per segnare l'ordine, in modo da inebriarsi e lasciarsi compenetrare dall'unica cosa che poteva avere a lei: il suo odore. Si era convinto di avere un legame con quella donna, come se quella fragranza fosse un filo invisibile che li aveva uniti e folgorati anche nella lontananza o nell'indifferenza. Cercava anche di migliorarlo quell'odore che, in fondo, non si adattava bene alla bellezza di lei. Provava a ornare il tavolo al quale si sarebbe seduta con diversi tipi di fiori profumati, oppure aggiungeva del basilico o della menta fresca nell'insalata che, di solito, lei prendeva, ma i suoi tentativi erano inutili: la fragranza dura e vagamente dolce che pervadeva il corpo di Margherita dissolveva con noncuranza i suoi tentativi di modificarla.
Quando aveva del tempo libero, girava per le profumerie e chiedeva di provare i prodotti più strani nella speranza di riuscire a imbattersi nell'essenza della sua amata. Sognava di immergersi in quel profumo e di pararsi di fronte a lei, credeva che la consonanza di odori avrebbe attivato una sorta di estro animale. Grazie al suo olfatto era riuscito a riconoscere e isolare le tonalità principali di quella fragranza, ma alcune delle note minori ancora gli sfuggivano per comporre il tutto.
Un giorno, poi, Margherita non si era presentata a pranzo. Maria e le altre due parlavano concitate al tavolo ma, quando Carlo si avvicinava per servirle, abbassavano il tono e aspettavano che se ne andasse per ricominciare. Lui non ci aveva fatto troppo caso, Margherita era mancata altre volte, per piccoli malanni o per ferie, ma poi era sempre riapparsa e il suo odore era riapparso con lei. Quella volta però non tornò. Passarono i giorni, poi una, due settimane e, quando Maria e le altre si presentarono a pranzo con una nuova collega, Carlo capì che era finita, che quell'odoroso filo immaginario che l'aveva unito in devoto e cieco amore con la sua adorata Margherita era stato spazzato via da un qualche tipo di tempesta di cui non trovò mai il coraggio di chiedere a Maria.
Ma ora lei era lì. Il destino aveva distribuito un altro giro di carte e Carlo aveva pescato un jolly. Annusò ancora l'aria, come a godersi la conferma di quello che sapeva benissimo e, incurante di tutto, si avvicinò alla coppia chiamando ad alta voce Margherita. La donna si voltò, sgranò gli occhi e sbatté furente il tovagliolo che aveva in mano sul tavolo. L'uomo allungò un braccio per trattenerla e con voce supplicante le disse: «Amore, ti prego».
Poi lanciò uno sguardo severo a Carlo. «Lei chi diavolo è?» sibilò.
Carlo era perplesso. Guardò meglio la sconosciuta e si grattò il mento. L'aria era pervasa dall'odore di Margherita ma lei non c'era.
«Insomma, che vuole?» disse l'uomo spazientito, tenendo sempre una mano sul braccio della donna, come per proteggerla e trattenerla allo stesso tempo, mentre gli occhi di lei iniziavano a inumidirsi.
Carlo si voltò verso l'uomo e credette di capire. Quel profumo arrivava da lui, non da lei. La fonte originale di quella fragranza doveva essere quel tipo brizzolato e distinto che lo guardava con occhi fiammeggianti, infatti calzava a pennello alla sua raffinata figura. In un baleno la storia fu chiara e, incurante della sofferenza che stava evidentemente causando con quell'intrusione, Carlo chiese: «Dov'è Margherita?».
La donna si liberò con uno strattone e corse fuori dal locale coprendosi il volto. L'uomo si alzò di scatto e afferrò Carlo per il bavero della camicia: «Allora, chi sei?».
«Lavori alle Pegaso? » chiese Carlo. Non aveva paura, non provava niente. Voleva solo Margherita.
«Le Pegaso sono mie, imbecille», rispose lui lasciandolo. «Ma se credi di ricattarmi... Mia moglie sa tutto e stiamo cercando...».
«Voglio solo sapere dov'è Margherita», lo interruppe Carlo. Non gli fregava niente di quell'uomo, del suo matrimonio, del modo in cui aveva profumato Margherita. La sua mente aveva già cancellato tutto. Lui voleva solo ritrovare il suo amore. L'uomo soppesò la situazione per un istante, temeva una scenata e in quel locale era troppo conosciuto per potersela permettere: «Abbiamo deciso che era meglio trasferirla in un'altra filiale. Via Battelli, quartieri nord», aggiunse per anticipare la nuova domanda. Poi si voltò per seguire la moglie, ma la voce di Carlo lo fermò: «Un'ultima cosa. Come si chiama il tuo profumo?».
«Cosa?».
«Il profumo che porti addosso. Come si chiama?».
«Tu sei matto».
«L'ho cercato in ogni profumeria della città. Dove lo prendi?».
L'uomo valutò nuovamente la situazione. Gli avvenimenti dell'ultimo periodo l'avevano reso meno impulsivo: «Si chiama Notti d'Oriente. Non si trova nelle profumerie, me lo faccio spedire direttamente a casa. E ora sparisci».
Il giorno seguente Carlo si piazzò su una panchina di via Battelli, tra la filiale delle assicurazioni Pegaso e il bar pranzi veloci più vicino. Aveva preso un giorno di ferie tutto per Margherita e, infine, lei era uscita da quel portone, alle 13.10 in punto e si era avviata proprio nella sua direzione. Quando fu a un metro, lui si alzò e le si parò davanti.
«Margherita», disse.
Lei ebbe un moto di sorpresa ma, guardandolo nel volto, lo riconobbe. Si rese conto di non ricordare il suo nome, così tossicchiò, sorrise e disse: «Oh, ciao. Che ci fai da queste parti?».
«Sono qui per te», rispose Carlo inspirando forte.
Margherita si portò un braccio al petto e fece un passo indietro. Carlo chiuse gli occhi, l'aroma caldo e floreale della donna gli entrò nei polmoni. Lo sentì risalire lungo le vene, per tutti gli arti, fino alle appendici. Lo sentì familiare, rassicurante. Così calzante alla figura diafana e slanciata di lei da infondergli pace e coraggio.
«Volevo sapere di cosa odori veramente», le disse.
Lei soffiò via un sorriso perplesso: «Cosa?».
«In fondo al cuore, ero certo che non potevi sapere di Notti d'Oriente».
Margherita sgranò leggermente gli occhi, si perse qualche secondo tra i propri pensieri e lasciò ricadere il braccio lungo il corpo. «Odoro di stupida, probabilmente», disse.
«No», disse lui, fissandola intensamente. «Odori di violetta, calla, quasi certamente lillà e un'altra cosa che ora non mi viene proprio».
Lei sorrise: «Ed è un buon odore?».
«Il migliore che abbia mai sentito. Anche più di una 100% arabica tostata lentamente a mano».
«Sembra un complimento» disse piano lei.
«Si, lo è», rispose Carlo guardandosi la punta dei piedi. «Ma andiamo», continuò indicando il vicino bar: «La tua insalata». E si avviò verso il locale.
Margherita guardò quello strano tipo camminare verso il bar con le mani in tasca. Si sforzò un'altra volta di ricordarne il nome ma non le veniva proprio. Si ricordò di non aver mai scambiato una parola con lui e non capiva bene cosa volesse, cosa stesse succedendo. Lo vide raggiungere l'ingresso del bar, voltarsi e chiamarla con un ampio gesto della mano.
«Sì, arrivo», gli urlò Margherita. Appena lo vide entrare nel locale, si guardò attorno per assicurarsi che nessuno la stesse guardando, si portò il polso al naso e annusò forte. Poi rise di quella sciocchezza, lei profumava di fiori e non aveva niente di cui vergognarsi. Guardò il cielo sereno, aprì le braccia per allargare i polmoni e inspirò l'azzurro di quella stupenda giornata ed era come se l'aria tersa dilavasse via lentamente dalla sua coscienza la sciocca, l'ingenua, la puttana che l'avevano tormentata negli ultimi mesi e le restituisse una pura e semplice Margherita. E si sentì felice, la prima volta da molti, molti giorni. Si sentì giusta, pulita, profumata. La testa di Carlo fece capolino dall'ingresso del bar. «Margherita», chiamò. «Vieni».
Dovrò chiedergli come si chiama, pensò Margherita, e continuò a respirare il cielo. 
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(c.b.) «Carlo riconobbe subito quel profumo. […] Trasse un respiro, per orientarsi tra la decina di tavoli di quel caffè e vide, a tre passi da lui, la fonte di quell'inconfondibile misto di patchouli, vetiver e chissà cosa che dominava ogni sua immaginazione emotiva». È l’esordio della storia di Diego Ria, nella quale il protagonista, per riuscire a individuare la provenienza dell’essenza odorosa di una donna “desiderata”, assente da tempo (da riscontrare, in schemi favolistici classici, nell’allontanamento volontario dell’eroe e forzato della vittima, dal “rifugio” o “Castello-casa”, altrimenti dal “valore amato”), suscita tematicamente il leitmotiv dell’avventura condivisa con noi. Pur conoscendone, infatti, e descrivendone nel dettaglio la natura, per consentire di rintracciarla vuole spostare il clou dell’obiettivo dell’indagine, tentando, invece, di scovarlo “orientandosi” in un ambito ampliato della sua possibile “ricomparsa”.
In un parallelo di indirizzo utopico (nonostante ben documentato in scala operativa), vorrei allargare in matrice maieutica il consiglio investigativo del personaggio di Ria al campo della detection critica, al fine di decifrare il contenuto globale tipico del racconto: essendo stata sempre, del resto, una fautrice convinta di metodologie ermeneutiche legate all’espansione dell’orizzonte di riferimento poetico. Nell’esegesi di un brano di prosa o poesia, infatti, per interpretarli reputo molto utile identificare o segnalare citazioni esterne da paragonare al contesto. Sono d’accordo con il grande Mario Fubini su come, adottando un simile prezioso mezzo chiarificatore, nessun accorgimento o parafrasi di scrittura riesca in tal modo, né intenda, fissare nella mente del destinatario un alter-ego esaustivo dell’effettiva opera considerata: con precisi meccanismi stilistici, le medesime “citazioni interne” e, in questo caso, con l’onda lunga del profumo irripetibile del relativo costrutto evocativo, insomma il complesso poetico concreto formulato in primis dall’autore.
Eppure, nella dinamica di percezione del messaggio, i ricercatori delle maggiori scuole critiche ritengono proficuo in campo strumentale favorire una pratica equivalente. Come, ad esempio, accogliendo l’affascinante mosaico tecnico-espressivo incrementato da Diego Ria, risulta adeguato confrontarne lo sviluppo semiotico con la semantica delle fiabe popolari e tradizionali russe studiate dal linguista e antropologo Vladimir Propp; in particolare, usufruendo dell’approfondimento ulteriore compiuto nel repertorio (o meglio sulla logica di possibilità narrativa in esso inserita) da Claude Bremond, saggista e semiologo contemporaneo.
Quindi, in virtù della salda efficacia dell’itinerario di lettura delineato da Odore di margherita, tra significanti e significati di fragranza e aroma, vaghiamo dentro e fuori l’articolata mini-detective story di Carlo e Margherita, rigorosa nell’offrire piste indagative, veritiere e ingannatrici, unite dallo scorcio di un ipotetico e prossimo status finale. Otteniamo così l’esito - per noi, prima che per altri - di scoprire, con lo sguardo limpido di un arco empirico potenziato da testi differenti ma coerenti, la sfera più vasta di un certo stile di vita della personale esperienza etica e sociale: attiva e inquietante nel topos del bar dove lavora Carlo e, di solito, consumano il pranzo le dipendenti e il manager della compagnia assicurativa Pegaso.
Ne scaturisce un’umanità resa in chiave realistica e poi sublimata in veicolo (semi-conscio o volontario) del complesso polisemantico del profumo, elemento essenziale della coesione narratologica costruita da lessico e piano referenziale. Seguendo, infatti, la griglia di regole di simulazione e dissimulazione intessuta da Bremond nell’analisi dei parametri delle antiche civiltà elette a prototipo, l’input della vicenda di Diego Ria consisterebbe nello sbaglio dell’eroe, qui commesso dal giovane cameriere scambiando l’identità della persona “portatrice” dell’aroma preferito: dunque, il tenace paladino di tale coinvolgente circuito cognitivo di “svelamento” sembra investire con attinenza un incarico consono a quello centrale del microcosmo russo, non per questo trascurando il valore unico dell’individuum di cui è frutto inedito. L’allusione all’antico repertorio è quando il protagonista, essendo stato “colpito da cecità” - nel nostro caso sostituita nel senso dell’olfatto fallace - era costretto a subirne le gravi ripercussioni. Doveva, pertanto, affrontare un tragitto denso di travagli, al fine di sanare l’equivoco iniziale (fugandolo con estro e coraggio fisico o d’animo) per discernere le tracce in grado di ricondurlo alla fanciulla smarrita. L’“aiutante” nell’impresa sarà, però, lo stesso “oggetto magico”, la fragranza inebriante: dalla coincidenza dei ruoli canonici emergerà una sorta di intrigo avvincente.
Del resto, la Margherita del racconto moderno è autrice, da parte sua, di un misfatto, sarebbe a dire l’aver espletato una specie di inadempienza o mancanza di lealtà pertinente  alle categorie universali del comportamento umano, perché divenuta l’amante del capufficio (un uomo sposato) tra le pagine della story. Per proprio conto estingue in ciò, da succube a trasgressore, un castigo simboleggiato dalle malelingue che la stimano una «sciocca, ingenua puttana». Ed ecco Diego Ria decidere di impiegare una variante assai ricca di trascinanti prospettive, scegliendo di scartare il peggioramento del danno da riscattare con il promuovere una nuova fase di riparazione alle pesanti conseguenze: evitando quindi la più probabile, cioè la vendetta, spesso realizzata dalle vittime (Carlo e la moglie tradita).  
Cosa succede, allora? Il narratore inaugura, con il personaggio principale, un iter alimentato da modalità di miglioramento, rappresentate dall’occasione, per i presunti colpevoli della disobbedienza, di guarire. Nell’intervallo conclusivo della trama-intreccio leggiamo, appunto: «“Sì, arrivo”, gli urlò Margherita. Appena lo vide entrare nel locale, si guardò attorno per assicurarsi che nessuno la stesse guardando, si portò il polso al naso e annusò forte. Poi rise di quella sciocchezza, lei profumava di fiori e non aveva niente di cui vergognarsi. Guardò il cielo sereno, aprì le braccia per allargare i polmoni e inspirò l'azzurro di quella stupenda giornata ed era come se l'aria tersa dilavasse via lentamente dalla sua coscienza». Intanto: «La testa di Carlo fece capolino dall'ingresso del bar. “Margherita”, chiamò. “Vieni”».
Infine, il sacrificio, nel doppio carattere di esclusione e protezione pagato dal loro eventuale vincolo amoroso per godere di un futuro seppure lontano, termina il capitolo espiativo, quando la donna, in un dialogo interiore, pensa: «”Dovrò chiedergli come si chiama” […] e continuò a respirare il cielo». Ma quale volta celeste? Quella eterna in cui il misunderstanding consiste non nell’atto in sé di frantumare le leggi della norma convenuta e imposta, ma nell’illusione genuina di poter infrangere impunemente un modus vivendi obbligato e autoritario. L’Io narrante di Diego Ria comunica quanto sia opportuno, ancora oggi, combattere - anche con lo strumento della poetica - allo scopo di invalidare umiliazioni e preconcetti inutili, dolorosi e inibitori.

 

giovedì 24 maggio 2018


Carlo SIMONELLI – “Il peso leggero dell’innocenza” (racconto breve)
 

Quando si sentiva triste, la sera si avvicinava al parapetto, vi poggiava le braccia e guardava lontano. La distesa d’acqua, a toccarla con gli occhi era a un centinaio di metri, ma se voleva bagnarsi i piedi doveva scendere da un sentiero, ripido e stretto, che tagliava per le rocce sabbiose, poi per i campi coltivati, e camminare ancora per un pezzo prima di raggiungere la spiaggia. A guardare di sotto, non si vedevano che spuntoni aguzzi, d’un bianco sporco, ma don Felice non ci guardava, perché soffriva di vertigini. Si limitava a pensare ai fatti del giorno, a sua madre, a quel paese dove era stato spedito due anni prima e al sole rosso che gli scuriva il volto non meno dei pensieri. E il cupo peso della vita gli poggiava sulle spalle e premeva fino a lasciarlo senz’aria, un vecchio spirito gli rubava gli sguardi prima che arrivassero a toccare l’orizzonte. 
Quando era partito, tanti s’erano chiesti il perché, e certo i più avevano già una risposta pronta da dare, anche se non tutte uguali, ma nessuno al suo arrivo nella nuova parrocchia s’era fatto domande. I religiosi vanno e vengono secondo la volontà di Dio e dei superiori.
Don Felice non se l’era chiesto, il perché, e forse era l’unico che ne avrebbe avuto il diritto e avrebbe dovuto farlo. Alla comunicazione del trasferimento aveva abbassato il capo, con cristiana accettazione, aveva esitato un attimo prima di aprire bocca, e con un filo di voce aveva chiesto quando doveva partire. Appena si venne a sapere del suo comportamento, per la gente fu tutto chiaro. Non si trasferisce un parroco senza un motivo, bastava semplicemente scavare tra i ricordi e qualche colpa sarebbe venuta fuori. Nei paesi si sa sempre tutto, non ci sono paesi dove si può vivere lasciando tutti all’oscuro di ciò che si fa. E lui faceva. E la gente sapeva. E lui meno faceva e più la gente sapeva.
Li avevano visti uscire dalla parrocchia accaldati e sudati, coi vestiti sgualciti e sporchi, e a volte anche strappati, quei bambini. E da quando avevano imparato ad andare in parrocchia ritornavano sempre più tardi e tra rimproveri e botte raccontavano di aver giocato a pallone o ad acchiapparella. Quando vennero a mancare dei cimeli in chiesa, si sapeva dove erano finiti; in quale stanzino chiuso a chiave; occhi buoni li avevano visti caricati di notte su un’Ape gialla da ombre che bestemmiavano, e portati chissà dove, chissà perché. Tante cose di valore avevano fatto la stessa fine, e quando la famiglia di don Felice cominciò a fare qualche lavoretto in casa pure i più incerti si ricredettero.
Come se non fosse bastato, anche quella ragazza rimasta incinta a sedici anni era stata un colpo a un alveare, uno sciame di dicerie che ronzavano impazzite nell’aria e pungevano a caso chi capitava a tiro, chi si trovava sul proprio mormorio. Era timorata di Dio, certo, e allo Spirito Santo i buoni fedeli erano disposti a credere e ci credevano fermamente quando parlavano di fatti avvenuti per certo solo duemila anni prima, ma al giorno d’oggi poteva essere solo un espediente ingenuo per discolparsi, non poteva essere vero. Soprattutto se lo Spirito Santo, con tanta gente dabbene che c’era in paese, si era presentato alla figlia di Giovannino del Mercato, carpentiere. I sospetti su chi fosse lo Spirito Santo si restringevano a tre o quattro dei dintorni, tra i quali quel don Felice che ogni giorno se la ritrovava nel confessionale, a qualsiasi ora.
Così, quando si seppe la notizia del trasferimento, nessuno si meravigliò. Tutti pensarono che qualche lettera anonima fosse giunta al vescovo, o più d’una, e che finalmente quel sant’uomo aveva fatto il dovere del suo ministero. Sissignore, era ora!
Non s’era mai abituato alla nuova parrocchia e non aveva mai legato con i nuovi parrocchiani, non che fossero cattivi, ma era lui che li teneva a distanza, l’esperienza gli aveva insegnato che l’uomo è malvagio, nel suo corpo vi si annida il demonio e per non farsi tentare e sbranare bisogna tenerlo a distanza, e lui così faceva col bastone dell’indifferenza, che tirava fuori ogni volta che qualcuno tentava di avvicinarsi troppo ai suoi sentimenti. Quando si cercava di guardargli nel fondo dell’animo.
A mettergli ancora più tristezza era sua madre, malata, e lui sapeva che pur raccontando in giro della fortuna che le era capitata di avere un figlio con la vocazione avrebbe voluto dei nipoti e non ritrovarsi la casa vuota e sbiadita, dove nuvolette di polvere galleggiavano a mezz’aria tagliate dai raggi di sole che penetravano dalle finestre, stanze vuote restituivano l’eco di una sterile vita di privazioni, nella quale si sentiva da anni puzzo di morte.
Un giorno, mentre era in canonica squillò il telefono. Era la moglie di Giovannino del Mercato che lo pregava di battezzare suo nipote, che avrebbero voluto che fosse proprio lui a farlo, perché lo conoscevano e il nuovo parroco era di un’altra pasta, superficiale per le cose dell’anima, aveva sì la vocazione, questo non lo metteva in dubbio, ma voleva farlo da lui questo battesimo. A don Felice parve strano, ma non seppe dire di no.
Il bambino era appeso al petto della giovane madre, tutta vestita di bianco come una sposa. I parenti occupavano due file di panche e si riconoscevano dai vestiti pacchiani e le facce rosse di vino e di fatica. Quando l’acqua gli bagnò la fronte, il neonato cominciò a strillare e piangere.
Fu allora che don Felice alzò gli occhi e incrociò lo sguardo con quello severo di un uomo che gli sembrava di conoscere, ma non riusciva a ricordare chi fosse. E più cercava di legare quella faccia a un nome, a un’esistenza, e più gli si annebbiava la mente, si cancellavano i ricordi, gli si sovrapponevano. Le nuvole che aveva visto la sera prima si addensavano, presto sarebbe venuta la pioggia. Il vento gli soffiava parole che non riusciva a sentire, che si confondevano l’un l’altra, in un turbine rumoroso si univano e lo avvinghiavano in spire strette che gli facevano perdere il fiato.
Dopo un breve capogiro si era accorto, così, che tutti lo stavano fissando, che i fedeli si aspettavano che dicesse qualcosa. S’era interrotto nel mezzo di una frase e dalle navate attendevano che continuasse, ma non sapeva cosa avesse detto prima e dove fosse rimasto. A pensarci bene, non gli veniva in mente nemmeno chi potesse essere quella bianca sposa al suo fianco, quel tenero frutto mondo tra le braccia, tutte quelle bocche aperte che aspettavano una parola. E il turbine riprendeva e lo sballottava nell’immensa confusione di ricordi mai avuti, di cose mai fatte, nei cattivi pensieri del mondo. Ma l’uomo continuava a fissarlo, più degli altri, lo teneva in suo potere, un potere maligno, mentre la sua mano a mezz’aria ancora lasciava cadere un rivolo d’acqua sulla creatura, finiva per terra, bagnava il marmo consunto dai secoli.
Fu in quel momento che don Felice, guardando il bambino, pensò a sua madre, la sua stessa testa liscia dai pochi capelli bruciati, il dolore e il pianto incontrollato, la fatica della malattia che le consumava ogni giorno le ossa, bianchi gessetti che non lasciavano traccia sulla lavagna di una vita, e la polvere che frullava a un raggio di sole posato sul tabernacolo. L’uomo era a un passo, e lo fulminava, stava di fronte come lo Spirito Santo, in mezzo ai crocifissi e alle madonne, all’odore acre d’incenso bruciato. Si aspettava, come gli altri, una sua parola che non voleva uscire, e forse non era altro che l’afonia dell’intera esistenza.
Lasciò cadere quello che aveva in mano e si mosse piano lungo le panche della navata seguito da occhi fermi e bocche aperte. Spinse il pesante portone di legno e uscì sulla piazza di fronte alla chiesa. Camminò per un centinaio di metri fino alla balaustrata, appoggiò le braccia e guardò lontano, dove le nuvole azzurre si abbracciavano e confondevano; pioveva adesso, lì in mezzo al mare, presto la tempesta sarebbe arrivata , portata dal vento, avrebbe lavato la polvere dalle strade, ma alla prima schiarita sarebbero state di nuovo sporche, nessuna pioggia può nettare dal male del mondo, nessun fuoco estirpare le colpe incerte, dietro di lui la gente era uscita silenziosa dalla chiesa e gli faceva da seguito, tenendosi a distanza.
Don Felice s’arrampicò sul parapetto come un angelo nero che sembrava ancora più scuro di quando era al fianco di quella madonna col bambino in braccio, alzò le mani al cielo, e gettato un grido in un momento scomparve di sotto, andando a finire tra le rocce che adesso s’erano tinte anche di rosso. 


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Ama, ama follemente, ama più che puoi,

e se ti dicono che è peccato,

ama il tuo peccato e sarai innocente.

William Shakespeare

 

La short story di Carlo Simonelli, emblematica nella struttura espressiva del piano referenziale del contenuto, lo è ancor più in un’aura ricca di rigore semiologico, nel senso che dal cliché elaborato dallo scrittore scaturisce una sorta di prosa dal pathos “lirico”. Il brano risulta impegnato a centrare l’obiettivo di enfatizzare il margine di segreto e mistero da cogliere al di là e dentro l’interiorità della psiche, la natura e le cose stesse. Ottiene lo scopo mirando, tra segni e segnali accurati, a sublimare la soglia delle scelte di coscienza in un resoconto di fatti in sé sufficiente, se non rinvia – per raggiungere la comprensione – proprio a emozionalità o a sentimenti fondamentali, comunque non soggetti a trasformarsi in dati univoci.
Nella trama di Simonelli, ho ritenuto stimolante l’impulso di associare la figura principale di don Felice - sebbene in un salto utopico di centinaia di anni - al mitico Parroco (The Parson), voce del racconto conclusivo dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (1387 circa). Spiegando la dinamica del peccato originale, l’uomo di chiesa chauceriano afferma: «Si può, dunque, vedere che è peccato mortale disporre, prima di tutto, del suggerimento del demonio, qui rappresentato dal “rettile”; poi dal piacere della carne, qui rappresentato da Eva; infine, il consenso della ragione qui rappresentato da Adamo».
Dopo aver chiarito, però, come il gesto oltraggioso annunciasse un capovolgimento totale della legge di Dio, è specificato quanto, pur essendo la ratio umana causa dello scivolamento nell’abisso peccaminoso - avendo privilegiato la libido carnale (e, in futuro, amorosa) dietro la spinta di Satana - né il corpo medesimo, né la volontà di trasgredire fossero gli autentici fautori della Caduta nel dolore della colpa. Piuttosto, a rivelarsi responsabile era stata un’inquietante tipologia di giudizio – nel reale concreto legata da una parte all’animo, allo spirito, dall’altra al raziocinio – perché ribelle a regole orientate ad alterarne la matrice intima e indifferenziata. In un tale ambito associativo attualizzato nei secoli, emerge un accattivante mosaico significativo di essere-apparire, di virtù e infamia.
Nelle ricerche della semantica moderna e in particolare nei settori dedicati allo strumento comunicativo letterario (ossia, la semiotica), più volte gli studiosi hanno attestato quanto la verità non consista altro se non in un effetto del senso, e la sua qualità accreditata coincida, nell’esercizio di chi la sostiene (in questo caso “narrandola”), con il rendere plausibile qualcosa e non il contrario: nel costruire, appunto, un discorso alternato tra il non “dire” vero, ma “far sembrare” vero il messaggio.
Nella storia di don Felice così illustrata, il meccanismo ermeneutico del plot è abilmente intrecciato con il point of view del protagonista, implicati a tutelare un intenso dato ulteriore di riserbo e ritegno nei confronti della presunta realtà evocata. La “natura” avanza, pertanto, tra esattezza e falsità nell’esperienza vissuta dal main character, il sacerdote Ministro del Culto Cattolico, nell’esserci del paesaggio e nelle presenze umane, “naturalizzate” nell’ordine di come vanno le cose in numerosi ambienti, in determinati tempi. Il racconto di Simonelli è paragonabile ad alcuni statuti semantici considerati da Umberto Eco, dove è sviluppata «una situazione in cui» esistono «molti fattori componenziali per un solo significante, che lo connettano a diverse posizioni in diversi campi».
In altri termini, ne Il peso leggero dell’innocenza domina un gioco di spostamenti plurimi di significati o eventualità da accreditare, in modo da favorire «vari percorsi di lettura con una competenza generalizzata» capace di coincidere, cioè, con la somma di “competenze” individuali, fonte e frutto di una convenzione, di una norma collettiva. Quale? Di sicuro quella di una morale a difesa della vita, della natura, magari potenziata da un nostro fare interpretativo basato su vicende in scala non del tutto conoscitiva (informativa), bensì di tipo fiduciario. In ultimo, lo scarto di verità e certezza ottenuto dall’autore varca l’orizzonte dell’ineluttabile ostacolo da superare per amare ed essere amati con purezza, rispetto e devozione.
L’interrompersi del colloquio con Dio, la fine dell’esistenza terrena di Don Felice, sono precedute dall’apparizione – soltanto agli occhi del sacerdote – di un uomo lì a un passo, che «lo fulminava, stava di fronte come lo Spirito Santo, oppure in mezzo ai crocifissi e alle madonne, all’odore acre d’incenso bruciato»; e dalla camminata «per un centinaio di metri fino alla balaustrata», simile a un «angelo nero», un indemoniato, un peccatore, oppure a un disperato accanto alla «madonna col bambino in braccio». Chissà, per azzardare qualsiasi ipotesi degna di fede condivisa è necessario, lo accennavo prima, gestire una convenzione “collettiva”. E Carlo Simonelli invita, con una simbologia letteraria assai personalizzata, a costruirla. (c.b.)

giovedì 10 maggio 2018


Paola FORTINI – “Profumo in scatola” (racconto breve)
 
 
Guardi sconsolata il caos che regna nell’armadio. È ormai arrivato il momento di rimboccarti le maniche e di cercare di mettere ordine tra la montagna di vestiti che rischia di crollarti addosso ogni volta che lo apri.
In mezzo a tutti quei maglioni e pantaloni neri o comunque scuri, la scatola di tela bianca è facilmente visibile.
Vorresti non aprirla e cerchi di ignorarla, ma ora che tutti gli abiti sono sul letto in attesa di essere piegati con cura e rimessi al loro posto, sul ripiano è rimasta solo la scatola.
Lo sai che aprirla ti farà perdere tempo. Lo sai che il contenuto ti riporterà nel passato e che sarai avvolta da ricordi teneri e dolorosi. Lo sai già, ma la apri lo stesso.
Eccoli là: il pigiama grigio, stropicciato e grinzoso, la vestaglia di nylon a fiorellini rosa, perfetta perché il nylon non prende le pieghe, e il guanto lungo, da cerimonia, di pelle finissima e bianca, traforato come a formare un ricamo sul dorso.
La mamma si era comprata quei guanti per la tua prima comunione, tre anni prima di morire. Te ne rimane uno soltanto. Lo prendi e, come fai ogni volta, provi a indossarlo. È piccolo ma la pelle è così morbida ed elastica che alla fine riesci ad entrarci. Poi, con la mano guantata, prendi la vestaglia e ci affondi il naso. Inspiri profondamente. Lo conosci già l’odore che senti. È l’odore della mamma. Non è più così intenso come lo era nei primi anni dopo la sua morte, quando tenevi la vestaglia con te nel letto nell’illusione di averla ancora vicino, almeno di notte.
Sono passati quasi cinquant’anni, e forse l’odore che ti sembra ancora di sentire è presente soltanto nel tuo ricordo.
È il profumo della mamma quando era già ammalata. Un misto di disinfettante e sapone palmolive. Era l’odore che sentivi quando ti sdraiavi accanto a lei, ormai ferma a letto divorata dal cancro, per farle vedere cosa avevi fatto a scuola.
Lei ti ascoltava stanca, sforzandosi di partecipare ai tuoi racconti. Ti accarezzava e ti abbracciava e tu venivi avvolta da quel suo profumo. Allora non ti piaceva molto. Quell’odore di disinfettante la rendeva malata. Ti liberavi dai suoi abbracci e correvi a rifugiarti tra le braccia della nonna o del babbo.
Loro ti dicevano di essere più affettuosa con lei e di non scappare subito via, ma tu non ci volevi stare con la mamma in quelle condizioni. Non volevi vederla così pallida e magra. Non la volevi una mamma ammalata. Le mamme non si ammalano. Quelle delle tue compagne stavano tutte benissimo.
Poi, l’ironia della vita ha fatto sì che l’unica cosa che ti rimanesse a ricordo di lei fosse proprio quella vestaglia leggera, impregnata del profumo della sua malattia, un profumo che ti avrebbe fatto sentire in colpa per il resto della tua vita.
Ti sfili il guanto e lo riponi insieme alla vestaglia nella scatola bianca. Ti annusi le dita alla ricerca di quella leggerissima fragranza di lavanda che ricordi di aver sentito altre volte. Ma non c’è più. Allora prendi il pigiama grigio e ripeti il rito. Lo premi sul viso, lo strusci sulle guance e sul naso e finalmente lo senti. L’odore di Valerio è ancora vivo. Era l’odore che sentivi, quando, specialmente in inverno, ti stringevi a lui nel letto per riscaldarti. Quando gli mettevi i piedi gelati tra le gambe e le mani sotto le ascelle e lui ti chiedeva se eri ancora un essere umano oppure se ti eri già trasformata in rettile. L’odore della sua pelle, mescolato a quello del dopobarba e del sapone di marsiglia che usava sempre per lavarsi, ti riscaldava quasi quanto il calore del suo corpo. Ti piaceva tanto addormentarti avvolta in quel profumo così caldo.
Avresti voglia di metterti a letto e dormire abbracciata al suo pigiama, ma non lo fai.
Pieghi con cura il pigiama e, mentre lo rimetti nella scatola, pensi che in fondo sarebbe bello avere qualcosa che ti ricordi il profumo di tutte le persone che hai amato e che non sono più con te. Hai foto e oggetti che te li ricordano, è vero, ma il profumo, l’odore è qualcosa di diverso. È vivo, animato. È tridimensionale. Pensa che bello se si potesse mettere sottovuoto il profumo della gente!
Ma guarda in che pensieri ti vai a perdere. Hai un armadio vuoto e un letto con una montagna di abiti neri da sistemare velocemente prima che i gatti li riempiano di peli. 
Via via che li riponi nell’armadio li annusi. Forse dovresti scegliere un maglione che profuma di te e metterlo in una scatola sigillata. Forse tuo figlio sarà felice di averlo quando non sarai più con lui. Chissà quali ricordi di te gli tornerebbero alla mente annusando questo maglione nero.
Scacci i pensieri strani e le tristezze e ti rimetti al lavoro.
Leone, che essendo cane di odori se ne intende, annusa l’aria, inizia a scodinzolare e si precipita nell’ingresso tutto felice. Lui percepisce il profumo delle persone che ama anche attraverso i muri.
Un minuto dopo tuo figlio apre la porta. 
 

Paola Fortini, sessantenne, si è appassionata alla scrittura traducendo dall’inglese racconti d’amore per una rivista. Scrive prevalentemente storie autobiografiche. Nel 2016 pubblica alcuni racconti nell’antologia Pezzo su pezzo edita da Porto Seguro, insieme ad alcuni compagni di un laboratorio di scrittura creativa. Nello stesso anno un altro suo brano viene pubblicato in una raccolta a cura dell’Associazione culturale Small Room di Firenze. Esordisce nei concorsi letterari partecipando alla terza edizione di “Incrociamo le penne”: il suo racconto Profumo in scatola si classifica al 1° posto nella sezione Narrativa. 

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          Lo scrittore, fotografo, cineasta tunisino Marcel Hanoun, contemporaneo alla Nouvelle Vague, una volta ha dichiarato: «Di tutti i sensi, l’odorato è quello che mi colpisce di più. Come fanno i nostri nervi a farsi sfumature, interpreti sottili e sublimi, di ciò che non si vede, non si intende, non si scrive con le parole? L’odore è come un’anima, immateriale».
In effetti, il profumo produce o è il frutto di un percepire, di un gustare alquanto remoto da status materiali; inoltre incline, per legge proustiana, a sperimentare sinestesia. Immateriale, dunque, a patto di ritenere di tale natura anche l’amore, l’ispirazione, la paura, la felicità, il dolore. Il racconto di Paola Fortini offre un momento prezioso di dedicata riflessione sull’animus dei lettori, verificando se collaborano o meno nel decifrare -  in virtù della simbologia suscitata da questo olfatto evocativo - l’ampiezza dei segni/segnali esatti e costruttivi di sensibilità molto concrete, veicolate però da elementi, per così dire, impossibili da toccare, perfino nel contesto illustrato in cui appaiono.
Cosa accade, quindi, a lato della protagonista della vicenda, aprendo ciascuno la propria scatola? Sappiamo dove si trova, e quando, con premura e timore, ne alziamo il coperchio, allora di sicuro scaturirà, assai attesa, la forza di una vita anteriore mai cancellata. Gli oggetti custoditi sono lì al completo: in realtà, vorremmo fossero già nostri, ma purtroppo, a causa della singolare matrice obbiettiva dell’esperienza di avvertire un profumo, non riusciamo a conquistarli da soli. Gli itinerari trapelati da quell’essenza, in qualche dettaglio, non appartengono in stretta misura alla sfera personale, nonostante siano motivati in un’intimità intensa al punto da risultare permanente e immutata.
Il linguaggio adottato dall’autrice, denso di quelle entità valutate in semiotica ad “alto grado” significative, procede manifestandosi in un andamento progressivo, per mezzo di unità semantiche patetiche e avvincenti, con l’intervento di un travolgente scambio tra le componenti lessicali e il referente. Ad esempio: «Inspiri profondamente. Lo conosci già l’odore che senti. È l’odore della mamma», oppure «Lo premi sul viso, lo strusci sulle guance e sul naso e finalmente lo senti. L’odore di Valerio è ancora vivo».
Secondo il filosofo danese Louis Hjelmslev, «qualunque segno, qualunque sistema di segni, qualunque sistema di figure organizzate in funzione di segni, qualunque lingua contiene in sé forma dell’espressione e forma del contenuto» (è ovvio, compreso anche il sistema di comunicativo dell’olfatto). Tuttavia, per mala sorte, ciò non fa sì che una tale scelta stilistica di cliché sensoriali, affettivi, ideali e fisici, abbia il potere di sancire la sussistenza dell’hic et nunc richiamato. Del resto leggiamo, a proposito della madre: «Sono passati quasi cinquant’anni, e forse l’odore che ti sembra ancora di sentire è presente soltanto nel tuo ricordo» e, riguardo al marito: «Ti piaceva tanto addormentarti avvolta in quel profumo così caldo. Avresti voglia di metterti a letto e dormire abbracciata al suo pigiama, ma non lo fai».
La Fortini gestisce con maestria l’energia utopica e metalinguistica dell’immaginare e dell’immedesimarsi compiuta tramite una fitta rete di segni e segnali consona a suggerire aspettative, alimentarle e, con realistica e impietosa efficacia, tradirle: in una mirabile dialettica intessuta nello slancio orientato verso l’esterno allo scopo di recuperare e riconciliare l’animo con gli errori, i sensi di colpa, a pari importanza con la felicità un tempo goduta in modalità legittime. Ne deriva una struttura adeguata a individuare la via eccellente e articolata di un ritorno all’immanente, in un mondo sorretto non da mere fantasie, nostalgie o pure illusioni: al contrario, i significanti e significati esibiti sono proficui per intrecciare l’impulso di desideri non inibiti nell’attuarsi - la scomparsa e morte sono dati invincibili - essendo idonei, però, a proiettare, tra una parola e l’altra, o negli intervalli e nell’avanzare del plot, un’aura giustificata dalla protagonista in qualità di veri, probanti riflessi di un vivere tuttora reale.
Dov’è il mistero? Direi di trovarlo riposto nella dote dell’Io narrante di trasmettere la pertinenza di una soggettività ricca di esiti di riferimento precisi, mai fuorvianti, sebbene a contatto con oggetti ambigui, polivalenti, perché collocati nell’interregno peculiare dell’essere stato e del divenire. È così che Paola Fortini conferma quanto gli autori (nel caso commentato, autrici) siano specialisti nell’associare (alludo allo schema logico-intuitivo del testo), nel dissociare (i giudizi di conoscenza formulati) e nel ricomporre: ossia dispongono, grazie allo spazio del Conscio, una costruzione o ricostruzione di nuove unità con requisiti per noi a sorpresa, per loro sperimentati a lungo e nel segreto della mente, del proprio amore per l’utopia letteraria. E per la vita. (c.b.)

 

giovedì 3 maggio 2018


Luisa SANFILIPPO – “Mondo frammentato” (racconto breve)
 
 
opera di Vincenzo Sanfilippo
 
                                             

Andrea si sentì d’un tratto persona inconsistente, opaca, vuota.
Non era realtà ciò che stava vivendo. Evidentemente era ancora sballottato in una situazione onirica, non si era alzato dal letto e doveva aspettare paziente, senza agitarsi, il risveglio mattutino.
Dopo alcuni istanti si rese conto che la sua mente non era annebbiata dal sonno; era andato anche in  bagno, poi si era spostato in cucina, fatto colazione e gustato un buon caffè. Con espressione stralunata più che stupita osservò ancora il tavolo.
Vi erano sparse molte penne, buste per lettere, tanto cartaceo che anelava da  tempo di essere riempito di scrittura a mano.
C’era tutto questo, tranne il computer e il tablet. Spariti. 
Si sentì denudato. Come avrebbe potuto farne a meno?  

Non avendo un’eccessiva cerchia di amici da frequentare, Andrea si accontentava di quelle centinaia di individui virtuali con i quali chattare o twittare. C’era in lui un sottile piacere nell’evidenziare costantemente su Facebook la sua immagine con foto inviate parecchie volte al giorno, scattate nel proprio ambiente domestico, o in luoghi caratteristici, invidiabili. Tali esigenze o abitudini quotidiane sono comprensibili se applicate con moderazione, equilibrio. Andrea, invece, immerso nella pratica dei social network, si aggrappava in modo eccessivo a situazioni illusorie, effimere, non trovando altro modo - forse per una sua particolare indole caratteriale - di  confrontarsi e relazionarsi con gli altri.
E quella mattina, guardando il tavolo stracolmo di tutt’altre cose a lui estranee e lontane, con voce strozzata riuscì appena a pronunciare: “Dov’è andato a finire il mio computer? Non vedo nemmeno il mio tablet! Sono entrati i ladri? Non credo. Qui è tutto ordinato, anche  la stanza è ordinata. Sono perduto!”. 

Poi Andrea pensò allo smartphone, quindi poteva ancora comunicare con qualcuno. L’aveva poggiato sul comodino nella camera da letto, doveva essere lì, naturalmente.
E invece non c’era. Sparito.
Ciondolante e percorso da forti contrazioni muscolari, si ricordò poi che da qualche parte, ben riposto, vi doveva essere il vecchio telefono di casa abbandonato da tempo. Quindi, animato da questa possibilità, riuscì a spostarsi appena verso il punto dove era sistemato il telefono. Non lo raggiunse. Si fermò esitante.
La memoria era da troppo tempo smorzata dalla pratica di attivare numeri solo inseriti sul cellulare. Quindi non poteva farne uso. Ma il pensiero della vecchia agenda telefonica lo aiutò a svincolarsi dal fastidioso dissesto emotivo, e subito dopo se la ritrovò in uno dei cassetti dove era solito conservare oggetti in disuso, o che di tanto in tanto gli potessero servire. Adesso l’agenda era diventata inconsapevolmente necessaria, preziosa. Raggiunto il telefono, si apprestò a comporre il numero dei genitori. Ma Il telefono risultava disattivato. Dovette poi convenire che ciò era normale, non avendolo più preso, da tempo, in considerazione. 
Si chiese: “Cosa fare?  Come reagire?”.  

Non trovò alcuna soluzione se non quella di uscire di casa e provare a cercare persone con cui dialogare dal vivo. Contatti umani veri e non fittizi.
Ritrovatosi sulla strada sottostante si avviò con passo sicuro, testa dritta, sguardo orizzontale, in direzione del negozio dove era solito rifornirsi di tutto ciò che riguardasse la moderna tecnologia. Poco dopo, non vedendo esposto nella vetrina nulla che potesse ricollegarlo al presente, alle ultime innovazioni, si sentì percorso da inevitabili tremori, ma cercò di mantenere, prima di entrare, un adeguato contegno, chiedendo con la  lingua impastata valide chiarificazioni. Ma il negoziante non seppe dare risposta alle sue impellenti richieste. Gli diede informazioni per ciò che riguardava televisori, radio,  registratori, macchine fotografiche…
 
“In che epoca sto vivendo?”, si chiese sbigottito, appena uscito su strada.
“Non c’è niente che possa ricollegarmi al mio presente. Io ho bisogno di parlare con qualcuno, devo trovare un amico con cui confidarmi, esprimere la mia totale confusione, metterlo al corrente di tutto, aiutarmi a superare questo mio, spero, momentaneo scompiglio mentale”. 

Andrea si ricordò allora che dalle parti di casa sua abitavano alcuni amici con i quali era solito chattare. Tra questi vi era Stefano, che reputò il più disponibile e confidenziale. L’amico gli confessò che anche lui avrebbe dovuto chiamarlo per incontrarsi, trascorrere magari qualche serata insieme ad altri amici; ma anche per  discutere, esprimere ognuno le proprie opinioni… parlare soprattutto della precarietà del loro futuro, delle effettive difficoltà - essendo giovani - di introduzione al lavoro.
Da quando si erano conosciuti c’era stata poca frequentazione tra loro; avevano quasi sempre comunicato attraverso i social. “Come mai Stefano non ne ha accennato?”, pensò Andrea dopo un po’ che l’amico l’aveva accolto con molta affettuosità. Osservando però che nella sua abitazione non vi era niente con cui poter comunicare, tranne il telefono di casa, timidamente e per non  metterlo in imbarazzo lo rese partecipe di ogni cosa. 

“Che dici? Internet..? Email, Facebook…Twitter, chattare? Veramente? Esiste tutto questo? Dimmi tutto, informami, io non sapevo…”. 

Andrea glielo comunicò, e Stefano, non senza fatica a trattenere lo stupore, rilevò che la fantastica visione di materiali innovativi faceva parte di un bel sogno premonitore, e che quindi la nuova, sospirata tecnologia sarebbe venuta alla luce, un giorno quanto prima possibile. Qualcosa d’inatteso, rivoluzionario, sarebbe accaduto.
Doveva aspettare nuovi eventi. Solo aspettare…

Fu a questo punto che Andrea si svegliò. Questa volta veramente.  

 

 
La prima particolarità del messaggio costruito da Luisa Sanfilippo nel racconto Mondo frammentato - attraverso le orme di un sogno illustrato, così come lo ha vissuto il protagonista - appare quasi fosse, nel plot elaborato, una volontaria conferma letteraria, poetica, della chiave interpretativa dei sogni inaugurata da Sigmund Freud: nel senso che il padre della psicoanalisi, all’alba del Novecento, adottò la scelta di decodificare l’aura onirica per tentare di chiarire l’ambito dell’Inconscio, con l’obiettivo di identificarne i condizionamenti e la presenza di segni e segnali nella dimensione concreta, gestiti dalla sfera conscia. L’insigne medico viennese, avanzando lungo tappe progressive dei contesti sognati dai pazienti, intendeva aiutarli a comprendere i problemi (ossessioni, nevrosi, paranoie) dei rispettivi atteggiamenti ad “occhi aperti”, favorito dalla scoperta delle radici motivazionali alla loro fonte.
Nel corso dell’itinerario, nel microcosmo condiviso durante il sonno dall’Io narrante, in Mondo frammentato procede una realtà - sia pure avveniristica nell’immaginario - in grado di esplicitare la tangibilità delle cose smentendone l’ascendente falsificatore, da decenni nemico della naturalità autentica dell’interscambio umano. Andrea, di conseguenza, agli inizi in uno stato di veglia illusorio o di metasogno, pensa di alzarsi e – dopo il breakfast e un buon caffè – nella cucina dell’appartamento osserva il tavolo: «Vi erano sparse molte penne, buste per lettere, tanto cartaceo che anelava da tempo di essere riempito di scrittura a mano. C’era tutto questo, tranne il computer e il tablet. Spariti. Si sentì denudato. Come avrebbe potuto farne a meno?». In breve avverte anche la mancanza dello smartphone: allora sopraggiungono imbarazzo e timore in un inquietante e completo smarrimento.
Lo studioso francese Yves Delage, citato nelle opere freudiane, precisa: «Insomma, il sogno è un prodotto del pensiero vagante senza meta e senza direzione, che si fissa successivamente sui ricordi che hanno mantenuto sufficiente intensità per porsi sul suo cammino e fermarlo quando passa, stabilendo tra di essi un legame ora debole e incerto, ora più forte e stretto, a seconda che l’attività del cervello, in quel momento, è più o meno abolita dal sonno». Ma le tracce della mémoire del nostro disorientato personaggio risultano, chissà quando, cancellate, perché è proposto un quid in fieri relativo al già sperimentato, al superato. Quindi, la struttura semiotica organizzata dalla Sanfilippo anima con efficace vigore un souvenir inconscient (ricordo inconscio) il quale, svincolato dalla memoria fattiva, è in uno status regredito e concluso e, in altri termini, irreale, in analogia a quanto spesso si verifica se siamo accolti nell’abbraccio soporifero di Morfeo.  
Pertanto, il main character della storia, ormai fuori casa, chiede sbigottito: «In che epoca sto vivendo?” “Non c’è niente che possa ricollegarmi al mio presente. Io ho bisogno di parlare con qualcuno, devo trovare un amico con cui confidarmi, esprimere la mia totale confusione, metterlo al corrente di tutto, aiutarmi a superare questo mio, spero, momentaneo scompiglio mentale». Come rinvenire la gerarchia di significato dispersa? La via d’uscita è unica: scavalcare la necessità causata dalle realtà mass-mediali odierne e recuperare ogni rapporto diretto tra gli uomini a loro antecedente.
La fantasia, a parere di Sigmund Freud, non è un linguaggio concettuale: «Ciò che essa vuole esprimere lo deve rappresentare visualmente, e poiché in questo caso il concetto non interviene a indebolire, essa dipinge con tutta la pienezza la forza e la grandezza dell’espressione pittorica». Infatti, l’intelaiatura tecnico-ideativa dell’esperta scrittrice riesce, per magia e competenza semantica, a simboleggiare in misura perfetta (per mezzo di una trama-intreccio dinamica e cronologica del riflettere/agire) gli stadi di una presunta psicosi, la quale, invece di essere frutto occasionale di un’allucinazione (per l’esattezza, il sovrastare di un hic et nunc onirico), coincide con l’incombente disagio di constatare quanto sia ridotto a zero il conforto di una vicinanza umana e della sensibilità di comunicare con i propri simili.
Dunque, dopo aver “dialogato”, sognando, con l’amico Stefano, Andrea è consapevole che «qualcosa d’inatteso, rivoluzionario sarebbe accaduto. Doveva aspettare nuovi eventi. Solo aspettare…». Cosa? Di rammentare, appena svegliato («Questa volta veramente»), un passato benefico e terapeutico. Freud ha scritto: «L’uomo addormentato e l’uomo malato ricordano ciò che l’uomo desto e sano sembra aver dimenticato». E la vicenda della story ha luogo, senz’altro, in un percorso di guarigione, nell’ambito di una grave malattia della solitudine evocata nel crescente pathos dal racconto di Luisa Sanfilippo. (c.b.)