sabato 11 agosto 2018


Cinzia BALDAZZI
La scelta dello scrittore.
Antologia di racconti del Premio Città di Lugnano 2018.



 

 

«La prosa narrativa o la narrativa» - cui, dal 2014, è dedicato il Premio Letterario Città di Lugnano - «è fra i vari generi della prosa quello più genuinamente artistico», asseriva l’insigne esperto di stilistica Marcello Aurigemma, sintetizzando quanto, per “racconto” (con esattezza, a metà del secolo scorso, lo studioso citava il sostantivo “novella”), risulti giusto intendere un testo con limitata estensione, il quale «contenga e narri compiutamente un fatto per qualche motivo singolare, tanto da suscitare interesse».

Alcuni lustri separano la nostra esistenza da allora, con un mosaico odierno composto da molteplici storie, edificanti o terribili, numerose vicende di riguardo, da emulare o dimenticare del tutto. A volte, spinta da immensa meraviglia per l’intero microcosmo di Jorge Luis Borges - non da sola, bensì insieme alla maggioranza della civiltà globale - ripenso al suo amore estremo per la cultualità specifica del leggere: «Altri si vantino delle pagine che han scritto; / io vado fiero di quelle che ho letto».

Cogliamo quindi con gioia l’occasione della quarta edizione del Premio Letterario Città di Lugnano con le parole di Gianluca Filiberti, sindaco di Lugnano in Teverina, coincidenti con «un omaggio alla lettura attraverso la scrittura». Ebbene, nello spazio personale riservato da anni alla passione per i libri, privilegiando la prospettiva critica, si aggira spesso la domanda di come ancora oggi sia consentito apprezzare gente disposta a impiegare fatica e ingegno per produrre ars, oggetti artistici - a livelli eterogenei - mentre il mondo procede, ormai, in un orizzonte futuro minaccioso e facile preda di smarrimento o auto-distruzione.

Per buona sorte, di frequente, al quesito segue un riscontro in campo: ne è esempio l’antologia pubblicata da Intermedia con le dodici short stories finaliste e semifinaliste sul tema “Scelte”, densa appunto di brani di prosa carichi di opzioni significative alimentate da un’energia consistente per la mimesis, o provvisti di un’eloquente fisionomia alternativa, magari votati alla salvezza privata nello stralciare nell’utopia letteraria una decisione, un gesto risolutivo, almeno in fieri, infine adibite a una rivolta, a un’escatologia collettiva rispetto alle preferenze banali e stereotipate.

 Confesso di stimare in primis, pur nell’ampia gamma di libertà insita in ogni episodio d’arte per apparire tale, la forza del legame notevole tra il vivere quotidiano e il codice di langue e parole, incrementato dall’espandersi attivo nel loro ambito di un vincolo di matrice determinante: il medesimo difeso dalla statunitense Anaïs Nin, cosciente di quanto le idee non le giungessero quando era intenta a lavorare sulla scrivania, completate ex novo nella mente inserita nel contesto creativo di vocabolo e contenuto. Sembravano, invece, frutto emblematico della realtà vissuta nella sua fenomenologia concreta, deputata a divenire unità semantica poetica tramite il metalinguaggio narrativo elaborato. In The Diary (1966) è illustrato nel dettaglio: «Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura non serve».

Condivido, di conseguenza, l’opinione della curatrice del volume Elisabetta Putini quando suggerisce: «Come il canto libero e liberatorio, come la danza, come la pittura e molte altre forme di espressione artistica, la scrittura ha dunque un alto potenziale terapeutico». Così, in Alba di Francesca Pontiggia, mentre i genitori della bimba afflitta da una gravissima patologia leucemica «sono a colloquio con l’oncologo» e «non sanno ancora che la tragedia è sulla soglia, eppure i segni dicono più delle parole», leggiamo: «II ventre della madre urta il legno della scrivania di fronte». Per quale ragione? Il particolare provoca l’indizio associativo peculiare, al contempo efficacissimo segnale semiotico, dell’atroce e ultima tappa dell’insolito iter analogico instaurato dalla donna tra la natura propizia (il rigoglioso progress rigenerativo del giardino) e quella impietosa, in grado di condannare la piccolina.

È il leitmotiv dell’intreccio, sviluppato da contrappunto alla story della disperata figura materna: infatti - viene precisato per il lettore - la troviamo lì a constatare, tra sé e sé, osservando muta il nudo mobile della stanza ospedaliera che ha urtato: «È di ciliegio». La madre, quindi, ricava sostegno - nel drammatico e ineguagliato dolore indotto dall’infermità letale della figlioletta - dalla nascita e dalla fine dell’eterno e ininterrotto ciclo vitale.

Poco importa se il personaggio non coltiva memoria della celeberrima elegia Llanto por Ignacio Sánchez Mejías (1935) dove, per rendersi conto della necessità di tollerare l’ingiustizia della cruenta scomparsa dell’amato torero (nonostante l’assiduo pericolo di annientamento di ogni matador nell’arena), Federico García Lorca, tentando di esplicarne la tremenda fatalità, affermava l’avverarsi di un assurdo naturale: «Duerme, vuela, reposa: ¡También se muere el mar!».

Peccato, però, che alla bambina morente l’ipotesi di salvezza in virtù dell’aiuto di un fratellino eventualmente generato per donarle il midollo spinale non sia confacente: e, sebbene debba confidare nel bagaglio conoscitivo caratteristico della ridotta esperienza tipica dell’età dei quattro anni, è assai persuasa in questa scelta. La giovanissima protagonista del plot dimostra senza dubbio un coraggio degno di merito; e, a lode dell’autrice, ricordiamo l’evocazione da parte del mitico prof. Keating de L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir, quando riporta agli allievi la riflessione del filosofo e poeta Henry David Thoreau: «Quanto vano è il mettersi seduti a scrivere quando non ci si è posti eretti a vivere».



Tale commento non è superfluo, poiché per il lituano Algirdas J. Greimas - tra i fondatori della semiotica strutturale - la decifrazione di qualsiasi quid artistico nel discorso è giusto si riferisca «alla ricezione e alla trasmissione di esso» (il vivere «eretti»), e non unicamente alla pura intenzionalità del mittente del messaggio («il mettersi seduti a scrivere»). Del resto Arthur Schopenhauer, nell’Ottocento, già ammoniva: «I pensieri messi per iscritto non sono nulla di più che la traccia di un viandante nella sabbia: si vede bene che strada ha preso, ma per sapere che cosa ha visto durante il cammino bisogna far uso dei suoi occhi».

Un simile point of view, o il relativo sguardo, è stato consegnato a noi, in chiave maieutica, da Agnese Pelliconi in Dublino, andata e ritorno, con la main character orientata sul margine delle “follie”, «le uniche cose che non si rimpiangono mai», dopo aver preferito rifiutare il posto in banca in Italia per rimanere a vivere e a lavorare in Irlanda, «nel posto dove poteva crescere». Sempre lei, a faticare nel «mettersi in gioco», timida e introversa, «quella “ligia alle regole”, ma allo stesso tempo aveva paura a rimanerci intrappolata in quella realtà in cui era cresciuta. Sentiva che c’era altro fuori, che doveva prendere il volo».

Le strutture nell’arco del significante dell’antologia Scelte assolvono, ognuna a proprio modo, al processo di percezione - di comunicazione - che li ha alimentati: lo spazio di aura rimanente, valido ed estensivo, piacevole e accrescitivo, spetta a noi destinatari.

Ma il primo passo è stato degli autori e, per fortuna, sembra abbiano ascoltato il monito tanto caro a Ernest Hemingway: «Accorgersi che si era capaci di inventare qualcosa; di creare con abbastanza verità da esser contenti di leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si lavorava, era qualcosa che procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai conosciute. Oltre a questo, nulla importava».



Paolo Caminiti, Simone Censi, Rossella Forti, Alessandro Manzi, Elisa Marchinetti, Francesca Pontiggia, Marco Stanzani, Michela Alessio, Nazareno Caporali, Bogdan Groza, Agnese Pelliconi, Gianluca Pirozzi   
Scelte
Racconti finalisti e semifinalisti. Premio Letterario Città di Lugnano 2018
a cura di Elisabetta Putini
prefazione di Gianluca Filiberti
Orvieto, Intermedia Edizioni, 2018, pp. 160, € 10,00



 

I proventi di vendita del libro sono interamente devoluti alla Fondazione Dottor Sorriso onlus, clown in ospedale.