martedì 28 gennaio 2020


Cinzia BALDAZZI - Poesie e canzoni: a scuola da Mogol



Il talento è una fonte da cui sgorga acqua sempre nuova.
Ma questa fonte perde ogni valore se non se ne fa il giusto uso.
Ludwig Wittgenstein


Il volume antologico dei testi poetici e musicali più rappresentativi dell’ultima edizione del CET, pubblicato da Aletti nel settembre 2019, è arricchito dalla prefazione di Mogol, dove leggiamo:

Il talento è un dono che abbiamo potenzialmente tutti e va assecondato, coltivato, esattamente come un terreno incolto che, se lavorato, darà i suoi frutti prima o poi.

Del resto, la scrittrice statunitense Erica Jong dichiarava:

Chiunque ha talento. Ciò che è raro è il coraggio di seguire quel talento nel luogo oscuro a cui conduce.

Esortarlo, illuminarlo, coincide con quanto Giulio Rapetti, in arte Mogol, da una vita è intento a realizzare per sé, per i collaboratori e, con qualificati corsi o iniziative, per gli astri nascenti della musica e della poesia italiane, e non solo. La Scuola CET - Centro Europeo di Toscolano, di livello internazionale, nata nel 1992 nella «tranquilla campagna umbra» del ternano, ha diplomato oltre tremila allievi tra cui Arisa, Pascal e Giuseppe Anastasi.
Lo scrittore, paroliere e discografico milanese, nell’ottobre 2019 - nell’atmosfera del bicentenario de L’Infinito - ha ricevuto il Premio Giacomo Leopardi. Il grande recanatese, a proposito del talento, in Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura precisava, in un passo del settembre 1821:

L’uomo di gran talento si riconosce sempre e subito in qualunque occasione, da chiunque è capace di riconoscere. È impossibile ch’egli sia mai trovato assolutamente incapace e inetto in nessuna cosa. Per nuova ch’ella gli sia egli sarà sempre proporzionatamente superiore alle persone di piccolo talento, che però vi sono avvezze. Il gran talento s’impratichisce anche ben presto di qualunque cosa, purché sia esercitato ed avvezzo.


Tra i numerosissimi contributi (oltre duecento) degni di particolare rilievo, tra le pagine dell’antologia della 6^ Edizione del CET - comprendente sia poesie che testi di canzoni - ricordiamo Attimi di Rosanna Sabatini, dove il tempo, le ore, i giorni, gli anni, si tramutano in granelli di sabbia di una clessidra dove si consuma il nostro quotidiano: nell’epilogo diverranno, però, note di una melodia perpetua, in una trama di «illusioni d’amore». Con A me stesso, Ernesto Auriemma evoca la concreta inquietudine del dolore in una «testarda fermezza» di «invalicabili / poesie nude», all’altezza di offrire ossigeno puro per la vita degli altri. Un ritmo musicale incalzante traspare in Un filo bianco di Natalina Milva Sobrero sulle operaie di una fabbrica di cotone, con «donne bambine» dalle «mani piccine che fanno il coton».
Da parte sua Mogol, nell’introduzione al libro, mette in rilievo l’importanza insita nell’acquisire una tecnica in ogni agire artistico, così come Émile Zola ammoniva:

L’artista è nulla senza il talento, ma il talento è nulla senza lavoro.

Una volta elaborata tale forma di poetica - ossia la τέχνη (téchne) di scrittura - la selezione di idee da trasmettere va tuttavia confrontata, soprattutto agli inizi, con un’esperienza critica oggettiva fornita da professionisti in grado di supportarla e qualificarla: infatti, da un lato occorre possedere virtù e perizia, dall’altro scoprire il modo di utilizzarle e alimentarle. Tra i brani destinati a diventare canzoni, vorrei citare la scrittura collettiva di Quello che noi siamo di undici allievi del Liceo Musicale “Tommaso Campanella” di Lamezia Terme.
Ha ragione Mogol quando afferma che la poesia «se è vera, trasmette emozioni; se non suggestiona, non è poesia». Un nuovo modulo valutativo crociano in senso inverso? Una emozionalità del genere è legata stretta al «fatto vero», al «proprio vissuto», ma non con parametri di corrispondenza schiaccianti, visto che al nostro autore, insieme a Lucio Battisti, nel lontano 1970 accadeva di chiamare “emozioni” il «seguir con gli occhi un airone sopra il fiume e poi ritrovarsi a volare».


AA.VV.
CET - Scuola Autori di Mogol - 2019
Roma, Aletti Editore 2019, pp. 310, € 22,00




venerdì 24 gennaio 2020



Massimiliano IVAGNES - "Se non qui, dove?" (racconto breve)



Quel giorno di fine settembre mio padre aveva davvero la luna storta.
Sapeva che ormai gli rimanevano pochi giorni di quella vita da pescatore che aveva condotto fino all’età di quasi ottant’anni.
Era ancora intento a sistemare le nasse seduto sulla scogliera, vicino alla sua vecchia paranza che aveva chiamato “Libera”, quando mi avvicinai per cercare di fargli ritornare il buon umore.
“Ne hai ancora per molto, papà?”, chiesi con finta noncuranza.
“Ne ho finché queste nasse non sono pronte per l’uscita di domani”, mi rispose seccamente.
“Ma sei sicuro di voler uscire? Le previsioni portano maltempo per domani…”, tentai di opporre timidamente.
“Verrà a piovere per pranzo. E io, per quell’ora, sarò già rientrato da un pezzo”, precisò con il broncio.
“Va bene”, mi arresi. “È giusto che tu esca per l’ultima volta con la tua barca”, continuai abbozzando un sorriso.
“Se non esco, niente pesca. E se niente pesca, niente pranzo!”, mi rimbrottò con gli occhi fissi sulle nasse.
“Si lo so, papà, è da quando sono piccolo che me lo ripeti. So che per te sarà difficile, almeno per i primi tempi. Ma vedrai che alla fine ti ci abituerai…”, provai a tranquillizzarlo. “La vita di città ha i suoi vantaggi, sai?... Finalmente starai al caldo, in una casa asciutta e confortevole… Non giova tutta questa umidità ai tuoi reumatismi… e poi, saperti qui tutto solo, dopo la morte di mamma… in quella casetta minuscola… ecco… non mi fa stare tranquillo! D’altronde, il lavoro non mi permette di starmene qui in paese... Il bilocale che abbiamo preso a Bari di fianco casa mia sarà perfetto per te, vedrai… E poi è il caso che ti goda un po’ la pensione che con tanti sacrifici sei riuscito ad ottenere, i tuoi nipoti…”, argomentai con ragionevolezza.
“Quella casa minuscola che tanto disprezzi ha ospitato la nostra famiglia per almeno vent’anni e vi abbiamo vissuto tutti dignitosamente!”, mi interruppe stizzito. Poi, moderando il tono della voce, con fare suadente, mi supplicò: “Lasciami qui, figlio mio. Un pescatore non potrà mai separarsi dal mare. Non può farne senza. Sarebbe come morire anzitempo”.
“Papà ne abbiamo già parlato ed è stato già deciso”, risposi con tono fermo. “Tu verrai a vivere a Bari con me e mia moglie. Non puoi andare avanti così. E, soprattutto, non hai più l’età per fare il pescatore, per abitare da solo in riva al mare…”.
“Se non qui, Michelangelo, figlio mio, dimmi dove potrei abitare io?! Dove?!”, mi interruppe con gli occhi lucidi.
“Con me, in città! A fianco ai tuoi cari”, provai a persuaderlo.
Mio padre abbassò lo sguardo, mi voltò le spalle ed iniziò a caricare le nasse sull’imbarcazione senza dire altro. Era triste. Triste e contrariato. Rammaricato di non essere compreso.
Io sospirai profondamente. Sapevo che per lui sarebbe stato un sacrificio enorme venire a vivere a Bari. Ma sapevo anche con non potevo più lasciarlo solo lì, in paese, e permettergli di andare a pesca in mare aperto in qualsiasi periodo dell’anno. Non era più in grado, con i suoi acciacchi e l’età avanzata, di governare una paranza. E anche quell’imbarcazione era ormai così malridotta da farmi stare sulle spine ogni volta che prendeva il largo. “Sarà dura in principio”, pensai, “ma con la buona pazienza e con il nostro affetto si ambienterà ed accetterà la vita in città lontano dal mare, lontano da Libera”.

Il giorno seguente, alle tre del mattino, lo sentii già trafficare in cucina. Mi alzai lentamente, curando di non svegliare mia moglie e lo raggiunsi.
Aveva già preparato la borsa con la coperta, la bottiglia dell’acqua e il panino ed aveva indossato la sua scoloritissima giacca a vento blu.
“Sei sicuro che non vuoi un po’ di compagnia?”, gli domandai sottovoce. “Potremmo uscire insieme, come ai vecchi tempi”, proposi affettuosamente.
“No, stai tranquillo, Michelangelo. Quest’ultima uscita la voglio tutta per me. E non state in pensiero. Prometto che al massimo per mezzogiorno sarò di ritorno”, mi rassicurò.
“Come vuoi. Divertiti!”, gli augurai sull’uscio di casa, assaporando sul volto la brezza settembrina.
“Disse il boia al condannato che fumava la sua ultima sigaretta…”, rispose mio padre, mentre slegava le cime di Libera con la maestria di decenni di ininterrotta attività.
Per un po' la paranza si lasciò trascinare dalla timida corrente marina, fino a che non venne inghiottita dal buio, sparendo dalla mia visuale. Rimasi in attesa di sentire accendere il motore e dopo rientrai in casa.

Mi risvegliai intorno alle nove, con una strana sensazione di malessere dentro. Mi affacciai alla finestra e notai all’orizzonte un ammasso di nuvole nere e minacciose, come un presagio funesto.
Verso le undici del mattino, d’improvviso, venne giù il finimondo: lampi, tuoni, fulmini… pareva che si fossero aperte le cataratte del cielo, mentre un vento freddo di libeccio faceva ingrossare paurosamente il mare. Provai a chiedere aiuto in paese, ma nessuno degli abitanti ebbe il coraggio di mettersi in mare con quel tempaccio.
“C’è solo da pregare che non succeda nulla di grave”, disse Claudio, pescatore anch’egli e amico di vecchia data di mio padre: “Aspettare e pregare”.
Di Libera non si seppe più nulla. Il corpo senza vita di papà, invece, venne ritrovato riverso su una spiaggia della costa a tre chilometri a est del paese, due giorni dopo. Accanto a lui, sull’arenile rinvenni questa grossa conchiglia bianca, dalla quale non mi separo mai.

“Ecco perché la tieni sempre sul comodino”, rifletté mia figlia accorata.
“Non essere triste, piccola mia”, le sussurrai con dolcezza. “Forse, doveva andare proprio così… Ascolta nella conchiglia”, la esortai portandogliela vicino all’orecchio sinistro.
“Si sente il rumore del mare!”, sussultò divertita.
“È vero: si sente il mare”, approvai con un sorriso. “Ma se tendi bene l’orecchio, se presti bene attenzione riuscirai a sentire anche la voce del nonno che dice: Io sono qui. Sono sempre stato vicino al mare. Se non qui, dove? …”.


                                      *   *   *

Massimiliano Ivagnes è nato nel 1970 a Roma. Dopo la maturità scientifica si è laureato in Giurisprudenza e poi ha conseguito il dottorato di ricerca in diritto penale. Ha pubblicato diversi studi di diritto intertemporale su riviste specializzate, svolgendo parallelamente l’attività di avvocato.
Da sempre appassionato di letteratura, nel 2018 ha pubblicato il suo primo romanzo: Palla al centro (Gruppo Albatros Il Filo ed.) con il quale, tra gli altri riconoscimenti, ha vinto il Premio internazionale di letteratura e Poesia De Finibus Terrae 2018.
Nel mese di luglio 2019 è uscita la sua prima raccolta organica di poesie dal titolo  Uomini, noi... (ed. Aletti), con la quale l’autore esplora l’universo maschile sotto i suoi multiformi aspetti di vita e di personalità, ispirandosi alla gente comune, rappresentativa dei sentimenti e delle problematiche dell’uomo contemporaneo. La raccolta ha ottenuto il terzo posto al Premio Maria Cumani Quasimodo 2019. Lo scorso dicembre è uscito il suo secondo lavoro di narrativa Questioni di coscienza (Gruppo Albatros Il Filo ed.).



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commento di Cinzia Baldazzi


Nel riflettere su brani di prosa - e Se non qui, dove?, racconto di Massimiliano Ivagnes, ne è prova - mi è spesso accaduto di dover confermare la teoria in base alla quale l’opera letteraria può non incrementare una speciale scienza della successione, piuttosto una rete di trasformazioni: in tale sviluppo il lettore partecipa agli esiti non dal punto di vista diacronico ma sincronico, ossia la trama-intreccio ne condivide non il divenire, ma i risultati.
Nella critica moderna, il riferimento è a short story di una lunghezza compresa entro le otto pagine: vale a dire, scritti tra le 1.000 e le 4.000 parole (Se non qui, dove? è di 969), secondo alcuni sotto la soglia delle 20.000 (ai confini con il romanzo breve). Da tali strutture deriva uno spiccato meccanismo polisenso e una rilevante “auto-riflessività” del contenuto - lo documentava nel 1960 il formalista russo Roman Jakobson - inseriti entrambi in un numero maggiore di segni-unità significanti.
In effetti, l’origine dei brani di prosa, oggi discussa nelle modalità di “novelle”, “racconti”, “tales”, “short stories”, oppure “short short stories” (inferiori ai 1.000 vocaboli), risalirebbe “itinerante” dall’India, diffusa poi in Occidente, cogliendo l’insieme creativo fissato negli epos orali vicini alle omeriche Iliade e Odissea. Il patrimonio di leggende, di fantasie non trascritte sembra fosse all’epoca tramandato da versi in rima o ritmici e ricco di contributi ricorrenti: nel caso di Omero, erano i cosiddetti “epiteti”, o “formule” (da “Achille piè veloce” ad “Atena occhi azzurri”). Il grecista Milman Parry ha rivelato come l’intero corpus Homericus, di circa 27.000 esametri, coincidesse con un mosaico geniale di una serie di succinti “formulari”, ripresi ad hoc nei repertori epici a partire da Apollonio Rodio.
Nel testo di Ivagnes, un siffatto meccanismo prioritario di continuum legato alla fisicità si consolida e si replica nelle aurore, nei crepuscoli, nella terra ferma, nelle distese marine, tra gente lontana e prossima: sorge un respiro di immenso pari al mare, eterno in consonanza alla natura dell’anima e delle sue ambiguità.
Nel sintetico racconto Se non qui, dove?, già il titolo manifesta un’ubicazione misteriosa degli assi di pertinenza del lessico: non tanto della matrice cognitiva, quanto nella loro attinenza spazio-temporale, lasciando intravedere il mare, o meglio la morte in mare, come l’unica via utopica di sopravvivenza consentita al vecchio padre. La struttura semiotica del messaggio è globale, coltivando lo scopo di non sovrapporre il pensiero dell’Io narrante alle notizie trasmesse, guidato com’è, illustrando l’esistenza dell’anziano pescatore, dall’intento morale e affettivo di non parlare al suo posto.
Da un lato siamo messi a conoscenza di elementi volutamente confusi tra sostanziali e accessori; dall’altra, assistiamo ex abrupto a fenomeni decisi, programmati a nostra insaputa. Ad esempio, il figliolo ha mai creduto davvero che il papà avrebbe abbandonato la casa sulla marina per seguirlo a Bari? E quando il genitore si imbarca su “Libera”, la storica paranza, veramente affronta l’ultimo viaggio in mare prima di trasferirsi in città? O invece appare conscio di ricongiungersi per sempre all’universo marino, facendosi poi trovare esanime sulla spiaggia, vicino a una grande conchiglia bianca?
Per comprenderlo, durante la lettura potrebbe essere opportuno utilizzare i classici tropi della metonimia, sineddoche, metafora: tuttavia, forse rimaniamo troppo affascinati dall’occupare questo spazio, questa aura di continui interrogativi per prestare fiducia completa a tali figure esemplari di comprensione. Applicando, così, la forma più semplice di associazione per contiguità, riga dopo riga, interpretiamo i concisi dialoghi prima che il peschereccio sparisca nella notte, quindi il breve resoconto di cronaca sul naufragio, infine il colloquio con la figlia-nipotina. Certo, i due principi associativi della similitudine e contiguità, nella coesione superiore della frase letteraria, conquistano sempre il contatto con la parola, l’icona proposta: in questo caso la conchiglia, in apparenza trait d’union tra fisicità e dissolvimento, presenza e memoria.
Massimiliano Ivagnes ha costruito un’intelaiatura logico-intuiva finalizzata a riconoscere nel mare un’entità totalizzante, capace di recuperare significati, di vivere al suo posto magari sotto altre vesti, ovvero tra le spire risuonanti di una conchiglia: nel suo locus naturale (sulla sabbia, vicino al mare), altrimenti in contesti ulteriori (sul comodino di un appartamento), infine all’orecchio di una bambina. A questo punto, dobbiamo chiedere: intendiamo esistenza terrena, oppure ricordo? Al di là o al di qua del reale si colloca ora il marinaio, anche padre e nonno? Non è necessario - e il plot lo dimostra - analizzare il contenuto in due maniere distinte: la coppia di soluzioni ne costituisce una sola. In un saggio su Discorso del racconto (1972), il critico francese Gérard Genette, trattando di retorica ha scritto: «La vela non è contigua alla nave, ma è contigua all’albero, al pennone, e per estensione, a tutto il resto della nave, a tutto ciò che, della nave, non è vela».
Dunque, un ciclo quotidiano strettamente connesso al mare è solo una parte del vivere, ma può appartenere a tutti i suoi fenomeni, quindi significarla nel complesso. In altri termini, la short story procede alternando presenza-assenza di vita e morte, comparandole grazie al ruolo assunto in un confronto del genere. Prima la preghiera del vecchio: «Lasciami, qui figlio mio. Un pescatore non potrà mai separarsi dal mare. Non può farne senza. Sarebbe come morire anzitempo». Poi l’indicazione del figlio alla bimba: «Se tendi bene l’orecchio, se presti bene attenzione riuscirai a sentire anche la voce del nonno che dice: Io sono qui. Sono sempre stato vicino al mare. Se non qui, dove?...».
Nel volume dedicato a I fondamenti della semiotica cognitiva (1931), il filosofo statunitense Charles Sanders Peirce dichiarava: «Il concetto universale più prossimo al senso è quello del presente in generale». Inoltre: «L’unità a cui l’intelletto riduce le impressioni è l’unità della proposizione […] ovvero il concetto dell’essere, quello che completa l’operazione propria dei concetti: la riduzione della molteplicità a unità».
Ciò si verifica poiché è ampia la varietà delle impressioni suscitate dal mittente del messaggio al destinatario e, precisa Peirce, «dal momento che c’è una molteplicità di impressioni, abbiamo un sentimento di complicazione o confusione che ci spinge a differenziare le varie impressioni; e quindi, essendo state differenziate, richiedono di essere ridotte a unità».
A quale unità mi riferisco? Di sicuro - lo testimonia la story di Ivagnes - non un’organizzazione concettuale autoritaria distaccata dal contesto e ad esso indifferente, semmai sua complice: la rappresentazione, elaborata e accolta, viene sottoposta a un continuo legame con i soggetti-oggetti, indici o segnali evocati. In sostanza, scorrendo le pagine di Se non qui, dove?, la coinvolgente sintesi della molteplicità in unione di significante-significato garantisce dapprima l’indispensabile carica-emozionale nel discriminare gli elementi percepiti; in seguito, però, subentra la non comune propensione a dissociare, tra i dati ricavati, non il vero dal falso, il concreto dall’immaginario, ma quanto è e sarà dal vuoto assoluto di associazioni, di valori.
Dal primo insieme di pertinenza scaturisce una proposizione dell’essere uomini, donne, adulti, bambini, da afferrare immediatamente: alludo ai concetti più spontanei da organizzare nonché conservare insieme a quelli la cui pronta affidabilità è mediata solo da lontano, in prospettiva. Così leggiamo: «Mi svegliai intorno alle 9, con una strana sensazione di malessere dentro. Mi affacciai alla finestra e notai all’orizzonte un ammasso di nuvole nere e minacciose, come un presagio funesto. Verso le 11 del mattino, d’improvviso […] pareva che si fossero aperte le cataratte del cielo».
Ha ragione Ivagnes: non sempre risulta necessario e proficuo attendere il “dopo”, dal momento che è indiscussa l’idea della essenziale metaforicità posseduta in sé dalla langue letteraria, dal linguaggio in genere, che si rivela all’altezza di esprimere anche il più complesso e indefinito ambito reale.





lunedì 6 gennaio 2020


Domenico PUJIA – “Portatemi in Paradiso” (racconto breve)





Dormono tutti.
Io invece no.
Non ce la faccio.
Fa troppo caldo e allora mi alzo dal mio lettino e mi metto seduta.
La scuola sta finendo, è giugno e finalmente potrò andare a giocare fuori all'aperto.
Forse andrò da Sofì, la mia migliore amica.
Voglio distrarmi, dimenticare.
La finestra della mia piccola stanza è aperta.
Mi alzo di nuovo e mi avvicino per sentire l’aria fresca della notte.
Guardo fuori: gli altri palazzi sono come quello in cui abito.
Tutti uguali, tristi e silenziosi.
Nella penombra cerco con lo sguardo la mamma che sta dormendo.
- Mamma, devo andare in bagno! - sussurro nel buio. Ma lei non risponde.
Sento un bruciore fastidioso. Vorrei chiamare di nuovo, ma ho paura di svegliarla.
Allora decido di andare da sola. - Che dolore! -  penso, mentre soffoco un grido.
Apro piano il rubinetto per riempire con l’acqua un vaso e gettarne il contenuto nel gabinetto.
Faccio tutto lentamente per non svegliare nessuno.
Torno a letto in silenzio. Guardo per terra, poi osservo con attenzione il lenzuolo.
Questa volta è pulito.
Questa volta non ho sporcato.
Il lenzuolo deve rimanere sempre in ordine e asciutto.
Mamma si è raccomandata tanto e spesso mi sgrida. Ma non lo sa cosa mi succede?
Lei si arrabbia sempre. - Devi stare zitta! - urla. Sono spaventata. Perché fa così?
Adesso guardo di nuovo fuori dalla finestra. C’è una luce più chiara: è la luna.
Chiudo gli occhi e cerco di addormentarmi. Ma non è facile.
Non conto più il tempo. Poi sento qualcuno che grida. Sono stata io?
Apro gli occhi.
C’è qualcuno accanto a me: è la mamma!
Mi scuote dolcemente: - Svegliati, non avere paura. È giorno - dice sottovoce.
Mi giro dall’altra parte.


Se soffro non cerco parole. Cerco un cuore che ascolti il mio dolore e accolga le mie lacrime”


Una volta ero felice.
La felicità mi arrivava come una sorpresa.
Inaspettata, semplice, e ogni volta mi riempiva il cuore.
Bastava un sorriso o un odore sconosciuto. Oppure nuovi bellissimi colori.
O le giornate di sole.
O un regalo inaspettato.
Ma è passato tanto tempo.
Ero più piccola. Così piccola che non sapevo cosa dire.
Il mio cuore batteva forte e il respiro viveva insieme a me.
Allora non sapevo nulla. Mi bastava giocare con le mie amichette.
Fare nuove scoperte.
Come stringere piano un uccellino fra le mani.
Assaggiare cibi gustosi.
Guardare tutto attraverso degli occhiali colorati.
Osservare persone più grandi di me.
Ma certe scoperte era meglio non averle fatte.
Adesso ho paura. Anche del buio.
Ma non solo di quello.
Nessuno può aiutarmi?
La mia voce è piccola, ma tutti dicono che sia bellissima.
Chi mi ascolta?
Vedo solo sguardi indifferenti in giro.
Qui dove vivo. Nel palazzo che sembra una prigione.
Nella mia casa dai vetri rotti.


“Voglio uscire e giocare in un prato verde” 


Qualche volta, quando gioco fuori, nel cortile o vicino il portone, li vedo.
Si tengono bassi fra l’erba.
Sono in due. Oppure in tre. Cercano di nascondersi, ma io me ne accorgo lo stesso.
Sono veloci e lanciano rapide occhiate in giro.
Poi spariscono e non li vedo più.
Spesso arrivano quando fa molto caldo, dopo pranzo. Non ci sono molte persone a quell’ora.
Io li ho osservati anche dal mio balcone altissimo. Sembravano delle formiche.
Una volta hanno lasciato cadere un oggetto per terra.
Volevo andare a vedere ma la mamma me lo ha proibito: - Non andare laggiù - ha ringhiato con una voce dura.
Però quel fatto mi ha incuriosita. Così, pochi giorni dopo, con una scusa - mi è caduta una bambola - sono scesa giù a guardare.
Accanto al muro c’erano un tubicino in gomma e una siringa. Non mi sono avvicinata e li ho osservati un po’ senza toccarli. Sono risalita con la mia bambola in mano senza dire nulla.
Non volevo essere messa in castigo. Allora ho fatto un disegno su un foglietto.
Il giorno dopo, a scuola, ho chiesto a Paolina a cosa servissero quegli oggetti.
Paolina mi ha guardato un attimo ed ha alzato le spalle, poi è tornata a giocare con un’altra compagna. Ho mostrato il disegno ad Antonio, un altro compagno della mia classe.
Lui guarda il disegno e mi chiede dove li  ho visti.
- Vicino a casa mia, accanto al portone dell’isolato. -  rispondo.
Antonio mi guarda e poi dice: - Hai dei bei capelli biondi.
- Sai che novità! - rispondo mentre riprendo il foglio.
- Ti faccio un ritratto? - mi chiede allora Antonio, avvicinandosi.
Antonio è il più bravo dei miei compagni a disegnare.
Ma non c’è più tempo. La maestra ci fa finire la ricreazione. Si deve studiare di nuovo.
Apro il mio quaderno e infilo il foglietto fra due pagine.
Copio delle frasi dalla lavagna e quando ho finito la maestra si avvicina. Osserva quello che ho scritto e corregge con una penna rossa qualche parola che ho sbagliato a copiare.
Sono confusa e quasi mi viene da piangere, ma riesco a trattenere le lacrime.
Sento qualche frase di consolazione.
Ora mi devo impegnare a disegnare. Sempre sul quaderno.
I colori sono sempre quelli. Le figure non mi vengono bene. Sono storte, cupe, hanno un aspetto feroce. Le case sono senza porte e le finestre sembrano quelle di un carcere.
E poi c’è un’ombra che non riesco a mandare via.
- Via! Vattene via, maledetta! -
Chiudo gli occhi. Ma l’ombra riappare sempre.
Alzo la mano e chiedo alla maestra di andare in bagno.
La maestra fa un cenno verso la porta dell’aula.
- Vedi di non perderti per il corridoio! - ironizza.


In una stanza al buio con silenziose lacrime da calmare...” 



Oggi piove.
Mi avvicino al vetro della finestra: teme la pioggia, ma nello stesso tempo mi protegge dalle gocce umide e fredde dell'acqua.
Attraverso il vetro cerco di accarezzarle e le sento vibrare sotto le mie piccole dita.
Lontano la strada risuona tutta di ruscelli. Sembra un piccolo fiume canterino.
Non posso uscire fuori con questo tempo.
Sono sola e ho tanta voglia di giocare!
Allora prendo una delle mie bambole.
Questa! È morbida, soffice e colorata. Non le ho dato ancora un nome, anche se è tutta strappata ed inizia a perdere alcuni pezzi del suo vestito.
Osservo il suo volto: certe volte è ostile verso di me.
Mi guarda con un sorriso strano: allora io mi arrabbio e la scaravento lontano, verso la porta.
Mi avvicino di nuovo alla finestra nella speranza che tutto sia finito. Ma non è così.
Il vento fa ondeggiare la pioggia con suono che mi mette paura.
Un fischio, un sibilo che mi spaventa e mi fa allontanare dal vetro.
Cosa avverrà questa notte? Non voglio pensare a fiabe paurose o sogni inquietanti.
Forse domani sarà un nuovo giorno.
Forse più bello e luminoso. Forse più tranquillo.


Ma è terribile aspettare!              
              
                                           
Cerco qualche sguardo buono di cui fidarmi. Senza angoscia, senza segreti da tenermi dentro.
Quando lui arriva ho paura. Inizio a sudare e tremo tutta perché so cosa vuole e cosa mi farà.
È cattivo!  Allora cerco mamma: spero in un suo aiuto.
Lui è grande. Quando entra in casa io non so più dove andare.
Posso solo sperare che la mamma lo tenga impegnato o si distragga. A volte succede.
Parlano a lungo, oppure stanno insieme stretti stretti.
Qualche volta litigano. Allora scappo nel bagno. Aspetto che lui se ne vada e non si accorga più di me.
Adesso loro sono in cucina: parlano piano, le parole arrivano lontane.
Si sente l’odore di caffè.  Qualche risata. Il rumore di un cucchiaino che gira nella tazzina.
Aspetto. C’è qualcuno che si alza e sposta la sedia.
Sento la porta chiudersi. Non c’è nessuna voce, nessun suono. Dopo un po’ sento il rumore di una persona che torna indietro. È la mamma. Riconosco i suoi passi leggeri e ritmati.
Io apro lentamente la porta del bagno.
Lei si accorge di me e mi chiama: - Sei ancora lì? Esci subito e vai a fare i compiti. Subito!


Si trasformeranno tutti i miei pensieri in sventura”                                                  



Antonio non verrà più a scuola.
Paolina mi ha detto che è morto. Forse è caduto da una finestra mentre giocava. Ma come ha fatto?
Un incidente?
Morto. Vuol dire che non lo vedrò più. Non giocherà più con noi. Non mi regalerà nessun disegno.
Non lo vedrò più correre nel corridoio della scuola per entrare prima degli altri.
Cerco di capire cosa può essere successo, ma non ci riesco. Nessuno sa spiegarmelo.
A scuola tutti sono tristi. Hanno lasciato dei fiori sul banco di Antonio. Nessuno parla.
Solo brevi sussurri fra la maestra e qualche mamma all'entrata della scuola.
Oggi ho trovato un suo disegno appallottolato sotto il banco. Antonio era bravo a disegnare.
Molto più di me.
Ho portato il foglietto di nascosto al bagno e l'ho osservato.
C'era una persona grande, un uomo che sembrava un gigante e poi lui, Antonio: si era disegnato con due occhi enormi, le sue braccia senza mani e il colore rosso schizzato un po' dovunque.
Quel disegno mi ha spaventata moltissimo.
Così l'ho stracciato e l'ho gettato nel bagno. Poi ho fatto scorrere l'acqua.
Per un attimo qualcosa, veloce come un lampo, ha attraversato i miei pensieri.
Dove ha visto quell'uomo Antonio?
Non me ne ha mai parlato.
Quel gigante ritornerà? Ma esiste davvero?
Sono entrata tremando in classe.
Nessuno si è accorto del foglietto che non avevo più tra le mani.
La maestra ci ha fatto alzare in piedi per ricordare in silenzio il nostro compagno.
Ho paura.


 “So tutto del dolore...” 


Resto con tutte le mie parole chiuse dentro di me.
- “Coraggio” - dico a me stessa. Vorrei reagire e oppormi a quello che mi fa male.
- Devi stare zitta! - mi sento ripetere.
Ma io sono arrabbiata! Molto arrabbiata.
Ora però sto guardando le scarpette che piacciono a me. Hanno dei brillantini e luccicano.
Qualche volta ho provato anche quelle di mamma, più colorate, ma troppo grandi.
Le ho provate così, tanto per giocare, quando lei non mi vede.
Anche i nastri colorati mi piacciono. Ne ho tanti.
Provo a farne volare uno dal balcone per vedere dove va.
È un nastro rosso. Lo libero e lo guardo mentre fa le capriole nell’aria.
Il vento leggero si diverte a farlo salire e scendere. Poi lo fa dondolare. Com’è divertente!
Seguo le sue evoluzioni fino a quando scompare dietro al palazzo.
La mamma mi chiama e io rientro in casa.
Sento il rumore dell’ascensore che sale. Forse è qualcuno che deve fermarsi al nostro piano?
Resto con il fiato sospeso, in ascolto.
L’ascensore ora è più vicino, sta salendo, sale ancora e oltrepassa il pianerottolo.
Si ferma due piani più su.
Non è lui. Almeno per oggi.
Tiro un sospiro di sollievo mentre cerco un altro nastro colorato da far volare in aria.
Questa volta il colore che scelgo è blu.
Guardo la mamma indaffarata in cucina. Non si accorge di me.
Ritorno sul balcone e guardo giù in basso. Siamo altissimi. Mi sembra di toccare il cielo.
Le nuvole sono vicine. Chissà come sono fatte. Forse sono di cotone. O di zucchero.


“Non distruggete i miei sogni infantili”
    

Nella mia scuola Assunta è una bambina più grande di me.
Forse ha 11 anni. Fa la quinta.
È alta, bella e porta sempre dei bellissimi vestiti. Arriva sempre accompagnata dalla mamma.
Paolina, quasi ridendo, mi ha detto che lei è ricca.
- Come ricca? - chiedo.
La mia compagna mi guarda come se fossi una che non capisce niente e lascia andare le braccia lungo i fianchi.
- Assunta si fa pagare! - mi dice facendo una smorfia.
- Per fare cosa?
Paolina sbuffa, si guarda in giro e poi mi sussurra in un orecchio: - Cinque euro! -
Resto a guardarla con aria imbambolata.
- Sei proprio scema! - sibila lei.
Poi, di colpo, mi dice il motivo: - Si fa baciare! Cinque euro per un bacio -
Cinque euro! È un pezzettino di carta verde e bianca. Sono soldi. Ci puoi comprare caramelle, biscotti, matite. Qualche volta ho visto mamma che pagava con quei soldi per comprare il latte o un pacchetto di caffè.
Assunta è diventata ricca! Chissà quanti pezzettini verdi avrà in casa.
- Ma tu come lo sai? - chiedo.
Paolina non sorride più: - Guai se parli! È un segreto. Non lo sa neppure la maestra.
Faccio un passo indietro, spaventata.
- Allora perché me lo hai detto?
Lei mi guarda, mi prende per mano e mi sussurra: - Ti piacerebbe guadagnare dei soldi? Anche tu sei bella!
Non so cosa rispondere. Sono confusa. Guardo per terra e lascio la sua mano.
Baciarsi!  Che schifo!


Non voglio essere baciata ….     
                                                                 

È una giornata calda, la scuola ormai è finita e io voglio dormire ancora.
La mamma mi scuote: “Devo uscire. Tu non ti muovere e non uscire sul balcone. Torno subito”. Mi alzo a fatica. La colazione è pronta sul tavolino della cucina.
Non voglio restare da sola. Guardo la mamma. Mi guarda in modo inespressivo, non parla. Chiude la porta a chiave. I suoi passi si allontanano lungo le scale. Oggi l’ascensore evidentemente non funziona.
Quanto tempo passa?
C’è un rumore: qualcuno si avvicina al pianerottolo. Ma non sono i passi della mamma!
Una chiave cerca di aprire la porta.
Ho paura! Chi sarà? Cosa vogliono da me?
Ecco la porta che si apre, è un uomo. È lui!
Ho scelto: mi ribellerò contro le sue violenze.
Cerco di scappare ma vengo bloccata. È una lotta muta, senza parole, senza speranza.
Siamo di nuovo sul pianerottolo, in fondo c’è un grosso finestrone aperto.
Cosa mi succede? Sto volando, ma le nuvole restano lassù in alto, sempre più lontane mentre le finestre in fondo ai miei occhi si stanno chiudendo.

Portatemi in paradiso.



                                                            *    *    *



Domenico Pujia nasce a Roma nel 1956. Dal 1983 è docente di scuola primaria. Nel 2016 pubblica il romanzo Calabria terra di passaggio (Leonida edizioni - Premio speciale Amarganta a Rieti). Nel 2017, sempre con Leonida edizioni, esce La vergine della soglia (Menzione d'onore al premio Amarganta). Nel 2018 con Montag edizioni pubblica I giorni dell'odio, romanzo che vince di nuovo il Premio Speciale Amarganta e nel 2019 l'Holmes Awards a Napoli per la narrativa gialla inedita. Tra i racconti prodotti, e ancora inediti, Portatemi in paradiso - ispirato a un fatto di cronaca avvenuto a Caivano nel 2014 - ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra il 2017 e il 2019. La poesia L'ultima lacrima ha ricevuto nell'ottobre 2019 il premio "I Colori delle Parole" a Roma nella sezione poesie inedite.


                                                            *    *    *


Il diario delle ombre
Note sul racconto Portatemi in Paradiso

di Cinzia Baldazzi

Nel racconto breve Portatemi in Paradiso, la scelta dell’andamento sintattico, con l’insieme delle tracce semantiche ad essa legate, si rivela la maggior parte delle volte paratattica, privilegiando appunto un criterio di coordinazione nel periodo. In genere, una simile scala ontologico-stilistica viene formulata per scandire la narrazione in antitesi a quella ipotattica dove, essendo le molteplici unità grammaticali vincolate da una gerarchia logica di “come” e “perché”, il messaggio risulta, pur presentandosi variegato, più compatto.
Ebbene, tutto ciò, nella ricchezza della polisemia letteraria, nel testo di Domenico Pujia intraprende un percorso particolare: nonostante il calcolato, incalzante ritmo sincopato dei paradigmi coordinati, emerge sin dalle righe iniziali la forza di un itinerario figurato capace di dare continuità causale, forte, energica, consequenziale-unitaria, non sviluppata diacronicamente. La conseguenza principale di cui cerchiamo il motivo coincide con le ragioni relative alla tragica fine della vita della bambina, immaginaria autrice del diario in prima persona. Per aiutare a risolvere il quesito, di frequente compaiono i corsivi per riportare battute di un dialogo, oppure lessemi tra virgolette («Coraggio»), o frasi in grassetto («So tutto del dolore…») in calce alla pagina.
Il ricorrere a un tale codice di trascrizione è dettato dal sofferto, coinvolgente scopo dell’autore di trasmettere al destinatario - per agevolarlo nella comprensione - le sfumature del linguaggio infantile che, possedendo ancora un numero di entità lessicali abbastanza ridotto, ne viene così potenziato al massimo nelle circostanze peculiari dell’aura di enunciazione o di resa grafica.
La piccola si rivolge in alcuni casi a un ipotetico ascoltatore, in altri a se stessa. Con la mamma intende comunicare per mezzo del pensiero, poiché il contenuto del loro scambio di atti di parole sembra piuttosto esiguo. Eppure, sono due proiezioni del medesimo personaggio: la figliola ne è consapevole e, quando prova timore della madre, il confine della paura che ha “per” lei o “di” lei appare molto labile. La droga, il sesso a pagamento, lo sfruttamento sessuale dei minori, sono “mostri” inseriti tra parole, forme grammaticali, strutture di sintassi, cadenze ritmiche del discorso, insinuati tra la voce soggettiva di chi scrive e sprazzi sintatticamente assai raffinati di un point of view onnisciente:

Nessuno può aiutarmi?
La mia voce è piccola, ma tutti dicono che sia bellissima
Chi mi ascolta?
Vedo solo sguardi indifferenti in giro.

Nel diario, la “scoperta” assidua della protagonista permette a lei, a noi, di considerare gli oggetti come interni e non esterni rispetto alle notizie fornite, in modo che anche da questo punto di vista si riproponga l’uniformità, la compattezza del messaggio del plot, ossia la storia ancestrale del dolore. Le ombre sono più fitte, spesse:

Ora mi devo impegnare a disegnare. Sempre sul quaderno.
I colori sono sempre quelli. Le figure non mi vengono bene. Sono storte, cupe, hanno un aspetto feroce. Le case sono senza porte e le finestre sembrano quelle di un carcere.
E poi c’è un’ombra che non riesco a mandare via.

Il realismo ingenuo, tuttavia inesorabile e coraggioso dell’Io narrante, evoca il mondo della story equivalente a un complesso le cui distinte fasi esistono solo in virtù l’una dell’altra:

Una volta hanno lasciato cadere un oggetto per terra.
Volevo andare a vedere ma la mamma me lo ha proibito: - Non andare laggiù - ha ringhiato con una voce dura.
Però quel fatto mi ha incuriosita. Così, pochi giorni dopo, con una scusa - mi è caduta una bambola - sono scesa giù a guardare.

La radice tecnico-semantica e il procedere del nostro racconto dimostra quanto avesse ragione il professor Emilio Garroni allorché in Ricognizione della semiotica (1977) affermava che il linguaggio non possa mai collocarsi al di fuori di se stesso o delle proprie attitudini intellettuali:   

La consapevolezza delle condizioni del parlare e del conoscere non semplicemente passa attraverso il linguaggio, così come passa attraverso l’operazione, ma per così dire si ferma in esso, si istituzionalizza in linguaggio, si proietta e si specifica insomma in “strutture forti”.

Forti come il gesto finale di una bambina contro la violenza, insieme al suo posto nel Paradiso: riservato a chi, benché in misura estrema, una simile sopraffazione è riuscito a vincerla.