domenica 29 marzo 2020


Mario TRAPLETTI – “A Roma i sogni non dormono mai” (racconto breve)

  

Come tutte le mattine ‘Stampa e regime’, la rassegna stampa di Radio Radicale, mi prende per mano qual novello Virgilio e mi cicerona fra i gironi e le bolge dell’infernale stampa quotidiana. Il mondo è là dentro e là fuori che aspetta solo che io mi interessi di lui, e se non lo faccio può anche succedere che si fermi. Certo, non c’è più l’ironia spumeggiante di un Bordin, ma insomma, questo è.
E allora, che la vita abbia inizio, si dia la stura alla tempesta di emozioni e avventure che anche oggi stanno per scatenarsi sul mio capo. Inteso come testa, perché il mio diretto superiore sta alle emozioni come un vegano sta a una fiorentina di un chilo e due: indifferenza reciproca, quando non repulsione.

Doccia
Colazione
Spesa
Autobus
Redazione
Pausa pranzo
Scansione da agenda elettronica, con tempi e ritmi quasi scolpiti nel marmo. Pardon: nei byte.

“I giorni miei son tutti uguali
come i granelli di un rosario”
(Rosalino Cellamare, che in seguito si contrasse in Ron. E chissà se se ne è mai pentito visto quanto rischia ogni volta che le menti più elevate e aperte del Paese lanciano campagne di astio contro i Rom)

Passi per la monotonia del vivere quotidiano, ma il pranzo in ufficio, mai! Finisce che ti sgranocchi un panino con chissaché mentre continui a vangare nelle agenzie di stampa o a fare il cretino su Twitter e Facebook. E mentre ingurgiti news e fake news nemmeno ti accorgi di cosa transita per il tuo abomaso: mangiare un paninazzo di McDonald's o un salamino al barolo con formaggio di capra affinato alle more di bosco raccolte da una capoverdiana vergine in una notte di plenilunio ti darebbe, a quel punto, la stessa soddisfazione papillare. Vada per il paninazzo, artigianale però, e centellinato sulle rive del Tevere, ammirando Castel S. Angelo e zone limitrofe. Fa tanto turista bohemienne e aiuta a dimenticare che dove gli altri fanno del turismo tu maceri sudore lavorativo. Seppure in senso metaforico.

Le prime gocce cadono subito pesanti. La pelle di Roma assume un aspetto prima leopardato, poi sempre più simile alla scorza di un puma. Non son cose da perderci il sonno, ma è strano forte come la trasparente pioggia renda nere le pietre sulle quali si abbatte. Ecco, proprio come se i goccioloni martellanti provocassero alle pietre un susseguirsi di scuri lividi. È da queste piccole cose, dalla facilità con cui colgo queste impalpabili sfumature che, a volte, intuisco le mie potenzialità scrittorie, la vena del grande autore di grandi reportage. Poi però mi frega la modestia, l’eccesso di umiltà.
Respiro l’atmosfera dell’Urbe, di questo mostro proteiforme dalle mille stratificazioni e dai mille volti. Vibro con essa e in essa; mi esalto, vado via di testa allucinato dal caleidoscopio in cui mi muovo. Brandisco la tastiera e come un rabdomante inseguo le pulsazioni di Goethe, di Stendhal, di Montaigne… Poi la vita riprende il sopravvento, e mi tuffo nel lirismo dei lanci d’Agenzia e con la tastiera faccio l’editing ai colleghi. Il turpe destino di tutti i geni incompresi.

Largo di Fontanella Borghese quando la pioggia si fa battente assume un aspetto surreale: i chioschetti che la popolano - di libri usati, stampe, piccoli oggetti d’antiquariato - sciolgono al vento vele cerate trasparenti, nel tentativo di sottrarre all’assalto dei goccioloni i loro attempati tesori. Hai l’impressione di navigare in una flotta di vascelli fantasma, come fantasmi sono quelli che custodiscono al loro interno. La mitica Lolita, la decana dei venditori, affronta impavida l’ennesima tempesta, resa edotta dalla lunga vita che anche questa passerà, come passate sono le altre. Uno Strehler non saprebbe immaginare scenografia più scenografica di questa, che magicamente muta la piazza in un set cinematografico, proiezione onirica di un Fellini in vena di epiche malinconie.
Gocce come ciliegie: è subito scroscio e temporale fuori dal tempo. La gente, la poca che transita a quest’ora, in preda a un comune moto centrifugo si ritrova scaraventata nei bar della zona, già zuppi di folla intenta al sacro rito della pausa pranzo. Non sono il solo a patire la claustrofobia detta ‘del panino da ufficio’. È molto interessante anche su un piano antropologico (buon Dio, non starò esagerando?) visitare in questa fascia oraria i bar, self-service, tavola calda e affini che animano la zona: puoi fare interessanti scoperte sulla fauna umana, tipo distinti signori giacca-cravattati che azzannano, in piedi, qualsiasi genere di supporto farinaceo atto a contenere le più svariate forme di salumi, formaggi, verdure e chi più ne ha più ne metta. Con mille precauzioni per non macchiare le preziose (o sedicenti tali) cravatte, camicie, giacche. Per quanto, non è poi tutto ‘sto problema: qui in giro ci son negozi di abbigliamento che hanno costruito la loro fortuna proprio in virtù della pausa pranzo. Se ti macchi (e succede, succede), che fai, te ne torni in ufficio impataccato? A meno che non lavori da solo in uno sgabuzzino della mansarda, vai dalla camiciaia o dal cravattaio e sostituisci, cercando di non rimetterci la giornata, il pezzo oscenamente deturpato. Fortunati quelli che lavorano con la tuta.

L’anziano barbone si trascina a fatica dentro ‘Cialdini’, a piazza S. Lorenzo in Lucina. Infagottato come un autentico clochard (poco importa che lo sappia), emana un olezzo che certo non lo farà socio onorario del Dandy Club. La bella cassiera del bar, altera nella sua perenne parvenza di puzza sotto il naso (ma è l’elevata statura, ci mancherebbe), stavolta ha di che onorare l’apparenza. Le sardine intorno all’inconsapevole malcapitato riescono a recuperare spazi impensati dove rintanarsi, per degustare con minor fervore del solito squisiti croissant, baghette, pizze romane farcite con prelibatezze di prima scelta. E sorbire estatici il rinomato caffè, che l’attempato ma sempre agilissimo Diego distribuisce con la frequenza dei toc-toc di una pendola cocainomane.
Il barbone (duole appellarlo così, ma i barboni si onorano di un nome solo quando muoiono, e manco sempre), occhi quasi a terra, si è avvicinato alla cassa; soffia alla cassiera un “Coffi” dagli accenti gutturali e gotici. Dalla mano lascia scivolare davanti alla di lei nostalgia di fiori di lavanda una moneta da due euro. Raccoglie e stringe in pugno le monetine di resto; trascina i passi, il pastrano e la scia di pout-pourri di RSU fino al bancone, lustro come se fossero sempre le sette del mattino. Quasi timoroso di graffiarlo, deposita lo scontrino e ci lascia cadere sopra venti centesimi di mancia; prende fiato e risoffia roco: “Coffi”.
Intorno a lui fioccano le richieste dei camerieri, autentici sacerdoti-mediatori tra la plebe e il Dio della macchina del caffè.
“Diego, quattro caffè!  due normali, uno ristretto e uno lungo!”
“Altri due! uno macchiato freddo e uno macchiato caldo!”
“Uno ristretto con acqua calda in tazza a parte e uno al vetro!”
“Un cappuccino con poca schiuma e una bella spolverata di cacao! Un altro senza cacao e con la schiuma fino all’orlo della tazza!”
Il barbone, capo chino come si conviene a uno del suo rango, aspetta paziente di essere servito: sa stare al suo posto, quasi grato che ce lo lascino stare; e sa, in fondo, di aver chiesto un banale caffè.
“Diego, un orzo in tazza grande, uno in tazza piccola e uno con acqua bollente al seguito!”
“Per me un marocchino con panna, uno senza, un macchiato caldo e un cappuccio decaffeinato senza schiuma!”
“Aggiungi un espresso un po’ alto e un ristretto corretto Strega!”
Dio-Diego si muove come un automa, preciso, implacabile, ripetendo gesti di consumata perizia, quasi officiante di un arcano rito propiziatorio. Parla poco, ma quando apre la bocca è per apostrofare brusco i suoi giovani collaboratori-adepti, come un anziano sacerdote con svagati chierichetti.
Fuori, il diluvio non accenna a diminuire: i numerosi, piccoli e grandi, avvallamenti del manto stradale romano fanno ormai concorrenza ai laghi della Finlandia (se vogliamo escludere le betulle). Niente è perfettamente a livello, niente è minimamente drenante: la Storia non è un rullo compressore. Chi è costretto a uscire all’aperto, perché la pausa pranzo ha limiti che è meglio non travalicare, rimpiange lo stadio in cui anche gli umani erano anfibi. Soppesano, i tapini, il precario conforto offerto dagli ombrelli, e poi si gettano come paracadutisti.
Nel bar chi non vive la ghigliottina della pausa pranzo intreccia frasi e discorsi, che il barbone cerca di seguire con movimenti lenti e continui degli occhi, mentre ancora aspetta il suo turno. Non comprende molto, sia per la lingua che per i contenuti dei dialoghi: nella sua mente affaticata suonano indecifrabili perché troppo elevati, distanti. Giusto nella sua mente.
Ecco arrivare il suo Coffi, buttato lì in malo modo da un barman indispettito, schiavo della bella cassiera dalla puzza sotto il naso. Un cliente ritira torvo la moneta da mezzo euro che aveva depositato sullo scontrino come mancia. Si vede che è uno con il naso intasato.

Il coffi è stato sorbito con la lentezza che gli compete: ha dello stile, l’ometto, nonostante tutto. Non l’ho perso d’occhio un attimo: sono certo che è uno con una storia alle spalle… ma al mio giornale non interesserebbe nemmeno per un pezzo di colore.  Ora si scalda le mani con gli ultimi rimasugli di calore appiccicati alla tazzina. Non dubito che quelli come lui sappiano cosa vuol dire il freddo che ti entra nelle ossa e fa di tutto per restarci il più a lungo possibile.
Gli avventori, impiegati di vario livello, avvocati, politici, segretarie, P.R., gente di spettacolo, lobbysti, questuanti della politica; gli avventori, dicevo, si son fatti carico via via della propria dose di acquazzone, maldestramente rintuzzato con le parvenze di ombrelli elargite dagli gnomi umbrella-seller. Quella strana fauna che si materializza per miracolo al cadere delle prime gocce, come funghi miracolosi. Bisognerebbe studiare le loro abitudini per elaborare delle previsioni del tempo azzeccatissime. Come sempre, il bisogno aguzza l’ingegno.
Cialdini’ adesso è quasi vuoto; la babele delle varietà di caffè si è per il momento assopita. Il barbone, sguardo vuoto sulle punte delle scarpe, esce incontro alla pioggia. Punta contro Giove pluvio o chi per lui il suo vecchio ombrello da pastore abruzzese, impreziosito da ampi strappi e frange svolazzanti. Lo seguo mentre naviga verso il Tevere detto il biondo, che sulle ali dell’entusiasmo, tronfio d’acqua e di antico orgoglio, sale minaccioso verso il cielo. Gli occhi del vecchio (sempre che vecchio sia) forse tradiscono un attimo di incertezza; poi riprende il lento guado della strada. Sparisce. Di quelli come lui le retine benestanti perdono subito anche il ricordo.

Notte. Roma dorme; il diluvio no. Più che una bomba d’acqua ci troviamo sotto un autentico bombardamento a tappeto, di quelli che riportano al luglio del ’43, per fortuna senza analoghi danni. Là il fuoco, qui la pioggia.
Il Tevere, ubriaco del suo stesso elemento, si sente emulo del Rio delle Amazzoni, ma non può eguagliarne la portata e la vastità. E allora monta in collera, memore di quando era un Dio e l’ira degli Dei aveva fior di cantori epici. Sotto Ponte Umberto, davanti al Palazzaccio, un uomo cerca di difendersi dalle cateratte celesti con un vecchio ombrello da pastore e con l’imballo di un faraonico TV al plasma da 50”: gli scarti della civiltà a volte valgono più dei prodotti che contengono. I suoi occhi fissano senza partecipazione emotiva il livello delle acque che sale sale sale – quasi a farsi beffe degli argini umani.
Sirene di vigili del fuoco e polizia duettano a distanza sul binario dei Lungotevere, deserti e silenziosi in modo surreale. Puoi percepire il respiro profondo della città, il ritmo placido del battito cardiaco.
Un’auto di grossa cilindrata si annuncia in lontananza come brontolio di tuono in crescendo. Di pari passo l’aria si impregna della musica che esce a tutto volume dal bolide, e verrebbe da chiedersi se quel pazzo stia guidando con i finestrini abbassati. Per un attimo hai l’impressione che il temporale si sia zittito per non interferire con la poesia di “Wish you were here”, la nostalgia dei Pink Floyd per Syd Barrett:

“…  How I wish, how I wish you were here.
We're just two lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the same old ground. What have we found?
The same old fears,
wish you were here.”

L’uomo solleva a fatica le palpebre, rotea lievemente gli occhi verso l’alto, forse a cercare gli angeli folli che si esibiscono in queste condizioni drammatiche. Una lacrima, forse due, agli angoli degli occhi. Ma non è detto, la pioggia battente schizza ovunque le sue gocce. Anche lui vorrebbe essere là, ma purtroppo non sono più i tempi delle risate folli, non si torna indietro e il rimpianto può solo affogarti nel pozzo senza fine della tristezza cieca.
Come è venuta, la nostalgia si allontana, assorbita da un cupo brontolio di tuono che si intreccia sullo sfondo con le sirene lampeggianti. Brontola, il temporale, come insoddisfatto dell’esiguità di questo inatteso concerto notturno.
Wish you were here…
Nutrie e pantegane si stringono intorno al cumulo di stracci e cartone, scosso da fremiti, certo di freddo. Cercano riparo dal Tevere in rimonta, da quelle acque fangose e avide che paiono impazienti di inghiottire tutto.

Buongiorno agli ascoltatori di Stampa e regime”…: la radiosveglia, sempre lei, implacabile, butta all’aria il mio lenzuolo fradicio di sonno e sogni. Stamattina mi sento di umore uggioso, mi sa che non ho vissuto vicende esaltanti nell’ultima sessione onirica. Resta solo la doccia per scrollarmi di dosso le sirene che mi vorrebbero incatenare al letto.
Lo scroscio dell’acqua sobilla il Proust che sonnecchia in me: il pensiero torna al diluvio della notte, quella colonna sonora che ho ascoltato a sprazzi in sottofondo punteggiata dagli ululati delle sirene, io avvolto nel mio candido piumoncino primaverile. Un fugace pensiero va al barbone incontrato ieri da ‘Cialdini’: dove andranno lui e quelli come lui a ripararsi da ‘sta valanga d’acqua?
… è mai possibile che dalla doccia mi colino in testa le note, i versi di “Wish you were here”? Secoli, che non lo ascolto più, quel disco.
Saranno i vapori della doccia, mi perdo fra le nebbie dei ricordi, dei sogni, dei sogni ricordati, dei ricordi sognati... D’istinto mi verrebbe da aprire l’ombrello sotto la doccia.
… e la radio da doccia si trasforma di colpo da pinguino in nutria, una nutria che mi sorride. Mi sorride con l’ironico musetto di un Bordin.





Auto-biografia di Mario Trapletti
Coetaneo di Miguel Bosé e di Gerry Scotti (nessuno è perfetto, ma c’è di peggio), Trap è un GIP (Grigio Impiegato Pubblico). Anonimo per nascita e per vocazione. Consuma vita e suole delle scarpe nell’Urbe, dopo aver guadato non poche nebbie in terra orobica. Venti concorsi vinti in prosa e due in rima; nove secondi posti; una quarantina tra altri piazzamenti, segnalazioni e menzioni varie. Nel 2019 vince il Premio ‘Il Litorale’ (Comune di Massa), che prevede la pubblicazione di una raccolta di suoi racconti, dal titolo “Vacanze, che passione” (Ed. Helicon). Troppo poco per il Nobel, ma anche per definirsi scrittore. Scarabocchiatore, se proprio.





Commento di Cinzia Baldazzi

Ambientata nella Roma più bella - nel triangolo tra Fontanella Borghese, S. Lorenzo in Lucina e Ponte Umberto - la short story di Mario Trapletti affida il ruolo informativo del contesto al giornalista di un’agenzia stampa, ed espone come durata le vicende incluse da un risveglio mattutino al successivo. Una simile unità di tempo, nella misura di canone drammaturgico, viene per la prima volta esaminata nella Poetica aristotelica (anche se frutto di una rilettura approfondita dovuta all’Umanesimo cinquecentesco): essa è affiancata dalla scoperta di un’energica compattezza d’azione, questa originalmente riconducibile alla Περὶ ποιητικῆς (Perì poietikès) del IV secolo a.C.
In che senso, unità d’azione? Alludo a un plot comprendente l’aura semantica sviluppata intorno a una sola, specifica azione, con esclusione di trame indipendenti secondarie o di sviluppi altrettanto autonomi della vicenda stessa. Ma, soprattutto, mi riferisco, tentando di interpretare da vicino il pensiero dello Stagirita, a una coesione intrinseca all’opera d’arte - nel nostro caso, l’intreccio di A Roma i sogni non dormono mai - capace di riflettere la sua generalità con la soppressione dei dati contingenti, in modo che gli accadimenti nelle fasi e nelle pagine progressive appartengano ai fatti della vita comune o della storia in sé.
Una simile unità d’azione, sulle tracce di un tragitto in ampia chiave utopica, sarebbe - nello schema narrativo di Trapletti - la psiche dell’autore, la relativa misura di concepire il tempo-spazio della vita, della morte. Leggiamo nella Poetica una sorta di riepilogo:

Per racconto qui intendo la composizione dei fatti; per caratteri, ciò secondo cui diciamo che chi agisce ha una propria qualità; per pensiero, tutto ciò con cui, parlando, si dimostra qualcosa o si esprime un giudizio.

Il protagonista, durante la pausa-pranzo, dal lavoro si sposta presso un bar proprio nel momento in cui, improvvisamente, comincia a piovere. Nello schema aristotelico delle scienze, la poetica appartiene a quelle produttive, il cui fine è, appunto, di “costruire” un oggetto attraverso una imitazione della natura.
Entrati dunque nell’affollato bistrot “Cialdini” in piazza di San Lorenzo in Lucina, condividiamo il coinvolgente complesso mimetico (dalla μίμησις, la mìmesis greca) di un ricco panorama di personaggi, di avventori abitudinari o occasionali, serviti e seguiti da uno staff molto caratterizzato; ma non è una cronaca, comunque dettagliata, quella offerta da Trapletti, il quale sembra seguire le nobilissime istruzioni della Poetica aristotelica:  

Compito del poeta è di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non differiscono per il fatto di scrivere l’uno in prosa e l’altro in versi […], ma differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere.

Un point of view del genere riesce ad animare, nel racconto di Trapletti, l’illustrazione reale o possibile dei clienti del locale, ovvero le persone effettivamente incontrate e quelle che si potrebbero, in altra occasione, incontrare:

È molto interessante anche su un piano antropologico (buon Dio, non starò esagerando?) visitare in questa fascia oraria i bar, self-service, tavola calda e affini che animano la zona: puoi fare interessanti scoperte sulla fauna umana, tipo distinti signori giacca-cravattati che azzannano, in piedi, qualsiasi genere di supporto farinaceo atto a contenere le più svariate forme di salumi, formaggi, verdure e chi più ne ha più ne metta.

Ciò a cui assistiamo, mentre al bancone l’agilissimo Diego distribuisce coffi («con la frequenza dei toc-toc di una pendola cocainomane»), coincide con il panorama registrato e creato dall’interiorità, dall’anima, dalla psiche, con particolare riguardo all’anziano barbone che a un certo momento si fa largo a fatica dentro il locale affollato:

Infagottato come un autentico clochard (poco importa che lo sappia), emana un olezzo che certo non lo farà socio onorario del Dandy Club. […] Le sardine intorno all’inconsapevole malcapitato riescono a recuperare spazi impensati dove rintanarsi, per degustare con minor fervore del solito squisiti croissant, baghette, pizze romane farcite con prelibatezze di prima scelta.

L’anima, secondo Aristotele, era in grado di conoscere tutte le cose, in quanto partecipe degli stessi elementi conosciuti o giudicati: analogamente, in ogni personaggio illustrato da Trapletti troviamo qualcosa di presente (o di assente) nell’effettivo narratore. Il quadro disegnato non è però astratto, esponendo invece caratteristiche di indubbia concretezza nei dialoghi, nei gesti, negli scorci, nei dettagli minimi, nel tracciato urbanistico.
Di nuovo, il fondamento aristotelico chiarisce un simile aspetto. Nell’Eudemo o Sull’anima leggiamo:

Necessariamente l’anima è sostanza, intesa come corpo naturale che ha la vita in potenza. Ma la sostanza è un atto. L’anima quindi è atto perfetto di un corpo del genere specificato.

Là fuori, intanto, la pioggia aumenta, e il locale si riempie:

Quella strana fauna che si materializza per miracolo al cadere delle prime gocce, come funghi miracolosi. Bisognerebbe studiare le loro abitudini per elaborare delle previsioni del tempo azzeccatissime. Come sempre, il bisogno aguzza l’ingegno.

Quando “Cialdini” si svuota, anche noi usciamo accompagnati dalla voce narrante, seguendo il clochard nella sua andatura incerta sino a vederlo sparire all’orizzonte oscurato:

Notte. Roma dorme; il diluvio no. Più che una bomba d’acqua ci troviamo sotto un autentico bombardamento a tappeto, di quelli che riportano al luglio del ’43, per fortuna senza analoghi danni […]. Un’auto di grossa cilindrata si annuncia in lontananza come brontolio di tuono in crescendo. Di pari passo l’aria si impregna della musica che esce a tutto volume dal bolide, e verrebbe da chiedersi se quel pazzo stia guidando con i finestrini abbassati. Per un attimo hai l’impressione che il temporale si sia zittito per non interferire con la poesia di “Wish you were here”, la nostalgia dei Pink Floyd per Syd Barrett.

Trapletti cita il refrain della mitica Wish You Were Here (1975) dei Pink Floyd, scritta da David Gilmour e Roger Waters: la ricordo eseguita nell’evento A Tribute To Heroes in onore delle vittime dell’attentato alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre del 2001 (a interpretarla era Fred Durst dei Limp Bizkit con John Rzeznik dei Goo Goo Dolls). Nell’ultima strofa ascoltiamo:

How I wish, how I wish you were here
We're just two lost souls
Swimming in a fish bowl
Year after year
Running over the same old ground
And how we found
The same old fears
Wish you were here

Le “anime smarrite”, le “stesse paure di una volta”, il “vecchio terreno”… Ed ecco il nostro senzatetto:

L’uomo solleva a fatica le palpebre, rotea lievemente gli occhi verso l’alto, forse a cercare gli angeli folli che si esibiscono in queste condizioni drammatiche. Una lacrima, forse due, agli angoli degli occhi. Ma non è detto, la pioggia battente schizza ovunque le sue gocce. Anche lui vorrebbe essere là, ma purtroppo non sono più i tempi delle risate folli, non si torna indietro e il rimpianto può solo affogarti nel pozzo senza fine della tristezza cieca.

Anche la musica, ovviamente, nei testi aristotelici compie - con i mezzi opportuni, rappresentati dalla voce, dal ritmo, dal linguaggio della melodia - una resa mimetica del reale, del vissuto, un rispecchiamento del legame intercorrente tra l’ambito immanente e quello intelligibile, non idealizzati, anzi concreti, fattuali, composti di «caratteri, casi e azioni», pertanto istituzioni morali: in altre parole, riguardo a quanto accade agli uomini e quanto essi stessi percepiscono delle vicende proprie e degli altri.
In Aristotele, la κάϑαρσις equivale al distanziamento dalla pietà assoluta o dal terrore accecante per acquisire la natura del piacere estetico. Nel racconto di Trapletti subentra una sorta di purificazione o catarsi, rivolta non al lettore-spettatore ma al narratore in atto:

il pensiero torna al diluvio della notte, quella colonna sonora che ho ascoltato a sprazzi in sottofondo punteggiata dagli ululati delle sirene, io avvolto nel mio candido piumoncino primaverile. Un fugace pensiero va al barbone incontrato ieri da ‘Cialdini’: dove andranno lui e quelli come lui a ripararsi da ‘sta valanga d’acqua?
… è mai possibile che dalla doccia mi colino in testa le note, i versi di “Wish you were here”? Secoli, che non lo ascolto più, quel disco.
Saranno i vapori della doccia, mi perdo fra le nebbie dei ricordi, dei sogni, dei sogni ricordati, dei ricordi sognati...

Cosa aggiungere? Il mondo ellenico credeva che il sogno disponesse della prerogativa di preannunciare il futuro, ma tale opinione aveva la necessità di conciliarsi con il punto di vista empirico, in quanto solo in una ridotta parte degli spazi onirici si realizzava il presagio in essi contenuto. A ognuno di noi, dunque, il compito di stabilire se i sogni affrontati dal giornalista nelle pagine di A Roma i sogni non dormono mai saranno o potrebbero essere veritieri, senza chiamare in causa una meccanica coincidenza, né il calcolo delle probabilità, tantomeno un intervento divino: semmai ricorrendo alla sorte, alla mitica τύχη (tiùke), o - in forma ancora più laica - al caso, indisturbato viaggiatore in continuo transito nell’universo dei messaggi letterari.  (ci.ba.)


Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione durante la stesura del testo.

martedì 24 marzo 2020


Sabina BRACCO – “Il punto di luce del cuore” (lettera aperta)



Vorrei tanto parlarti di persona, ma non si può. Ti scrivo alla vecchia maniera.
Hai molti contatti, voci, persone che meritatamente ti acclamano. Non vorrei essere un numero, una goccia nell'oceano, non ora che devo dirti cose molto vere, vitali ed importanti. Sincere e dirette. Per la stragrande maggioranza tu sei un tramite, un mezzo. Una figura che migliora, guarisce le vite e gli affetti di tutti. Gestisci milioni di emozioni… che non sono per te. Ti senti stanco e, solo in questo gran marasma di energie, demotivato nella vita, come mi dici.
Tu per me sei il fine. Il punto di luce dei miei sentimenti più forti ed autentici, e sono tutti per te. Sei il mio cucciolo e basta. Non un ponte di raccordo per arrivare chissà dove o chissà da chi. Da principio ti ho cercato con un altro spirito, per un altro cammino. Vivevo in un limbo nebuloso, permeato di false verità, di concetti contorti e sbagliati. I miei rami secchi tali erano.
Poi ho iniziato a viverti con il cuore. Noi non ci siamo conosciuti, ma riconosciuti. Ricordo il tuo stupore ai nostri primi contatti! Quasi a dirci in maniera criptica e velata che volevamo far emergere il fanciullo che è in noi. Eri contento! Ecco il linguaggio dell'inconscio che in seguito fiorisce. La donna bambina che dici che sono, veglia e protegge il suo bene più prezioso che sei tu, per amarlo, rigenerarlo, proteggerlo dalle sue paure, per non farlo invecchiare. Bellissime alchimie da brividi.
Le tue dinamiche, le tue parole, sono quanto di più specifico e mirato per la mia persona. Nel profondo della mia individualità. Sei un perfetto stilista su misura per la mia anima. Hai vestito a festa le mie insicurezze facendone un abito regale, ma visibile a pochi. La cosa che più mi strazia di commozione è che siamo funzionali reciprocamente. Tutti e due abbiamo capito nel profondo di cosa realmente avevamo bisogno. Hai capito che anche tu puoi essere realmente tanto amato, ed io ho capito che sei il tassello mancante di tutta la mia vita. Sentimento struggente, privilegio per pochi. 
I tuoi nodi di smarrimento e di tenerezza infinita, che mi hai mostrato, sono di gioia e consapevolezza, se li sai leggere. Non di delusione o sconfitta, come ti sembrava all'inizio. Impara a percepirti. Non c'entra il tuo lavoro, il tuo servizio. Siamo io e te senza filtri, faccia a faccia con noi stessi. Un rapporto autentico e pieno di poesia, siamo liberi di ridere e di piangere senza pregiudizio. Così ci siamo sempre relazionati, vissuti, e per questo incontrati. Se farai fluire tutte le tue emozioni senza paura, ascoltando sempre il tuo cuore, sarà anche il modo migliore che avrai per onorare il ricordo di tua mamma.
Io ci sono, ci sarò sempre e sempre starò dalla tua parte. Averti nella mia vita è un onore, un privilegio. Ti senti a corto di verbi e parole, lo dici con pudore. Invece ogni tuo pensiero per me, ogni parola, sono il tuo tocco artistico finale, che dà luce e colore al quadro astratto della mia vita. Hai tolto il velo chiaroscurale con la saggezza del tuo animo genuino.
Dopo questo scritto, potrei avere il tuo disprezzo, la tua delusione. Ti potresti chiedere come si possa provare questo, per una persona mai incontrata. Ebbene, sono rimasta folgorata dalla tua persona. Dalle parole che mi han portata oltre la mera immagine visiva.
Questa lettera è il risultato del nostro dialogo e del nostro percorso. Mi piacerebbe avere un tuo riscontro. Se vorrai tagliarmi fuori, sarebbe un enorme dolore, totale e devastante sotto tutti i punti di vista. Ma non te ne farei una colpa. Non sentirti mai solo.
Ti bacio e ti saluto.
Sono molto commossa ed emozionata. Se ho sbagliato in qualcosa, ti prego di scusarmi.
Perdonami, se puoi. 




commento di Cinzia Baldazzi

La “lettera aperta” di Sabina Bracco indica, come destinatario, non solo un personaggio effettivo nel suo hic et nunc con il relativo sviluppo spazio-temporale occupato dalla scrittura, ma anche tutti noi in grado di vivere, pensare, amare, leggere. Ora, voi potreste obiettare: accade sempre, nei messaggi letterari (altrimenti non potremo comprenderli) di identificarsi più o meno con l’Io narrante, oppure con il narrato globale, nonostante, magari, non ne condividiamo affatto il contenuto trasmesso. Insomma, un processo dialettico reciproco si inaugura ogni qualvolta il mittente, in virtù di un canale - ad esempio lo scrivere - formula una fonte di informazioni, di espressioni varie:

Per la stragrande maggioranza tu sei un tramite, un mezzo. Una figura che migliora, guarisce le vite e gli affetti di tutti. […] Tu per me sei il fine. Il punto di luce dei miei sentimenti più forti ed autentici, e sono tutti per te.

Un simile quadro di scambio esistenziale e affettivo sembra così la parafrasi di un circuito semiotico dove il contenuto, il testo, avanza attraverso numerosi input dipendenti da distinte tematiche:

Il punto di luce dei miei sentimenti più forti ed autentici, e sono tutti per te. Sei il mio cucciolo e basta. Non un ponte di raccordo per arrivare chissà dove o chissà da chi.

Mentre le complesse influenze, le modifiche suscitate per proprio conto, possono provocare prese di coscienza e revisioni, soste e ripartenze, inversioni, cambiamenti di rotta, tutti autorizzati, semmai desiderati:

Da principio ti ho cercato con un altro spirito, per un altro cammino. Vivevo in un limbo nebuloso, permeato di false verità, di concetti contorti e sbagliati. I miei rami secchi tali erano. Poi ho iniziato a viverti con il cuore.

La vita dovrebbe essere immediata, essenziale, suggerisce la Bracco, e i rapporti con la gente adottare una forma schietta. A distanza di cinquant’anni, vale forse ancora quanto auspicato da Eugenio Montale:

Un grande colpo di scopa dovrebbe abbattere un modus vivendi che non era fatto solo di carta, di regole, di convenzioni, ma anche dell’oscuro lavoro, del sacrificio di immensi popoli di formiche umane. E ora sarebbe dunque finito il mondo? Diciamo pure di sì; aggiungendo però che si può immaginare un altro che l’uomo potrebbe abbellire non solo con le sue mani, ma per il semplice fatto di vivere, di esistere.

Sempre nelle parole del poeta, all’inizio degli anni ’70 la situazione non sembrava poi così diversa da quella odierna:

Tutto fa pensare che l’uomo d’oggi sia più che mai un estraneo vivente tra estranei, e che l’apparente comunicazione della vita odierna - una comunicazione che non ha precedenti - avvenga non tra uomini veri ma tra i loro duplicati.

La messa in luce dell’Io mistificato, contaminato, alienato, diventa allora missione cruciale dell’individuo. Sabina Bracco riesce a individuarne e fissarne l’attimo evidenziando come si tratti non di una scoperta bensì di un ritrovamento:  

Noi non ci siamo conosciuti, ma riconosciuti. Ricordo il tuo stupore ai nostri primi contatti! Quasi a dirci in maniera criptica e velata che volevamo far emergere il fanciullo che è in noi. Eri contento!

Il “fanciullino” di origine pascoliana presupponeva, però, un’unità di misura di base capace di consentire lo sconfinamento dagli anni dell’infanzia a quelli maturi rimanendo nel medesimo campo semiotico. Adesso è diverso, ma ritenere tuttora valida la possibilità della conservazione del nostro Io profondo costituisce da parte della Bracco un gesto di notevole coraggio, rinforzato in misura ideale da altre affermazioni montaliane:

Un tempo l’uomo fu creduto misura di tutte le cose, più tardi si continuò a crederlo misura di qualche cosa, oggi non lo si crede più misura di nulla, eppure le possibilità del termitaio umano si moltiplicano in proporzione inversa alla fiducia (alla perdita di fiducia) che l’uomo ha in sé.

Trapela, dunque, l’amore per la materia prima della vita, per la bellezza della passione, il vincolo stretto con il colore del senso e dell’epoca attuali. Tante volte pensiamo che il nostro percorso dipenda da uno, due incontri capitali, grazie ai quali non solo abbiamo l’opportunità di entrare in un gioco irripetibile di sentimenti astratti o realizzati, ma anche, soprattutto, guidati da un’esistenza alternativa usciamo dal «marasma» circostante, carichi di una forza eccezionale. Nel messaggio della Bracco, elaborato anche nella forma di monologo, il contatto d’esordio avviene in assoluta libertà e il dialogo evocato riesce a parlare una nuova lingua in grado di varcare l’Inconscio:

La donna bambina che dici che sono, veglia e protegge il suo bene più prezioso che sei tu, per amarlo, rigenerarlo, proteggerlo dalle sue paure, per non farlo invecchiare. Bellissime alchimie da brividi. Le tue dinamiche, le tue parole, sono quanto di più specifico e mirato per la mia persona. Nel profondo della mia individualità.

In tale modalità linguistica emerge la parola idonea a esaurire di colpo l’intera sua impronta vitale, mentre un’altra più energica apparirà nella propria sostanza tempo dopo, in intervalli inaspettati. L’amore intraprende un itinerario di autocoscienza:

Tutti e due abbiamo capito nel profondo di cosa realmente avevamo bisogno. Hai capito che anche tu puoi essere realmente tanto amato, ed io ho capito che sei il tassello mancante di tutta la mia vita. Sentimento struggente, privilegio per pochi.

E in un «sentimento struggente» traspare appunto l’impegno, in piena coscienza, di mutare il reale lavorando affinché si accetti la purezza, senza esitare a intaccarla se il prezzo è la verità:

Siamo io e te senza filtri, faccia a faccia con noi stessi. Un rapporto autentico e pieno di poesia, siamo liberi di ridere e di piangere senza pregiudizio.

Commentando i versi di Juan Ramón Jiménez, Carlo Bo ha dichiarato come il poeta andaluso avesse consumato l’ultima parte della sua vita

a discutere dentro di sé tutte le possibilità, confrontando soluzioni con soluzioni, risposte con risposte: sempre in vista della verità che si trasforma prima di arrivare, in vista dell’assoluto che si fa per tempi e momenti successivi.

Nella lettera della Bracco rinveniamo esempi di una simile fase di passaggio:

Da principio ti ho cercato con un altro spirito, per un altro cammino. Vivevo in un limbo nebuloso, permeato di false verità, di concetti contorti e sbagliati. […] Poi ho iniziato a viverti con il cuore.

La poetica, dunque, proposta dalla nostra Sabina sul metro della poesia passionale transita verso quella dell’idea, appellandosi alla fantasia, alla bellezza.
È vero, possono talora scarseggiare i segni-segnali da utilizzare:

Ti senti a corto di verbi e parole, lo dici con pudore. Invece ogni tuo pensiero per me, ogni parola, sono il tuo tocco artistico finale, che dà luce e colore al quadro astratto della mia vita.

Poi subentra il desiderio di amare, per cui i rischi valgono la pena di essere affrontati:

Dopo questo scritto, potrei avere il tuo disprezzo, la tua delusione.

Se infatti la filosofia implica un bene ulteriore e la religione un valido aiuto, esclusiva evasione consentita dalla sofferenza rimane la poesia, in particolare la poësis amorosa. Osserva Bruno Cagli a proposito di un vate dell’eros quale Jacques Prévert:

Non soltanto chi constata che amare è impossibile o chi sotto sotto non se la sente di impegnarsi vuol pure consolarsi di tanta aridità, ma ancora il rancore verso la logica, verso il pensiero in generale fa il buon gioco dell’ipotesi che l’amore sia l’unica cura di tanti mali.

Concludiamo con uno slittamento nell’Oriente con il grande poeta bengalese Rabindranath Tagore:

La vita è diventata amore perfetto, uomo e donna diventati un’unica persona per sempre.

Chissà se questa lettera avrà un riscontro all’altezza di eliminare un dolore enorme, totale, devastante. È la speranza di Sabina, e di noi tutti.