Il Dio in fasce di Federico Garcìa Lorca
Il blog “La memoria
di Adriano”, appena (ri)nato, va subito in vacanza. L’appuntamento è per i
primi giorni del nuovo anno. Ma, nel frattempo, vi lascia in compagnia di
Federico Garcìa Lorca con la sua Ode al
Santissimo Sacramento dell’Altare.
Nel 1928, il successo
del Romancero Gitano, appena pubblicato,
fu in parte rovinato dalle critiche degli amici Salvador Dalì e Luis Bunuel,
che accusarono Lorca di essere un poeta tradizionalista e folkloristico. In preda
a una crisi esistenziale e sentimentale, Lorca si gettò d’impegno a comporre l’Ode al Santissimo Sacramento dell’Altare,
che apparve nel mese di dicembre sulla “Revista
de Occidente”, corredata dalla dicitura “Homenaje a Manuel de Falla”. Tuttavia il
musicista – andaluso come Lorca, e grazie al quale aveva fondato una compagnia
di spettacoli e balletti – pare non gradisse molto l’omaggio, al punto da
incrinare l’amicizia che li legava.
Negli anni a venire l’Ode, personalissima visione della figura
di Gesù, bambino e adulto, incontrò il gradimento di importanti uomini di
Chiesa. Tra questi, il nostro don Primo Mazzolari, conquistato dai versi che
aveva letto nella traduzione eseguita da Carlo Bo e pubblicati da Guanda nel
1940, in una collana diretta da Attilio Bertolucci.
Più recentemente, è
stata la volta del cardinale Marcelo González Martín, arcivescovo di Toledo, il
quale, nel 1989, ammirava di quell’Ode
la “libera e stravagante interpretazione dell’Eucaristia, in fin dei conti,
però, rivelatrice di una fede mai estinta nell’anima del poeta”.
L’Ode ha come acrostico “Pange lingua
gloriosi corporis misterium” (Canta, o mia lingua, il mistero del corpo
glorioso).
Federico Garcìa Lorca
Ode
al Santissimo Sacramento dell'Altare(traduzione di Carlo Bo)
Cantavano le donne lungo il muro
inchiodato
quanto ti vidi, Dio forte, vivo nel
Sacramento,palpitante e nudo come un bambino che corre
inseguito da sette torelli capitali.
Vivo eri, Dio mio, nell'estensorio.
Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco.Palpitando come il povero cuore della rana
che i medici mettono nel fiasco di vetro.
Pietra di solitudine dove l'erba geme
e dove l'acqua scura perde i suoi tre
accenti.alzano la tua colonna di nardo sotto la neve
sopra il mondo che gira di ruote e di falli.
Io guardavo la tua forma deliziosa
fluttuante
nella piaga d'olî, nel panno d'agonia,e socchiudevo gli occhi per centrare il dolce
tiro a segno d'insonnia senza un uccello nero.
È così, Dio accorato, che voglio averti.
Tamburello di farina per il neonato.Brezza e materia unite in espressione esatta,
per amore della carne che non sa il tuo nome.
È così, forma breve d'ineffabile rumore,
Dio in fasce, Cristo minuscolo ed
eterno,mille volte ripetuto, morto, crocifisso,
dall'impura parola dell'uomo che suda.
Cantavano le donne nell'arena senza
guida,
quando ti vidi presente sopra il tuo
Sacramento.Cinquecento serafini di splendore e di colore
nella cupola neutra gustavano il tuo grappolo.
O Forma consacrata, vertice dei fiori,
dove tutti gli angoli prendono luci
fisse,dove numero e bocca costruiscono un presente
corpo di luce umana con muscoli di farina!
O Forma limitata per esprimere concreta
moltitudine di luci e clamore ascoltato!O neve circondata da timpani di musica!
O fiamma crepitante sopra tutte le vene!