The Times
They Are A-Changin’ mi commuove
ancora
di Cinzia Baldazzi
Nella Filosofia
dell’Arte dove è stata inserita questa parte di presentazione alla vostra jam
session su Dylan - sulla scia del pensiero di Immanuel Kant e di Ludwig
Wittgenstein - ogni legame di forzata dipendenza dell’arte dal naturalismo,
“dall’apparire sensibile dell’idea”, di natura legata alla filosofia hegeliana,
viene interrotta: abbiamo accolto invece l’allargamento di ogni metafisica o
poetica all’esistenza, in modo da permettere alla nostra immaginazione, alle
nostre idee, di prodursi attraverso le canzoni di Dylan per mezzo di una forza
potente di per sé.
Il tutto è
romanticamente inserito nel campo della vista e della sensibilità nella misura più
vasta del termine, che riguarda musica da ascoltare e alla quale assistere
nella sua performance, e quindi in prima istanza come pura registrazione delle
cose in chiave sensoriale, fonte principale dei sentimenti, di adesione o
rifiuto ad essa.
La filosofia
dell’arte, grazie all’espressione che gli è propria di “giudizio di gusto”, si
mostra in grado di gestire una autonoma forma di sintesi, di appello alle
categorie logiche del pensiero, della storia, idonee e ritenute universalmente
valide. Tale determinazione di gusto è forma particolare di giudizio sintetico
a-priori, ma non è fonte di conoscenza, perché si vuole occupare solo della
bellezza del soggetto esaminato. Noi qui, alla poetica musicale di Dylan,
abbiamo voluto dedicare uno sguardo più prettamente conoscitivo, quindi ci
siamo rivolti a un autentico giudizio sintetico a-priori, dove si uniscono la
universalità e la necessità finora attestata dalla precedente critica
dylaniana, con la fecondità e l’aggiunta di informazioni da parte di
un’indagine nell’hic et nunc dello spazio-tempo da ognuno di noi vissuto ed
elaborato.
Pertanto, gli
oggetti artistici dell’indagine vengono pensati liberamente e in modo
contingente da noi: non sarà il nostro intelletto e quello di Dylan a doversi
adeguare alla storia, ai sentimenti elencati per trarne concetti analitici
universali del messaggio, ma viceversa sarà la storia a regolarsi sui concetti suscitati
dall’intelletto e ad accordarsi con essi. Come dice Wittgenstein, “il mondo è
tutto ciò che accade”, “ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di
cose”, “l'immagine logica dei fatti è il pensiero”, che noi stessi vi mettiamo.
Credo sia il
modo migliore per iniziare a parlare di The
Times They Are A-Changin’, dove innanzitutto, da parte dell’autore, esiste il dichiarare la verità
incontestabile del proprio trovarsi nel mondo per mezzo del semplice porsi del
nostro pensiero. Per quanto precaria e riformulabile, tale indicazione dovrebbe
suggerire un forte senso di sollievo: possiamo scrutare, attraverso il suo
sviluppo, una prospettiva di salvezza, in qualche modo raggiungibile, sia pure nell’annunciato
e irreversibile capovolgimento continuo dei tempi.
Ricordate l’incipit?
Venite
intorno gente
dovunque voi
vagate
ed ammettete
che le acque
attorno a
voi stanno crescendo
ed accettate
che presto
sarete
inzuppati fino all'osso.
E se il
tempo per voi
rappresenta
qualcosa
fareste
meglio ad incominciare a nuotare
o
affonderete come pietre
perché i
tempi stanno cambiando.
The Times, ascoltandola mi ha sempre,
profondamente, commossa e turbata. Così io, magari, chissà, insieme a quanti
altri, con The Times ricevo,
intercetto una commozione coinvolgente,
emozionante, che mi cattura e induce a riflettere, colpita, scossa, ma anche
intenerita e incoraggiata.
Era senz’altro la “commozione” “ingenua” e “sentita”
di una dodicenne della borghesia romana della fine degli anni Sessanta, quando
la ascoltai a casa di Dina, una mia amica, nel disco comprato dal fratello
Federico, di qualche anno maggiore di noi. Era il 1967. Oggi, il professor
Federico Tron è qui con noi.
Lui, a sua volta, quindicenne, era stato iniziato da un assiduo partecipe, adulto,
di un gruppo archeologico con cui effettuava periodicamente delle gite in
comitiva: a volte accadeva che, in qualche pausa, cantassero e parlassero di
musica. Questa persona raccontò di uno strano personaggio, una specie di “folletto”,
il quale anni prima, nel ’63, aveva seguito in una esibizione al Folkstudio.
Il giovane cantautore era giunto dagli Stati Uniti
ancora senza effettivi mezzi economici: Federico sentì raccontare che fu visto
dormire dentro il furgone posteggiato davanti al locale, a poca distanza da
qui. Incuriosito dal personaggio, poco dopo andò in un negozio di dischi e
acquistò il vinile a 45 giri di The Times
(l’altro lato conteneva Honey Just
Allow Me One More Chance). Il singolo era ovviamente stato tratto
dall’omonimo LP uscito nel ’64. E lì, con Dina e Federico, è cominciato il mio
sogno dylaniano, e questa sera si specchierà nei vostri occhi.
Non lo conoscevo. Tuttavia, della musica statunitense
avevo già apprezzato alcune canzoni dei Beach Boys, certamente di Aretha
Franklin (perché Federico amava la musica nera). Dunque, sono quarantanove anni
che mi commuovo, passando ovviamente dal vinile al cd, e ancora, sempre, quasi
mi si stringe il cuore se ascolto quell’album. Nonostante i toni squillanti
dell’iniziale title track, subito penetro nella sua dolorosa e purtroppo non
risolutiva depressione in una misura che nessuna altra opera dell’autore, nello spazio delle mie
sensazioni, è mai riuscita ad evocare.
La commozione però non coincide, solamente, con una
passione, con un pathos generazionale:
quale generazione, infatti, si commuoverebbe
in virtù di un medesimo messaggio, senza interruzione, per cinquant’anni? Se non si trattasse, appunto, del frutto di un
giudizio di gusto sintetico a-priori, nello stesso tempo universale eppure aggiuntivo
di conoscenza attuale, ogni volta che si ripete.
Secondo Clinton Heylin, nel libro biografico Day by Day, Dylan ha scritto e composto The Times They Are A-Changin’ alla fine di
agosto del 1963, nell’appartamento sulla Quarta Strada di New York. La canzone
vede l’aria come demo suonata al pianoforte per la Witmark Music (a quanto
pare, un paio di settimane dopo essere stata scritta). Questa versione di The Times They Are A-Changin’ viene pubblicata, nel 1991, sul cofanetto The Bootleg Series (vols.1-3). Da allora, fino ad oggi, è stata eseguita
circa “soltanto” 633 volte nei concerti dal vivo: cifra assai inferiore a
quanto già citato, ad esempio, alle 1377 esecuzioni di Blowin’ in the Wind, più del doppio.
Quando fu cantata la prima volta in pubblico a
Filadelfia, il 25 ottobre del ’63, in poche parole era semplicemente diversa da qualsiasi altra “cosa” girasse a quei
tempi, e con “lei”, la musica non sarebbe stata più la stessa: e molti esperti
fan di Dylan e del panorama culturale complessivo del ‘900, aggiungono “se non addirittura
il mondo”.
Cerchiamo di diradare, attraverso l’intuizione
sintetica a-priori, il mistero dello stato d’animo trascinante ed appassionato
della canzone, in parte causato da alcuni meccanismi di giudizio inerenti il
testo. Sarà utile, comunque, mirare ad elaborarne personalmente il simbolismo
poetico-musicale: vorrei cioè evitare di privilegiare una prospettiva a
carattere universale o categoriale, che comporterebbe il voler raggiungere,
come tappa finale, un giudizio analitico universale. Ritengo sia proficuo,
invece, percorrere un sentiero intimistico, solo per un breve intervallo mimetizzato
in una passione generale, tipica della vita e della storia, come di qualsiasi
autentico discorso poetico in progress lungo le idee delle quali, di volta in
volta, è veicolo. Ma che sia il mio, il vostro, non quello predominante dei tempi in atto: in quanto a loro, lo
suggerisce Dylan, siamo i primi a non prestare fede.
Ecco la seconda
strofa:
Venite
scrittori e critici
che
profetizzate con le vostre penne
e tenete gli
occhi ben aperti
l'occasione
non tornerà
e non
parlate troppo presto
perché la
ruota sta ancora girando
e non c'è
nessuno che può dire
chi sarà
scelto.
Quando venne pubblicato il terzo album di Bob Dylan,
con il titolo appunto The Times, nel
gennaio del ‘64, il successivo assassinio di John Kennedy del 22 novembre dello
stesso anno diede risonanza maggiore al brano. Dylan lo utilizzò per aprire la
sua set list in un concerto la sera dopo la morte del presidente. Dichiarò: “Ho
dovuto suonare questa canzone la stessa notte che il Presidente Kennedy è
morto. In qualche modo divenne una costante canzone di apertura e lo restò a
lungo”. Al biografo Anthony Scaduto raccontò: “Qualcosa era impazzito nel
nostro Paese e loro applaudivano a quella canzone”.
L’11 febbraio del 2010, alla Casa Bianca davanti a un
altro presidente, il nero Barack Obama, durante l’evento “A Celebration of
Music From the Civil Rights Movement”, Dylan ha riproposto dal vivo la canzone:
solo al centro della scena, a sinistra un pianoforte e a destra il fido Tony
Garnier al contrabbasso, presente solo in silohuette.
Era stato simbolicamente invitato - lui, ebreo
praticante - a dimostrare quanto, con l’elezione di un presidente di colore,
qualcosa fosse finalmente cambiato rispetto alle minoranze. Ma il menestrello
lo sapeva che la vittoria sul razzismo rappresentata da quel presidente di un
paese che aveva condotto in catene gli schiavi dall’Africa, fosse solo parziale
e momentanea: forse non con i neri, ma con altri. Chissà cosa sarebbe successo
dopo.
Racconto un episodio avvenuto un paio di anni fa, per
testimoniare quanto appena detto. La cantante Aretha Franklin si trovava a
Buffalo, nell’estremo nord dello stato di New York, per un concerto. Entrò in
una boutique e scelse una borsa costosa: la commessa si rifiutò di dargliela:
secondo lei, non sarebbe stata alla sua altezza, forse non se la sarebbe potuta
permettere. Chiaramente non l’aveva riconosciuta. Aretha Franklin rispose che
non solo quella borsa, ma l’intero negozio avrebbe potuto acquistare. E se ne
tornò, amareggiata, a dormire nel suo lussuoso albergo.
Un’esecuzione tristissima, quella di Washington, dove
lui non ha trovato pace con la tracolla della chitarra, eliminando le pause tra
le battute quasi volesse far prima (come gli capitava da giovanissimo). Dopo la
solenne premiazione, dove si guarda bene dal togliersi gli occhiali neri, se ne
va, senza partecipare al “finalone” dove era presente, a celebrare i diritti
civili, in prima linea anche Joan Baez, che lui, a testimonianza unanime, persino
questa volta ha evoluto evitare di incontrare.
Il critico Michael Gray, all’epoca descrisse The
Times come l'"archetipo della canzone di protesta". Così la
commentò: “L'obiettivo di Dylan era di cavalcare il sentimento inespresso del
pubblico di massa per dare a quell'incipiente sentimento un inno e al suo
clamore uno sfogo. Ci riuscì, ma il linguaggio della canzone, tuttavia, è
impreciso e generalmente poco diretto”.
Non voleva - né ovviamente poteva - parlare per
ciascuno di noi. Sempre Gray suggerisce, infatti, come la canzone fosse già
allora vecchia rispetto ai grandi cambiamenti che predicava, e politicamente
fosse antiquata dopo essere stata scritta. Andare avanti toccava a noi, per
l’appunto, con la nostra esperienza, con la nostra intuizione sintetica
a-priori. The Times non è una canzone
del poter essere ma di quello che
invece sta avvenendo nel concreto. Ma quando? Sempre, ogni volta che
“scriveremo”, “profetizzeremo”, “parleremo troppo presto” cioè, prima di aver
ascoltato la nostra voce e quella degli altri, fuori.
Bob Dylan, come noi tutti, è certo che per decifrare
pensieri e discorsi altrui - in questo caso: lui i nostri per coinvolgere, noi i
suoi per accoglierne il messaggio -
ciascuno crei una esclusiva gerarchia di valori attendibili o anche
vuoti di significato secondo una competenza di natura storica, culturale,
personale, analitico-universale. Nessun episodio comunicativo quotidiano o
complesso avrebbe esito se il polo espressivo (qui poetico-musicale) della
trasmissione non fosse implicato nell’agire del mondo, utopico oppure
operativo, ma còlto nel suo svolgersi in corso, a smentirsi o ad
auto-confermarsi.
Come nella edizione dal vivo del grande Eddie Vedder dei
Pearl Jam. In una versione degli anni ’90, alla conclusione canta in sequenza
consecutiva le penultime righe di ogni strofa: una smentisce, l’altra si
autoconferma. Il ritornello viene replicato per dimostrare quanto non basti
dichiarare una sola volta che i tempi siano cambiati: bisogna dimostrarlo
ribadendolo in più occasioni, sempre ovviamente in modo spazio-tempo diverso,
differenziandolo “a voce alta”, come lui stesso conclude dopo l’esibizione: “I
spoke loud”.
Come in ogni grande
opera, non è opportuno separare il tessuto delle parole dalla superlativa performance del disco. È come
se la unicità sbrigativa, risoluta,
perfettamente conclusa, di “dizione”, ci trascinasse, all’opposto (nonostante
ciò volutamente) nell’enfasi di immagini toccanti, autocritiche, con una intensità e fatica , ancora
una volta commoventi, avvincenti ma un po’ come si dice, accorate. Lungo il solco musicale di gruppi di parole-suoni altamente esortativi
ed autoritari: di continuo essi spingono,
inducono a impegnarsi, a dolersi perché i cambiamenti continui delle cose non perdano il valore eversivo nella
drammaticità del complesso.
Se la canzone ruota in modo inesorabile con ogni
segno-parola, nota-accordo dylaniano,
intorno ad affermazioni quali “riunire”, “accettare” e “affondare”, ebbene, come
si può, mi chiedo da sempre, riuscire nell’intento di stare al suo passo? Perché
“il perdente adesso /sarà il vincente di domani?”. E la sua caratteristica
antifonale insuperabile, di continuo ritornello, come può essere in grado di
lasciare lo spazio anche a noi, al nostro canto d’intesa, continuamente
esortato? Il critico Andy Gill precisò che il testo della canzone rimandava al
Qoelet, un libro contenuto nella bibbia ebraica ( al quale si ispirò anche Pete
Seeger nel suo inno Turn! Turn! Turn!).
Il verso di Dylan sarebbe, quindi, un
riferimento diretto al vangelo di Marco 10:31 «E molti dei primi saranno ultimi
e gli ultimi i primi»
Tuttavia non accade come per l’altra grandissima, Blowin’ in the Wind: lì, la voce per noi osserva, registra, con un
tocco irripetibile di armonica e chitarra riflette, e pone domande a cadenza
inesorabile.
In The Times,
invece, dobbiamo avere la forza di ascoltare agendo, per non essere sopraffatti
dalla battaglia in corso, anche se presto in qualche altro modo si riproporrà:
Venite
senatori, membri del congresso
per favore
date importanza alla chiamata
e non
rimanete sulla porta
non bloccate
l'atrio
perché
quello che si ferirà
sarà colui
che ha cercato di impedire l'entrata
c'è una
battaglia fuori
e sta
infuriando.
Presto
scuoterà le vostre finestre
e farà
tremare i vostri muri
perché i
tempi stanno cambiando
È come se alla luce di parametri di conoscenza
collettiva, chissà come rinnovati, immediatamente dopo questi precipitassero, e
senza il tempo di consumarne il lutto toccasse rinnegarli in quanto, ben presto,
il loro valore è tramutato. Ma chi, tra la gente, è capace di tale
stravolgimento? Noi stessi, sì proprio noi, in una zona intima che Dylan non
vuole oltrepassare: non perché si senta indifferente, ma in quanto personale e
privata da non potersi condividere. Come dice Wittgenstein, “noi delle cose non
conosciamo a-priori se non quello che noi stessi vi mettiamo”.
Magari fosse possibile, nel mondo, condividere tutto
ciò che accade, ma non lo è, perché il sussistere degli avvenimenti coincide
con la nostra personale logica dei fatti, con il nostro irripetibile pensiero.
Venite madri
e padri
da ogni
parte del Paese
e non
criticate
quello che
non potete capire
i vostri
figli e le vostre figlie
sono al dì
la dei vostri comandi
la vostra
vecchia strada
sta
rapidamente invecchiando.
Per favore
andate via dalla nuova
se non
potete dare una mano
perché i
tempi stanno cambiando.
Almeno, se così non fosse, la solidarietà evocata non
sarebbe più una solidarietà di apparenze, ora fantastiche ora premeditate:
coltivate, per conto proprio, contro una incombente unità mediata della
coscienza che, per essere tale tradisca, sempre se medesima, e soprattutto noi.
L’ultima strofa, infatti, canta:
La linea è
tracciata
La
maledizione è lanciata
Il più lento
adesso
Sarà il più
veloce poi
Ed il
presente adesso
Sarà il
passato poi
L'ordine sta
rapidamente
scomparendo.
Mi
commuovo ancora, ad ascoltare The Times
They Are A-Changin’, a pensare alla
forza necessaria, da allora ad oggi a credere che le cose, gli eventi, sparsi
nello spazio-tempo a catena, in successione ininterrotta, siano in procinto di mutare, senza poter sapere o
stabilire i perché, i come, i quando. Ma siamo noi stessi in prima linea a combattere per
mantenerne la indecifrabilità. È la nostra unica, grande libertà, come insegna
Dylan: intoccabile, assoluta, anch’essa molto commovente.