In
uno dei più suggestivi salotti letterari di Londra, al 37 di Fitzroy
Street, sabato 20 gennaio il Caminetto
Poetico degli Amici di Ron ha dedicato un evento a tre poeti italiani
con i loro libri.
Nell'antica
dimora realizzata nel 1791, già residenza di George Bernard Shaw e
in seguito di Ron L. Hubbard, sono stati presentati L’intesa
è un tessuto che smaglia
di Rodolfo
Vettorello,
Riverberi
d'autunno
di Gianluca
Regondi, Voli
a matita
di Nunzio Buono.
Essendo
stata direttamente coinvolta negli ultimi due, riporto qui di seguito
i testi della post-fazione all'opera di Nunzio Buono e della
presentazione (scritta appositamente per l'incontro londinese) della
silloge di Gianluca Regondi.
La luce oltre la siepe
Nunzio Buono nella cornice della
poesia contemporanea
di Cinzia Baldazzi
Tutto ciò che esiste per la conoscenza
- adunque questo mondo intero -
è solamente oggetto in rapporto al soggetto,
intuizione di chi intuisce;
in una parola, rappresentazione.
Arthur Schopenhauer
Andare
oltre, molto oltre, è l’impulso provato
nel leggere le poesie di Nunzio Buono, qua e là dove
lucida silente che dilaga (...)
E senza nome
col tempo d'un miraggio fuggi sponda
dall'urlo della notte.
(Mistica filosofia degli attimi)
Avverto
una sorta di eco, non di matrice crepuscolare ma energica, ricorrente, quasi
fosse lì a rammentare la necessità di un confronto ininterrotto tra illusioni
già infrante - a giudicarle, nonostante tutto, attuabili e veritiere - e
un’indulgente ironia verso di noi, a lato delle creature amate.
Nei
componimenti raccolti in Voli a matita,
percepisco la capacità di indurre la parte di me più riflessiva e dialettica,
insieme sentimentale e irrisolta, ad imporsi per valutare, sinceri e operativi,
desideri e stimoli oppure ansie e principi ostacolati o emarginati in chi e da
chi non crede: predicando un impietoso rassegnarsi a girare per il mondo,
privati persino di un minuto di sosta o riposo, dovendo, all’istante, offrirsi pronti
a combattere per sopravvivere non da protagonisti, bensì da identità reificate
da volontà estranee e non solidali. Nei canti così concepiti da Nunzio Buono,
la coscienza sembra assolta, come un modularsi progressivo di stati d’animo di
sillabe, assonanze e musicalità. Pertanto, la musica comporta una scelta evocativa
la quale, per prima, allontana il sospetto di suscitare una tipica imitazione di
segni e segnali conosciuti e incontrati nel campo sperimentale quotidiano: infatti,
nel ritmo testuale dell’infrangersi rumoroso delle onde, «il mare ferma nel suo azzurro il cielo».
La fantasia non è una resa metalinguistica
fedele alla realtà, ne è piuttosto una causalità eccezionale dell’esistere, in una
trama di corrispondenza di emotività e conclusioni mai approssimative. L’angoscia
e la gioia per l’odio e per l’amore, i dubbi inquietanti, gli atteggiamenti
rari e imprevisti si cristallizzano, mentre rischiano di essere rimossi o
rinnegati, salvati dal soccombere per paura: nel diffondersi, procedono non
sotto un cielo accecato dalla follia, dalla solitudine, protetti invece da un
firmamento, umanamente limitato dal
colore intenso della distesa marina. Dunque, contro le apparenze, superando la siepe stabilita dall’opportunismo per
censurare ogni sconfinamento, l’atmosfera del nostro Buono è omogenea, nella
pittura - e nella vasta serie di prodotti di un discorso - a un panorama poetico
visionario:
Sapevi?
che il mare a quest’ora esce dall’acqua e danza con le stelle
e che le stelle dalle nuvole
trovano il cielo nel mare?
(Appartenenza)
Dal contesto non emerge però alcuna qualità astratta, vuota e infeconda, anzi, l’autore promuove tappe di un cammino spirituale in un’infinita eredità dell’intramontabile Canto leopardiano: è un meditato selezionare motivi concreti e significativi, rintracciati in sviluppate allusioni all’altezza di rivelare la dimensione intima e storica, tecnico-semantica e razionale dell’artista:
io non sapevo
che per avere il tuo sguardo
potevo essere ogni cosa;
gocce di pino
cadute nelle tue mani.
L’intera silloge ricorda quando Novalis,
uno dei maggiori esponenti del Romanticismo tedesco, prediletto da Giacomo
Leopardi, sottolineava: «In generale, i libri
sono una sorgente di analogie per l’universo» e,
invertendo il consueto rapporto di originale
e copia, precisava: «Il mondo è una metafora universale dello
spirito, una sua immagine simbolica», approfittando
dell’occasione di penetrare le associazioni catturate, non contemplandole con
apatia. L’appello di aisthesis
destabilizzante ai danni del dolore e del male così azionato, innesca nell’arte
l’eventualità perfetta - disseminata nell’arco del XX secolo, giungendo sino a
noi - di “cambiare il mondo”, donando saggezza e pulsioni istintuali convertite
in ritmo, stile e contenuto compatti, con rigore ed equilibrio, in un’ampia sorte
di eroismo. Nel relativo repertorio eroico, il romantico Novalis, reputando la
poesia frutto di nobilissimi impeti e passioni, forti e impegnative, in un
frammento datato 1800 dichiara:
Sana le ferite inferte dall’intelletto. Essa è appunto formata da
elementi contrastanti - da una verità sublime e da un piacevole inganno. [1]
Trascorsi duecento anni, attualizzando in
piena libertà tale ideologia, Buono scrive:
Ogni odore qui,
ha il sapore di sale e riflette una luce
ogni cosa è una voce ascoltata
oscillando tra l’immanenza del gusto e
dell’olfatto e l’ineffabilità di un suono, invece, virtuale e inedito.
Ribadisce Novalis:
Il poeta intende la natura meglio dello scienziato. Solo un artista può
indovinare il senso della vita. [2]
Sì, confermo quanto apprezzare l’antologia
spinga ad andare oltre le norme di
lettura del reale - consolidate per ragioni di comodo o abitudini ratificate - poiché
permette, cogliendone l’impianto pragmatico ontologico suggerito dall’ambiente
e dalla collettività, di situarsi al centro di una rete profonda, sterminata e
misteriosa di armonia, altrimenti oscura, pur manifestandosi essenziale.
Qui ti vorrei
in questo spazio di non tempo
dove matura il silenzio dell’autunno
e le foglie si parlano nei colori della pioggia
a sconfinare nell’ultimo settembre
(L’eternità della luce)
Avanza dunque una coinvolgente poetica degli oggetti, classe semantica
inclusa da Luciano Anceschi nelle istituzioni
di un costrutto letterario:
Le istituzioni, come le poetiche, non costituiscono affatto un coacervo
irrelato di esperienze inverificabili; in realtà, esse appaiono tanto
strettamente connesse tra loro, che l’esistenza stessa di un’ars particolare (l’analogia in Onofri o
in Ungaretti), nella forma, cioè, in cui storicamente si presenta in figura
propria e individuale, sembra davvero impensabile o impossibile fuori da
contesto vivente, di tradizionalità cui specificatamente si collega [3].
L’ars
e la «tradizionalità», alla quale è vicina la poesia di Buono,
suppongo siano quelle inerenti la bellezza soggettiva
e oggettiva, in grado di elaborare un
messaggio ricco di segnali: ciò avviene in un «silenzio dell’autunno» collocato, d’un tratto, in un’area spaziale
e cronologica unitaria, favorevole a rendere inconfondibili, nella scelta
stilistica e significativa, i mezzi semiotici di incrocio di ordini sensoriali
e utopici, di frequente “amorosi”. Il risultato è una sconcretizzazione [4]
dell’insieme, di continuo però corretta da una consistente successione di
fenomeni obbiettivi. Mediante una simile contemporaneità, il poeta fa esordire una
sintesi simbolica complessa, adeguata a sovrapporre, a ciascuna delle linee
evocate (in sequenza, vere o di fantasia), un potente desiderio di rappresentarsi, superiore al resto:
Ti vorrei qui
nella casa dei ricordi a rileggerci
per dimenticare la voce
di una luce spenta.
Ma ecco, in una parola del genere, raffigurarsi conturbante l’emblema irrisolto di dissonanza
con qualsiasi normalità vissuta: riconosco, in tali fonti archetipiche, anche
l’itinerario millenario della mitologia orfica, tanto celebrata, ad esempio, nell’immortale
inquietudine romantica di Friedrich Hölderlin, allorché spiegava, prima di essere
sopraffatto da una polmonite letale nel 1843:
Riluce il giorno aperto agli uomini d’immagini,
quando traspare il verde dai più lontani piani (…).
Appare spesso un mondo chiuso e annuvolato
dubbioso interno all’uomo, il senso più crucciato,
la splendida natura i giorni rasserena,
sta la domanda oscura del dubbio più lontana!. [5]
Hölderlin mirava piuttosto a
spiritualizzare gli oggetti per conciliarli con la sicurezza e lo stato di
grazia assoluto delle divinità mitiche propizie: nondimeno - a riprova della
dialettica iniziatica e controversa della grande poesia - avverto quanto il suo
intento creativo riviva personalizzato in Nunzio Buono, se ne soddisfo l’invito
di rivolgersi a
quel vento
che tende al chiaro
flebile
dal ramo
le sagome del sole
e tutti i raggi sparsi tra le foglie.
I riccioli che pendono disanimi sul fiore.
(Senza).
E inoltre:
Quando siamo gli altri;
il dolore agli argini del tempo.
Numerosi poeti hanno offerto, romanticamente, i propri fiori per
amore. Nel brano commentato, in un’istanza assai originale, trapela un quesito
allarmante: a chi, a cosa indirizzarli? Non certo a un destinatario di impronta
idilliaca, un paesaggio classicheggiante di iconografia “sparsa” tra limpidi
ruscelli; oppure a un circuito aleatorio e fuorviante, vicino a canali inquinati
e avvelenati dall’opportunismo urbano. Della favolosa rosa, infatti, è citata
la nomenclatura, l’entità lessicale, ossia il significante. Per recepirne meglio il messaggio, potrebbe risultare
utile menzionare alcuni dei concetti principali di scuola strutturale elaborati
sul tema dal linguista franco-lituano Algirdas J. Greimas:
Indicheremo col termine significante gli elementi, o gruppi di elementi,
che rendono possibile l’apparire della significazione al livello della
percezione, e che, perciò stesso, sono riconosciuti come esterni all’uomo. Con
il termine significato saranno indicate la o le significazioni di cui si
riveste il significante e che si rivelano grazie all’esistenza di quest’ultimo.
È possibile riconoscere qualcosa in quanto significante e attribuire ad esso
questo nome solo se questo qualcosa significa veramente. L’esistenza del
significante presuppone, dunque, l’esistenza del significato [6] .
Pertanto, nell’utopia eroica di Buono, il
«nome» di una rosa è esteriore a noi, ma non nell’accezione limitativa del nomina nuda tenemus del monaco
benedettino Bernardo Cluniacense del XII secolo: anzi, addirittura risalta nell’annunciarsi
ri-propositivo e antagonista di felicità sospese con prepotenza perché private
della volontà di essere, di esprimersi. Un «profumo» concorde ne accompagna l’«urlo»
improvviso,
quando la neve copriva
con le sue mani di silenzio
il rumore della vita
e la sera
cadeva dai vetri e sopra i tetti
di bianco e di rosso.
(Il profumo è l'urlo della rosa)
e
l’autore confessa di indugiare osservando, per respirare dagli occhi dell’amata,
«il tempo» del loro amore. D’altronde, per acquistare
sostanza, la nobile «rosa» avrebbe comunque necessità di inserirsi
nell’hic et nunc circostante: quindi
l’opinione alternativa, persino in una prospettiva comunicativo-dialettica, si
conferma di natura pragmatica e concreta, disposta a qualunque controllo
nell’ambito di sogni e aspirazioni tangibili, gestita da individui inclini a coglierla.
Allora, anche io voglio rischiare, e rifiutare
di nascondermi: con il cuore impegnato nell’ascolto dei versi, ipotizzo che, se
quella rosa fosse un fiore elegante e perfetto sbocciato all’aurora, cullato
dalla brezza di primavera, l’avrei reciso per me, con gentilezza e, per
rinfrescarlo, cercherei la “sponda” di un corso d’acqua, dove trovare vita,
ristoro e riparo. Poi, «c’è troppo rumore», e leggo:
Ho spento la luce
perché non potevo sentire il vento
portare via le cose.
Le finestre sono serrate, lasciando
fuori
il buio a parlare con gli alberi
e con i rami le ultime foglie
(C’è troppo rumore).
Ma, intorno,
nel chiaro
ci sono ombre parlanti tra le cose
e cose che ci guardano.
Per soddisfare quale interrogativo, è
spontaneo chiedersi? Forse, vorrebbero scoprire le modalità simboliche del testo all’altezza di cambiarle.
Seguitando il sentiero inaugurato, parallelo
alla poetica di Nunzio Buono, lungo il cammino del movimento romantico tedesco,
uno dei fondatori, Friedrich Schlegel, coniò la definizione di “poesia
trascendentale” sulla famosa rivista “Athenäum” nel 1800, alludendo all’autoriflessione caratteristica di tale
forma letteraria. Associandosi al sistema del pensiero di Immanuel Kant e
Johann G. Fichte, il filosofo di Hannover, fratello dello scrittore Wilhelm
August Schlegel, era persuaso di come l’immaginario producesse nell’esperienza la
realtà creata: procedendo, è
evidente, nel decifrare il reale a ricavarne un nuovo assetto.
Dopo il grande Ottocento, il giudizio di
trascendentalità non è stato più
utilizzato esplicitamente, rimanendo nondimeno un’influente categoria alla base
del fare artistico globale, appropriata
per comprendere il valore specifico acquisito dalla poesia moderna nella vita
comune. Il percorso e la selezione preziosa dello stile non esigono pause
dedicate ad un allinearsi di stampo accademico; implicano però un tempo per
meditare, intimo, taciturno, denso di conforto. Quindi è vero:
C’è
troppo rumore
quando
restiamo in silenzio
Soli, noi
che abbiamo lo stesso sorriso degli alberi a primavera
quando sui rami
ci diamo alla stagione dell’amore
e siamo l’amore
quando siamo.
In chiusura, non ritengo sia una
coincidenza incontrare, tra le opere letterarie di Schlegel, il romanzo
autobiografico Lucinde (1799), animato
dall’intento di conciliare un pathos estetico e sensuale, potenziandone le
facoltà eversive frenate da pressioni perentorie imposte. Così, dentro un
orizzonte composto, estraneo a complessi di colpa da rimuovere in una catarsi
mai ottenuta, sconfitta l’inerzia assoluta del non riuscire a prevedere e
temere l’avvicinarsi della fatale onda lenta, avvolgente e invisibile, della
solitudine estrema, il nostro poeta confida:
Per tutte quelle volte che ti ho detto
o non ti ho detto;
che ti ho visto ridere di lacrime.
Che nudo
il tuo silenzio ha parlato il mio corpo di foglie;
diventando fiore e nuvola
- credo che ti amo
perché non conosco altro amore
se non quello che mi dicono i tuoi occhi;
perché tutto ciò che esiste è perché siamo.
(Credo
che ti amo)
Presumo sia urgente andare oltre, valicando nell’utopia ogni «sponda» e l’antica siepe, a cercare un «cielo
di fragole» con
la voce di questa notte che non finisce
o inizia dove finisce.
[2] Ibidem
[3] Luciano Anceschi, Le istituzioni della poesia, Milano, Bompiani, 1968, p. 97
[4] neologismo del critico Hugo Friedrich, La struttura della lirica moderna,
Milano, Garzanti, 1971, p. 123 (trad. Piero Bernardini Marzolla)
[6]
Algirdas J.Greimas, Semantica strutturale,
Milano, Rizzoli, 1968, p. 11 (trad. Italo Sordi)
Il
Pathos contro il Logos.
Natura e sentimento nelle poesie di Gianluca Regondi
di Cinzia Baldazzi
Natura e sentimento nelle poesie di Gianluca Regondi
di Cinzia Baldazzi
Spaziando
con l’occhio e la mente tra una riga e la successiva, nelle pagine
di sillogi e poemetti, sono sempre stata persuasa di un fattore:
l’importanza dell’unità di significato
delle immagini illustrate. Ricordate lo studioso ginevrino Ferdinand
de Saussure? Il dispiegarsi dell'atto linguistico sull’asse della
selezione e su quello della contiguità fa parte della terminologia
di base della sua scuola semiologica. Ecco, io sono convinta di
quanto, in un versificare valido e autentico, tale piano
organizzativo coincida, nella struttura utopica creativa, con
l’esistenza di noi tutti in sé: uno “scrivere”, insomma,
alieno dal frequentare ogni “isola” oscura di inestricabile
significazione.
Un
aforisma condiviso nell’entourage
letterario si esprime in tal senso: «La poesia non dovrebbe
significare, ma essere». Essere tra la gente, ovvero con il
destinatario designato, complice per eccellenza di tutto quanto venga
comunicato in merito ad angoscia e felicità, esoterismo o
scetticismo. Secondo la teoretica dello studioso canadese Northrop
Frye, l’apprensione del messaggio non è frutto di una scala
deduttiva gerarchica: ha origine invece da un percepire non mediato,
si snoda in un fluire parallelo e sensoriale privato, benché mutuato
dall’ambiente. Con sapiente ironia, il critico del Quebec
esemplifica il concetto consigliando un meccanismo capace di
garantire sicurezza nel fatto che l’opera d’arte possa veicolare
al di fuori, nel mondo circostante, il proprio messaggio,
evitando di «inserirvene uno supplementare per gli Spettri
dell’aldilà».
L’artista,
quindi, non rischia di mettere in gioco referenti astrusi e vuoti di
informazioni. Sembra piuttosto agevolato dall’impulso di redigere,
nel simbolismo, un componimento riferito «al suo stato e non a se
stesso», in una perfetta armonia dialettica di identità narrante e
segni sintetizzati dall’esterno. Conclude Frye:
In
una poesia i suoni e i ritmi delle parole vengono rivelati più
chiaramente che nel discorso ordinario, allo stesso modo come il loro
significato ha nella poesia un’intensità che non può nemmeno
essere vagamente suggerita da un dizionario.
In
un sistema attinente di influenze vive l’insieme ispirativo di
Gianluca Regondi, anche quando, all’inizio dell’antologia
Riverbero d'autunno,
rivolto ad amici solidali, osserva:
Posso
tranquillamente affermare che senza la loro quotidiana presenza non
sarei riuscito a comprendere quanto sia reale la consapevolezza che
lo scrivere e “fare” poesia possa risultare un così semplice
atto liberatorio, trasformandolo senza mezzi termini in un legame
sincero e profondo.
Nell’intelaiatura
di regole tecnico-formali della raccolta, Nunzio Buono, tra i fedeli
compagni di avventura, evidenzia: «Questa verità celata si rivela
senza orpelli, la lettura pulita nutre il lettore di scorrevolezza e
l'intimo produce dimensioni di semantica universalità». In seguito,
riepiloga Maria Grazia Vai, nei “mirabili versi” è permesso
accingersi «a vagare tra sentieri che odorano d’autunno»,
rintracciandone ogni “riverbero”. Frye aveva ipotizzato suoni e
associazioni «che si irradiano indefinitamente come le increspature
sull’acqua di uno stagno». Sono espressioni sorprendentemente
attinenti all’immagine scelta da Gianluca Regondi per la copertina:
la maestosità del Campanile di Giotto dal basso verso l’alto,
vista attraverso il riflesso ondulato e mosso di una pozza d’acqua
dopo la pioggia.
È
una totalità in cui brilla «la pagliuzza d’oro che lega i passi
al viaggio», dove l’autore si imbatte in un «nido di poesia
bagnata - e piume oneste - che gemmano sui davanzali, tra le rose».
Colgo dunque, all’istante (connesso alla “percezione diretta”
fryeana), l’occasione di apprezzare in Regondi un paradigma di
vocaboli e contenuti, una salda coesione di lessico e visioni
relative, dove si compie rinnovata la sintesi dialettica del
dibattito europeo intorno allo status
ottimale delle scelte stilistiche di taglio romantico
o romanzesco
(romantique/romanesque).
Siamo
nel XIX secolo - studiato nello specifico, in Italia, dal professor
Pino Fasano - all’incirca tra i due poli impersonati da Giacomo
Leopardi e da Ludovico di Breme. Di quest’ultimo, ideatore del
primo giornale romantico, “Il Conciliatore”, ricordo in
particolare la discussione suscitata dall’essay
intitolato Osservazioni
sul “Giaurro” (1818), dedicato a Lord
Byron: diffuso all’epoca, ebbe il merito di riattivare lo storico
débat culturel sul
celebre articolo Sulla maniera e l'utilità
delle traduzioni firmato nel 1816 dalla
scrittrice francese Madame de Staël e tradotto da Pietro Giordani.
Quasi
riferendo la propria ars poetica
a quella temperie culturale, Gianluca Regondi scrive:
Noi
uomini amiamo tante cose
le
sosteniamo perché le cerchiamo
e
se passiamo per il ricordo di un sorriso
sappiamo
d’aver amato tutto.
In
queste parole non c’è altro desiderio
se
non salvare altra vita
spiegando
all’amore ciò che deve fare.
Allorché
Regondi transita «per il ricordo di un sorriso», e afferma
«sappiamo di aver amato tutto», siamo in presenza di un genere di
eventi fisici smaterializzati,
dove è coinvolta, al completo, una fitta rete di risonanze
psicologiche ancorate al concetto di romantik.
Si elude, però, il pericolo temuto, allora, dall’autore de
L’infinito:
imbattersi in gravi spostamenti di visuale nell’aura del sentimento
evocato, o meglio dalla “natura destato” («tendre intérêt»).
Il
poeta dovrà allora allontanare in toto
il nucleo poetico-critico dalla «nuda natura» dipinta e imitata
«per sé» in “purissime” e concrete oggettività. All’interno
di essa, in una prospettiva figurata, il nostro Regondi considera
ciascuno inerente a «tanti soldatini (pronti al sacrificio)»,
confessando poi:
So
di non ricordare un altro dio
o
un’altra madre
so
di non essere compreso
e
di comprendere il significato di ciò
che
sta passando.
Insomma,
siamo nel cuore di una imitazione esclusiva di stampo soggettivo
della natura: un siffatto atteggiamento, umano e artistico, è
ritenuto, in larga parte delle tendenze critiche e nelle avanguardie,
una garanzia di gran conto affinché il lettore, aderendo ad essa in
misura attiva, ne colga lo spessore di sentimento.
Infatti, l’incipit di Appunti di viaggio
suggerisce:
Mi
restano in gola
i
tramonti di questi giorni
Attimi
spenti in tanti
mozziconi
di una nostalgia
quasi
recitata, ricomposta
nelle
poche cose conosciute
È
quindi in campo il πάθος (dal greco “pathos”: “dolore del
corpo” o “turbamento psichico”) stimato, nella cultura
ellenica, una delle facoltà orientate a regolare l’emozionalità,
antagonista alla sfera razionale del λόγος (“logos”).
L’insieme degli elementi pertinenti il παθητικός (ossia
“patetico”), indicatori della capacità di “sentire”, poiché
ricettivi e impressionabili, è stato difeso e sublimato con tenacia
da Leopardi: il poeta lo reputava capace di scavare nella profondità
sensibile, tipica di cuori in grado di provare percezioni per mezzo
dell’espressione ricavata con i sensi
naturali.
Ecco
come Regondi interpreta modernamente un simile approccio:
Gli
azzurri del cielo
brontolano
d’estate
e
nell’aria rimane
il
mare sulle spalle
Ho
ancora voglia di vivere
e
voglio questi viaggi dentro
le
anime che so di poter amare
come
bimbi e figli che vorrei
qui
per mano.
Nel
contemporaneo Pierpaolo Pasolini, pur in una certa qualità
originaria non leopardiana bensì pascoliana, agisce una dialettica
parallela tra l’interiorità e il mondo: in chiave sofferta e di
confronto spietato, determina un attualissimo leitmotiv
nel repertorio dell'eclettico intellettuale del Novecento. Al
proposito, rammento l'epilogo delle Belle
bandiere:
A
sventolare una sull'altra, in una folla di tela
povera,
rosseggiante, un rosso che traspariva
violento,
con la miseria delle tovaglie,
dei
copriletti di seta, dei bucati delle famiglie operaie,
ma
col fuoco delle ciliege, dei pomi, violetto
per
l'umidità, sanguigno per un po' di sole che lo colpiva,
ardente
rosso affastellato e tremante,
nella
tenerezza eroica d'un'immortale stagione.
In
tali metafore, attrae e affascina proprio l’anelito disatteso -
comunque valido e coraggioso - di ottenere appagamento e gioia nel
riscontro in una natura biologica,
sensuale, per mezzo della poetica.
Per
magia di un’analoga tensione “patetica”, compare accattivante
il mosaico logico-formale della strofa di Regondi:
In
fondo la verità di una poesia
è
l’invenzione di un nulla
che
t’insegue da sempre
e
la sua verità si nasconde
inafferrata
nel muro
che
divide gli uomini
e
le cose che animano la vita.
Già
nel 1933 Max Horkheimer, tra i Maestri dell'Istituto per le Ricerche Sociali di Francoforte, nel saggio Materialismo
e metafisica mirava in linea quasi esclusiva
a sfiorare la mèta di una riflessione operativa di matrice teorica,
civile, collettiva e dinamica. Nonostante ciò, scrisse:
Se dall’aspirazione
alla felicità che la vita reale ha deluso fino alla morte deriva
alla fine semplicemente la speranza ma non il suo esaudimento, la
trasformazione dei rapporti che condizionano l’infelicità ha
potuto diventare il fine del pensiero materialistico. Anche i
filosofi materialisti furono costretti, di fronte al dolore, a
elaborare delle pratiche interiori. Il materialismo della borghesia
nascente invece puntò sull’accrescimento delle conoscenze naturali
e sulla conquista di nuove forze per dominare la natura e gli uomini.
La miseria del presente è però connessa con una struttura sociale.
E perciò la teoria della società costituisce il contenuto del
materialismo odierno.
Horkheimer
mirava alla “conoscenza”, gli autori di versi “puntano”
l’obiettivo della poesia. Gianluca Regondi, con loro, coltiva
l’intento di gestire risorse e fede nell’opportunità di riscatto
per gli emarginati da un simile contesto incrementato da energie
razionali e dell’animo, nemiche del destino ostile quando si
scaglia contro l’umanità.
Del
resto, confessava Giacomo Leopardi:
ché
scuro
m’è
l’avvenire, e tutto quanto io scerno
è
tal che sogno e fola
fa
parer la speranza.