Cinzia BALDAZZI - "Tuscia misteriosa e insolita": un libro di Claudio Lattanzi per Intermedia Edizioni
Non solo non credeva ai fantasmi, ma non ne aveva neanche
paura.
(Anonimo)
Nella comunità di Vitorchiano, non distante da Viterbo, transita
da decenni la leggenda di una ragazza, morta di stenti in epoca indefinita,
perché abbandonata nel nemus ciminum
insieme a un flauto, dopo aver rifiutato di andare in sposa a un feudatario
tirannico, di lei innamorato. Il signorotto, accecato dall’ansia di vendetta,
ordinò fosse rapita e collocata nel bosco, consentendole di portare con sé solo
l’amatissimo strumento a fiato. La giovane, disperata, desiderando una via di salvezza,
consumò l’epilogo della vita, affamata ed estenuata: tuttavia, nelle ultime ore,
la poverina avrebbe intonato una melodia, quasi cercasse di conquistare una
sopravvivenza estrema all’annientamento. All’origine dell’episodio, però, potrebbe trovarsi semplicemente il suono proveniente
da un’azienda dove erano in uso carrelli di metallo sospesi in aria i quali,
nella lavorazione finale, ondeggiavano al vento.
Claudio Lattanzi, nel libro Tuscia misteriosa e insolita (pubblicato da Intermedia Edizioni), con sottotitolo Esoterismo,
leggende nere, enigmi irrisolti, Templari, narra come molti abbiano riferito
di aver udito, intorno alla fontana del Duca, nel tragitto tra Vitorchiano e la
strada Cimina, note simili a quelle di un flauto, testimoniando come si sia infine
attuato, in un modo o nell’altro, l’intento di immortalità della sfortunata e avvenente
fanciulla.
Il lago di Vico
Un tale paesaggio selvoso, affascinante e immerso con splendore in certe
epifanie di luce della Tuscia, chissà come appariva tra il XVII e il XVIII
secolo, colpendo persino nel cuore gli insigni romantici Lord Byron e Percy Bysse
Shelley durante il tour nell’Italia centrale: a loro, il lago di Vico svelò, in
poesia, i trascorsi e il futuro, la bellezza e i dati oscuri della natura
limitrofa. D’altronde Charles Dickens, l’autore del travel journal compilato nel
1846, Pictures from Italy, annotò la
celebre versione sulla nascita del bacino:
«Sorgeva in tempi remoti una città. Un giorno essa venne inghiottita, e in sua
vece quest’acqua sgorgò. Talvolta si poteva scorgere sul fondo, quando le acque
erano chiare, la città diruta. Comunque possa questo essere avvenuto, resta il
fatto che essa disparve in questo punto dal globo». Anche sottolineando l’errore
dell’illustre scrittore vittoriano, indotto dall’aver confuso le rovine
sommerse con Sabazia nel lago di Bracciano (citata dallo studioso e geografo
del '600 Cluverio di Danzica), rimane indiscusso come sul Lacus Ciminus siano fiorite numerose storie dall’atmosfera magica.
Il libro è «un viaggio sulle orme
degli enigmi, nascosti a bizzeffe tra le pieghe di un passato arcaico», offerto
da Claudio Lattanzi al lettore: con cura di dettagli e idee all’altezza di suscitare
un iter ricco di indici di pertinenza concreti relativi alla piramide di
Bomarzo, con scalinate nella pietra boschiva scavate millenni orsono, o di ripercorrere
le tracce di una mappa dell’introvabile tomba di papa Alessandro IV, celata da settecentocinquanta
anni (almeno si suppone), in un cunicolo segreto nei pressi di Viterbo. Dunque affronteremo
il Parco dei Mostri, evocato captando criptiche presenze dentro la Selva Cimina,
di arduo accesso, le imponenti “aiole” sommerse nei fondali del lago di
Bolsena, non smarrendo la possibilità di ascoltare il mistero della reliquia di
Calcata, l’identità di Santa Rosa e la sua trasformazione in simbolo politico, di
interrogare gli ineffabili Templari, di sorvolare paesaggi magici e segreti da Calcata a
Bagnoregio, da Tarquinia a Sutri, di incontrare l’eremita di Castel Sant’Elia, svelare
l’enigma della Cuccumella di Vulci, decifrare le tavolette di Valentano, immaginare
le fattezze dell’uomo che parlava con gli Etruschi.
Le "aiole" sommerse nel lago di Bolsena
Notevole in tale ambito è la mitologia
sviluppata sul Lacus Ciminius, articolata
sull’italico e romano Ercole (in latino: Hercules):
ispirato al greco Eracle, venne introdotto forse fra i Sanniti dalle colonie elleniche,
in particolare Cuma, mentre i Latini e i Sabini lo ereditarono dal culto etrusco
di Hercle. Accogliendo l’opinione del
grammatico Servio Mario Onorato (IV/V sec. d.C.), il bacino sarebbe stato
creato dall’eroe con un colpo di clava. A Palazzo Farnese, a Caprarola, sul
soffitto affrescato da Federico Zuccari è dipinta la leggenda dove è tramandato
che Ercole, primo mortale a diventare dio, in virtù delle rinomate dodici
fatiche, fosse chiamato dai pastori tra i Monti Cimini afflitti dalla siccità: avendo
piantato un pesante bastone nella terra, estraendolo avrebbe fatto sgorgare un vasto
flusso acquoso. Per gratitudine, e allo scopo di omaggiarlo, la gente del posto
edificò un tempio sul Monte Venere. È evidente il significato allegorico della
scena: sul palo di Ercole è raffigurato il giglio farnesiano, segnale delle cospicue
opere idriche realizzate, con enormi benefici economici, dal cardinale
Alessandro Farnese.
In un’altra forma corrente dell’avventura, il forzuto semidio, partito alla ricerca
delle ninfe Melissa e Amaltea, essendo infastidito dalle insistenti richieste
del popolo di ottenere una spettacolare prova di vigoria, quasi per stizza
conficcò la clava nel suolo. I tentativi degli abitanti di tirarla fuori o
muoverla furono inutili. A sera, il semidio, in un secondo sfoggio di energia
sovrumana, la strappò con violenza elevandola al cielo, tra le grida della
folla esaltata: dalla cavità uscì acqua sufficiente a inondare, in breve, i
prati vicini. All’alba successiva i viandanti, invece della zona pianeggiante, erano
davanti al lago di Vico.
Ercole nell'affresco di Federico Zuccari a Caprarola
Al pari di svariate vicende concernenti i Τυρσηνοί (dal
greco Tyrsenoí -
"Tirreni"), anche questa è giunta trasmessa da documenti risalenti all’antica
Urbe. L’Etruscus è attestato tra il nono
secolo a.C. e il primo d.C., sostituito gradualmente, ma non al completo, dalla
lingua latina, conservando validi solo alcuni sostantivi e prestiti: “persona”
(dall'etrusco φersu), e appellativi geografici tra cui Tarquinia, Volterra, Perugia,
Mantova, Modena (magari Parma) e toponimi in "-ena", del tipo Cesena,
Bolsena, Siena, ecc. Il lessema “cimino” deriva dal latino cimmerius, aggettivo equivalente a “oscuro”, “tenebroso”, poiché
l’altitudine facilita l’addensarsi di banchi di nebbia, foschia e caligine capaci
di sfumare l’hic et nunc circostante.
Le sponde lacustri di Vico, dichiara Lattanzi, agevolano la percezione di echi remoti
e arcani: «Sono da sempre guardate con un misto di attrazione e repulsione
dalle persone del luogo». Addirittura, «non sono in pochi a provare un brivido
sulla schiena a sentir pronunciare il nome di questo lago».
Ai riverberi ambigui e carichi di significato dell’ampio
specchio d’acqua di Vico è attribuito un capitolo della Tuscia misteriosa e insolita, là dove si illustra la «fama sinistra che avvolge questo
luogo, e che viene confermata dalle numerose testimonianze di chi ha assistito
ad episodi a dir poco singolari». Perfino i “pragmatici” Romani erano convinti che
il saltus ciminus fitto di castagni,
querce e faggi, fosse occupato «da creature spaventose e terrificanti»,
divenendo un saldo muro di difesa degli Etruschi dall’espansione romana. Nel
309 a.C. Quinto Fabio Massimo Rulliano la attraversò alla guida di una poderosa
truppa. Non fu impresa agevole, condotta a termine grazie all’aiuto del
fratello e di un esperto servitore: ambedue indossarono indumenti da contadini
per risultare anonimi una volta scampati dal malaugurato complesso boscoso. I
soldati erano turbati dalla diffusa superstizione di profanare un’area infestata
da spettri e spiriti. Tito Livio così la delinea: «Era in quel tempo la Selva
Cimina più impraticabile e spaventosa (invia
atque orrenda) di quanto non lo siano oggi le foreste della Germania, e
nessuno fino allora vi era penetrato, neppure i mercanti, né ardiva qualcuno
entrarvi» (IX, 36-39).
La Selva Cimina
Ancora Livio ha illustrato la fatalità toccata al
console Postumio il quale sembra vedesse, nel lucus sacro della Gallia, i suoi uomini «fatti a brandelli dagli
alberi, che li avevano orrendamente ghermiti». Del resto, nella Scozia del
Basso Medioevo, ricreata dal Teatro Elisabettiano di William Shakespeare, una
strega, in un funesto presagio, invita Macbeth, barone di Glamis assetato di
potere, a non temere la sconfitta se non quando il Great Birnam Wood «muova
verso Dunsinane»: benché all’apparenza non degno di fede, nondimeno, il severo annuncio
di catastrofe si concretizzerà nell’ordine ricevuto dai soldati di MacDuff e
Seyward, disposti intorno al castello del tiranno, di avanzare mascherati con
rami e foglie, preludio di disfatta e morte del protagonista.
Un simile genere di timore è pertanto assai plausibile
innanzitutto nella forma mentis
pagana, tipica del predominio della natura sull’umanità, di frequente affiancato
da un’intensa prerogativa spirituale. Lo sviluppo delle città, e il bisogno di utilizzare
legno per coprire le esigenze militari, promosse la scomparsa progressiva dell’immensa
macchia verdeggiante europea, le cui immagini, con un autoritario panorama spettacolare
di alberi giganteschi, erano senz’altro colme di tormentosi riscontri
soprannaturali. In tale orientamento, l’uso di saccheggiare e devastare potrebbe
rivelare anche una sorta di metodo tradizionale con il quale i soldati davano sfogo
alla pressante angoscia in agguato durante le missioni esplorative di boschi
paurosi e sinistri, effettuate per vantaggi economici, politici e sociali.
Per formazione individuale e storica, della nostra esistenza
ho sempre coltivato influssi materialistici, accanto a sfumature ulteriori non
indifferenti di matrice esoterica o trascendentale, giudicando molto positiva,
per questo, l’occasione di conoscere circostanze, riti, movimenti di civiltà, descritti
in una trama dialettica pertinente entrambi gli orizzonti di contributo, ossia da
un lato di impronta storiografica e culturale, dall’altro inerente invece l’universo
delle idee in sé. Apprendo quindi con curiosità, nel paragrafo dedicato da
Lattanzi alla Selva Cimina, come varie persone, dal 2010, abbiano intravisto «una
figura bassa, inferiore a un metro e mezzo di altezza che incede, più che
camminare, con andatura incerta e oscillante. Il corpo ha uno strano colore
grigio e l’intera figura è completamente priva della minima peluria».
Claudio Lattanzi
Realtà o visione? Deciderlo non è necessario alla
comprensione del libro, poiché, per stimolare una convivenza di elementi disparati
da sembrare, per errore, antitetici, l’autore sceglie di enfatizzare l’interesse
di ricerca sui fenomeni empirici per i quali sono mai emerse strutture logiche e di spessore immanente attendibili: «globi di luce che volteggiano sulle acque»,
ad esempio, o costante «odore di zolfo», «strane
creature» all'imbocco del Pozzo del Diavolo,
caverna situata sul prospiciente Monte Venere, e rumori non decifrati in ville minacciate
da spettri. Presenze, di sicuro, alquanto infauste anche se, ascoltando il
monito dello scrittore e giornalista francese Tristan Bernard, è giusto
sostenerne l’atteggiamento ironico, allorché afferma: «È Dio che ha creato il
mondo, ma è il diavolo che lo fa vivere».
Seguendo, comunque, un sentiero dal fontanile in località Canale, superata
la faggeta del cono vulcanico, alla cima ecco una radura indotta dalla caduta di
imponenti specie arboree della famiglia delle Fagaceae. Da qui inizia la discesa
nel fatale pozzo luciferino, con l’apertura dotata di una cavità abbastanza spaziosa,
rifugio privilegiato da rapaci notturni. Si tratta della grotta maggiore della
regione, e la sua frequentazione conduce all'età προϊστορική (proistorikè). Indagini archeologiche ne
hanno testimoniato fasi distinte, le più arcaiche attinenti il periodo del
Neolitico. In una visuale mirata, si apprezza un gioco magico di colori: nel
versante meridionale prevalenti sono la roverella e l'acero, a differenza del
lato nord, di solito in ombra, con folti faggi e qualche cerro. La Tuscia, alimentando
dunque una gamma affascinante di echi arcani, «seppur
esclusa dai grandi itinerari turistici, o forse proprio per questo motivo»,
precisa Lattanzi, «presenta una quantità sconfinata di misteri collegati ad un
passato denso di eventi che si dispiega dagli Etruschi fino all’epoca moderna».
Il Pozzo del Diavolo
Nell’egemonia etrusca, l’appellativo di Tusciae era attribuito all'Etruria. Nella tarda antichità e nell'Alto Medioevo, denotò una distesa assai
vasta, comprendente il dominio storico della Toscana, l'Umbria occidentale e il Lazio settentrionale.
Tre macro-aree la identificavano: l'attuale provincia di Viterbo (Vetèrbe, in
dialetto) e quella di Roma nord giungendo al Lago di Bracciano, il Latium e l’Umbria soggetti al Ducato di Spoleto, e il territorio toscano conquistato dai Longobardi. Oggi il
toponimo, in genere modificato in Alto Lazio, indica il viterbese, tra le foci
del Chiarone e del Mignone sulla costa tirrenica, bagnata dal corso del Tevere
e varcata dalla Cassia, delimitata da un lembo di Maremma, le conche lacustri di
Bolsena e di Vico, i Monti Volsini e Cimini.
Leggendo il volume, matura qua e là la suggestione avvincente
di poter assistere ad un'esposizione, alternata con cura, di casi ambigui forniti
di princìpi attendibili (i quali non per questo, però, perdono la loro carica
di inquietudine) insieme all’enunciazione, in chiave coinvolgente, di enigmi irrisolti,
cioè caratterizzati da svariate proposte, per ora fallite, di inserirli in un
quadro di ragioni, come dire, persuasive. Molteplici accenni a interrogativi rimangono
ad hoc senza risposta: in primis, l’episodio del sacro Graal occultato
per volere di Federico II in Castel del Monte in Puglia, magari trasferito
dallo stesso imperatore nel palazzo fortificato nelle vicinanze del Monastero
di Santa Rosa, distrutto e ridotto a resti esigui.
Alla nascita ufficiale della letteratura italiana è
collegato invece il controverso destino delle peccatrici del Bullicame, esiliate
dalla cittadinanza presso una sorgente sulfurea nel circondario di Viterbo. Nel
XIV canto dell'Inferno se ne occupa
Dante, alludendo alle acque intrise del sangue dei martiri Valentino e Ilario: «Tacendo
divenimmo la 've spiccia / fuor della selva un picciol fiumicello, / lo cui
rossore ancor mi raccapriccia. / Quale del Bullicame esce ruscello / che parton
poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giù sen giva quello». Il riferimento
alle prostitute è contenuto, centocinquanta anni dopo, nello statuto cittadino
del 1469: «Se vogliono bagnarse, vadino dicte
meretrici nel bagno di Bulicame». Ma, secondo alcuni commentatori della Commedia, un amanuense avrebbe sbagliato nel ricopiare il testo,
autorizzando con un’erronea trascrizione la storia delle “peccatrici” relegate
da un'ordinanza nelle fonti non urbane. Consultando la cronaca, erano invece filatrici
di canapa, “pettatrici”, la cui industria era fiorente nel viterbese.
La lapide di Defuk
Di pari difficoltà sarebbe stabilire con strumenti
oggettivi i “dati anagrafici” del corpo seppellito della basilica di San
Flaviano sulla via Francigena, con la stele: «A causa del troppo
Est!Est!!Est!!! qui giace il mio signore Giovanni Defuk». Il sepolcro custodirebbe
Johannes Defuk, vescovo tedesco al seguito della carovana di Enrico V di
Germania, in viaggio per ricevere a San Pietro, dal Papa, la corona imperiale.
Amante del buon vino, l'alto prelato aveva incaricato il servitore Martino di
precederlo con il compito di localizzare cantine di pregio, marcando la porta
della taverna con “Est”, ossia “C'è”. Il moscatello di Montefiascone lo entusiasmò, scrivendo per ben
tre volte il segnale convenuto: “Est! Est!! Est!!!”. «Constatato
di persona quanto Martino fosse nel giusto», racconta
Lattanzi, «fu talmente preso da questo vino al
punto che abbandonò la carovana dell'imperatore e non se ne andò più via.
Tanto ne bevve che ne morì. Correva l'anno 1113».
Per secoli, il giorno della scomparsa venne celebrato versando un
barile di Est!Est!!Est!!! sulla tomba, avendo il fedele servo fatto incidere l’iscrizione
ai piedi del monumento funebre. In coerenza all’intelaiatura strutturale del
libro, è offerta subito un'altra ipotesi, presumendo la salma appartenga in
realtà a Friedrich von Tanne, vassallo di Filippo I di Svevia e duca della
Tuscia, caduto in battaglia in quei luoghi: nell'estate del 1234 l'influente
arcivescovo di Salisburgo, parente stretto di von Tanne, onorandolo avrebbe lì tumulato
il defunto. La pietra sepolcrale, quindi, è probabile sia «la conseguenza di una sepoltura postuma», illustrando «inoltre
il motivo per cui il personaggio scolpito sulla lapide, pur essendo
identificato sicuramente come un laico, venga spesso ricordato dalla tradizione
come un religioso».
Le armi delle "chemical city"
Per concludere, è il momento di tornare al Lacus Ciminius e al suo alone elusivo con sapienza chiarito da
Lattanzi. Una mattina di gennaio del 1996, un ciclista, costeggiando il lago
vicino a Ronciglione, sentì mancare all’improvviso le forze. Dopo la denuncia
alla Procura di Viterbo, si pensò ad un avvelenamento da gas tossici. Il
segreto, mantenuto per decenni, fu rivelato: nella vasta regione adiacente, nel
mezzo della selva, era situata una fabbrica di armi chimiche, operativa dal
ventennio fascista fino agli anni Settanta. Le terribili esalazioni avrebbero originato
anche una serie di anomali infortuni stradali registrati nella stessa zona per
lungo tempo. Bunker, magazzini sotterranei, caserme, uffici: era stato
allestito e nascosto un enorme spazio adibito a esperimenti e stoccaggio di
testate a caricamento speciale.
La chemical city
mussoliniana era divenuta polo strategico per inserire nel mercato migliaia di
tonnellate di prodotti bellici a base di iprite, admsite, fosgene, lavorate in
vani insicuri e tutelati da scarsissima igiene. La bonifica del sito iniziò in
totale segretezza: gli abitanti non hanno mai avuto il minimo sospetto di quel
terrificante arsenale celato nell’area a ridosso del bacino lacustre.
Il messaggio implicito di Claudio Lattanzi, non espresso ma ricavabile,
è che, al di là di monoliti e criptici fantasmi, figure diaboliche e globi
luminosi, sono le gesta sconsiderate dell’uomo a incutere davvero paura.
Claudio
Lattanzi
Tuscia
misteriosa e insolita.
Esoterismo,
leggende nere, enigmi irrisolti, Templari.
Orvieto,
Intermedia Edizioni, 2016, pp. 128, € 12,00