Cinzia BALDAZZI
La scelta dello scrittore.
Antologia
di racconti del Premio Città di Lugnano 2018.
«La
prosa narrativa o la narrativa» - cui, dal 2014, è dedicato
il Premio Letterario Città di Lugnano - «è fra i vari generi della prosa quello più genuinamente artistico»,
asseriva l’insigne esperto di stilistica Marcello Aurigemma, sintetizzando quanto,
per “racconto” (con esattezza, a metà del secolo scorso, lo studioso citava il
sostantivo “novella”), risulti giusto intendere un testo con limitata
estensione, il quale «contenga e narri compiutamente un fatto per qualche
motivo singolare, tanto da suscitare interesse».
Alcuni
lustri separano la nostra esistenza da allora, con un mosaico odierno composto da
molteplici storie, edificanti o terribili, numerose vicende di riguardo, da
emulare o dimenticare del tutto. A volte, spinta da immensa meraviglia per
l’intero microcosmo di Jorge Luis Borges - non da sola, bensì insieme alla
maggioranza della civiltà globale - ripenso al suo amore estremo per la
cultualità specifica del leggere: «Altri
si vantino delle pagine che han scritto; / io vado fiero di quelle che ho
letto».
Cogliamo
quindi con gioia l’occasione della quarta edizione del Premio Letterario Città
di Lugnano con le parole di Gianluca Filiberti, sindaco di Lugnano in Teverina,
coincidenti con «un omaggio alla lettura attraverso la scrittura». Ebbene, nello
spazio personale riservato da anni alla passione per i libri, privilegiando la
prospettiva critica, si aggira spesso la domanda di come ancora oggi sia
consentito apprezzare gente disposta a impiegare fatica e ingegno per produrre ars, oggetti artistici - a livelli eterogenei
- mentre il mondo procede, ormai, in un orizzonte futuro minaccioso e facile preda
di smarrimento o auto-distruzione.
Per
buona sorte, di frequente, al quesito segue un riscontro in campo: ne è esempio
l’antologia pubblicata da Intermedia con le dodici short stories finaliste e semifinaliste sul tema “Scelte”, densa
appunto di brani di prosa carichi di opzioni significative alimentate da un’energia
consistente per la mimesis, o
provvisti di un’eloquente fisionomia alternativa, magari votati alla salvezza
privata nello stralciare nell’utopia letteraria una decisione, un gesto risolutivo,
almeno in fieri, infine adibite a una
rivolta, a un’escatologia collettiva rispetto alle preferenze banali e
stereotipate.
Confesso
di stimare in primis, pur nell’ampia
gamma di libertà insita in ogni episodio d’arte per apparire tale, la forza del
legame notevole tra il vivere quotidiano e il codice di langue e parole, incrementato
dall’espandersi attivo nel loro ambito di un vincolo di matrice determinante: il
medesimo difeso dalla statunitense Anaïs Nin, cosciente di quanto le idee non
le giungessero quando era intenta a lavorare sulla scrivania, completate ex novo nella mente inserita nel
contesto creativo di vocabolo e contenuto. Sembravano, invece, frutto emblematico
della realtà vissuta nella sua fenomenologia concreta, deputata a divenire unità
semantica poetica tramite il metalinguaggio narrativo elaborato. In The Diary (1966) è illustrato nel
dettaglio: «Se non respiri attraverso la scrittura, se non piangi nello
scrivere, o canti scrivendo, allora non scrivere, perché alla nostra cultura
non serve».
Condivido,
di conseguenza, l’opinione della curatrice del volume Elisabetta Putini quando suggerisce:
«Come il canto libero e liberatorio, come la danza, come la pittura e molte
altre forme di espressione artistica, la scrittura ha dunque un alto potenziale
terapeutico». Così, in Alba di Francesca
Pontiggia, mentre i genitori della bimba afflitta da una gravissima patologia leucemica
«sono a colloquio con l’oncologo» e «non sanno ancora che la tragedia è sulla
soglia, eppure i segni dicono più delle parole», leggiamo: «II ventre della
madre urta il legno della scrivania di fronte». Per quale ragione? Il particolare
provoca l’indizio associativo peculiare, al contempo efficacissimo segnale semiotico,
dell’atroce e ultima tappa dell’insolito iter analogico instaurato dalla donna tra
la natura propizia (il rigoglioso progress
rigenerativo del giardino) e quella impietosa, in grado di condannare la piccolina.
È
il leitmotiv dell’intreccio, sviluppato
da contrappunto alla story della disperata
figura materna: infatti - viene precisato per il lettore - la troviamo lì a constatare,
tra sé e sé, osservando muta il nudo mobile della stanza ospedaliera che ha
urtato: «È di ciliegio». La madre, quindi, ricava sostegno - nel drammatico e ineguagliato
dolore indotto dall’infermità letale della figlioletta - dalla nascita e dalla fine
dell’eterno e ininterrotto ciclo vitale.
Poco
importa se il personaggio non coltiva memoria della celeberrima elegia Llanto por Ignacio Sánchez Mejías (1935)
dove, per rendersi conto della necessità di tollerare l’ingiustizia della
cruenta scomparsa dell’amato torero (nonostante l’assiduo pericolo di
annientamento di ogni matador
nell’arena), Federico García Lorca, tentando di esplicarne la tremenda fatalità,
affermava l’avverarsi di un assurdo naturale: «Duerme, vuela, reposa: ¡También
se muere el mar!».
Peccato,
però, che alla bambina morente l’ipotesi di salvezza in virtù dell’aiuto di un
fratellino eventualmente generato per donarle il midollo spinale non sia
confacente: e, sebbene debba confidare nel bagaglio conoscitivo caratteristico della
ridotta esperienza tipica dell’età dei quattro anni, è assai persuasa in questa
scelta. La giovanissima protagonista
del plot dimostra senza dubbio un coraggio
degno di merito; e, a lode dell’autrice, ricordiamo l’evocazione da parte del mitico
prof. Keating de L’attimo fuggente
(1989) di Peter Weir, quando riporta agli allievi la riflessione del filosofo e
poeta Henry David Thoreau: «Quanto vano è il mettersi seduti a scrivere quando
non ci si è posti eretti a vivere».
Tale
commento non è superfluo, poiché per il lituano Algirdas J. Greimas - tra i
fondatori della semiotica strutturale - la decifrazione di qualsiasi quid artistico nel discorso è giusto si riferisca «alla ricezione e alla trasmissione
di esso» (il vivere «eretti»), e non unicamente alla pura intenzionalità del
mittente del messaggio («il mettersi seduti a scrivere»). Del resto Arthur Schopenhauer,
nell’Ottocento, già ammoniva: «I pensieri messi per iscritto non sono nulla di
più che la traccia di un viandante nella sabbia: si vede bene che strada ha
preso, ma per sapere che cosa ha visto durante il cammino bisogna far uso dei
suoi occhi».
Un
simile point of view, o il relativo sguardo,
è stato consegnato a noi, in chiave maieutica, da Agnese Pelliconi in Dublino, andata e ritorno, con la main character orientata sul margine
delle “follie”, «le uniche cose che non si rimpiangono mai», dopo aver
preferito rifiutare il posto in banca in Italia per rimanere a vivere e a
lavorare in Irlanda, «nel posto dove poteva crescere». Sempre lei, a faticare nel
«mettersi in gioco», timida e introversa, «quella “ligia alle regole”, ma allo
stesso tempo aveva paura a rimanerci intrappolata in quella realtà in cui era
cresciuta. Sentiva che c’era altro fuori, che doveva prendere il volo».
Le
strutture nell’arco del significante dell’antologia Scelte assolvono, ognuna a proprio modo, al processo di percezione
- di comunicazione - che li ha alimentati: lo spazio di aura rimanente, valido
ed estensivo, piacevole e accrescitivo, spetta a noi destinatari.
Ma
il primo passo è stato degli autori e, per fortuna, sembra abbiano ascoltato il
monito tanto caro a Ernest Hemingway: «Accorgersi che si era capaci di
inventare qualcosa; di creare con abbastanza verità da esser contenti di
leggere ciò che si era creato; e di farlo ogni giorno che si lavorava, era
qualcosa che procurava una gioia maggiore di quante ne avessi mai conosciute.
Oltre a questo, nulla importava».
Paolo Caminiti, Simone Censi, Rossella Forti, Alessandro Manzi, Elisa Marchinetti, Francesca Pontiggia, Marco Stanzani, Michela Alessio, Nazareno Caporali, Bogdan Groza, Agnese Pelliconi, Gianluca Pirozzi
Scelte
Racconti finalisti e semifinalisti. Premio Letterario Città di Lugnano 2018
a cura di Elisabetta Putini
prefazione di Gianluca Filiberti
Orvieto, Intermedia Edizioni, 2018, pp. 160, € 10,00
I
proventi di vendita del libro sono interamente devoluti alla Fondazione Dottor
Sorriso onlus, clown in ospedale.