Dal 5 al 19 aprile
Maria Cascioli espone olii su tela, tempere, acrilici e collage polimaterici
nella mostra Rinascita, nei locali di
Lettere Caffè a Roma, al n. 100 di via S. Francesco a Ripa, con la direzione
artistica di Maurizio Pochesci e Donatella Calì.
Riporto qui di
seguito la mia presentazione, letta nel corso del vernissage.
Natura e civiltà nei quadri di Maria Cascioli
Un
poeta peruviano del ‘900, Xavier Abril, ha scritto un brano dedicato all’edera.
L’acrostico è:
La conoscete senza
forma:
è l’edera ostinata,l’inferriata e l’amore,
appena lacrime di un altro tempo.
Quando
ho visto la prima volta, e ammirato, l’opera pittorica di Maria Cascioli, ho
creduto di sentirla evocata dalle parole dell’intera elegia di Abril. Sono
stata incoraggiata da un forte complesso emotivo nell’aver accolto i quadri
della nostra Maria incastonati e coperti, o essi stessi come tralci di edera
intrecciata e circolare. Non di una selva o di un parco cittadino: mi riferisco
al filo, all’intelaiatura naturale, o meglio vegetale, sulla quale è scaturita,
alle origini della civiltà, la prima
resa grafica del linguaggio, la pittografia originaria.
Più
tardi, nel progredire della scrittura, i segni smisero di rappresentare le cose e si sforzarono invece di suggerirne il nome, anzi il nominativo,
eventualmente tramite forme stilizzate o simboli. Dalla pittografia si passò alla ideografia.
Questo avveniva nell’area
geografica del Medio Oriente: capostipite fu, per la precisione, la scrittura
cuneiforme dei Sumeri, premessa indispensabile all’alfabeto inventato dai
Fenici. Ricordate queste considerazioni: le vedremo tra poco applicate all’osservazione
di alcuni quadri di Maria.
I
versi di Xavier Abril, dicevo. Con la libertà di scambio esistente tra le arti
e i loro commenti, li utilizzeremo come ossatura logico-intuitiva e
immaginifica, non per ultima, tecnica,
del contesto figurativo della Cascioli. In un simile viaggio, non avrò il
timore - con la poesia - di introdurre elementi estranei: mi aiuteranno le
parole del grande impressionista, anzi puntinista, Georges Seurat, l’autore del
celebre dipinto La Grande Jatte. Diceva
Seurat: «Alcuni vedono della poesia in quello che faccio. Non è vero: io
applico il mio metodo, e questo è tutto».
Leggiamo
ora, finalmente, i versi di Abril. Vi
rammenteranno il quadro L’amazzone trae nutrimento dalla
ragione/emozione e la sua chioma di fiumi:
Riempie questa solitudine di lampade vuote.
Nella memoria del cuore
C’è un fiore marcito,
un nome di donna.
Gli occhi dell’assenza
Sono pieni di pioggia, di paesaggi di gelo e senza alberi.
Chi sa il nome di quella donna
che dimentica la sua chioma nei fiumi dell’alba?
Com’è difficile distinguere fra la notte
e una donna da tempo affogata in uno stagno!
Lo svenimento di un fiore non si paragona
al silenzio delle sue palpebre serrate.
Il
nostro viaggio nell’arte di Maria Cascioli prende avvio dal Frutto
della conoscenza. Un cuore, il profilo di un reticolo geometrico del
muscolo cardiaco, una sorta di alveare con cellette a cubo e non esagonali.
Dall’alto cola una specie di liquido coincidente con piccole sfere di varie
tonalità di azzurro, dal celeste al blu.
Dobbiamo
tornare un po’ indietro nel tempo. Tra il IV e il V secolo a.C., il filosofo
greco Democrito inserì, alla base dell’ontologia della scuola eleatica - quella
del mitico Zenone, del paradosso di Achille e la tartaruga - il concetto di “atomo”: appunto, una
sorta di “piccola sfera”, segnale dell’essere, ma anche di “vuoto”, cioè di non essere.
Per
Democrito (allievo di Leucippo), l’unità minima atomica costituiva la zona-matrice
dell’universo, nonché il caposaldo metafisico del mondo: l’uomo però non la
registrava nella dimensione sensibile (cioè nella realtà fisica), bensì nella mente, attraverso un lungo cammino
in grado di scomporre e superare il confine corporeo, che di sua natura cambia
perennemente e non è fonte affidabile di notizie certe. Quindi, non era la voce
di una pura intelligibilità (lo sarà in Platone), visto che l’atomo possedeva comunque
una consistenza materiale. Tuttavia era pur sempre un reale intelligibile
poiché sfuggiva ai sensi, ed era da cogliere mediante l’intelletto,
garanzia di attendibilità.
In
Democrito emergeva dunque una ἀρχή (arché), la fase iniziale di un’entità
solida ed eterna: e come nel Frutto della conoscenza, in un insieme
utopico analogo alla rete geometrica del muscolo cardiaco, essa è abitata da particelle primigenie
compatte, e tra loro complici, di noi uomini.
La
φύσις, cioè la natura, nella tecnica pittorica della Cascioli, viene potenziata
dal “principio di inerzia”. Democrito
ancora non lo conosceva, se non con un valore - diremmo oggi - di “flash
intuitivo”. Il principio di inerzia era il fondamento della dinamica di Galileo
Galilei. Diceva pressappoco: il moto
rettilineo uniforme non richiede la presenza di alcuna causa che lo
provochi; solo dove si ha accelerazione
deve esserci una causa che lo produce.
Ora
è necessario andare avanti di circa cinquecento anni. Nelle Metamorfosi di Ovidio, dell’8 d.C., l’arché originaria, con i suoi prodotti
antropomorfici, è ormai equiparata a oggetti percettivi: l’uomo si identifica
con il mondo naturale, vi si mimetizza, prende forma di animale, albero, fiume,
roccia. Le immagini di Ovidio riferiscono della caduta della supremazia umana
sul contesto.
Ma
nella Cascioli, il simbolo della vita è ritratto in una natura restaurata, non
utopica né fantasiosa: ecco il cuore, il
miocardio, vivere al posto nostro. Nessuna causa è in grado di spiegare il
procedere del suo battito. In termini cristiani, un procedimento di
corrispettivo artistico così eseguito potrebbe consentire di vedere il Creato di
Dio in Dio, lasciando scorgere le cose come create dall’Uomo nell’Uomo.
Nel
Fiore
della ragione in rosso, uno dei richiami è alla struttura legnosa della
pigna, i cui stadi componenti
proteggono i frutti del pino. È chiara l’allusione all’alveare nei moduli esagonali, al cuore nel tono acceso del rosso. La figura è sormontata da un
ingranaggio del medesimo colore, una
ruota dentata, una sorta di giunto meccanico di sezione anch’essa a esagoni.
È
un emblema esplicito, mutuato dal linguaggio e dall’uso della tecnica: l’unione
permette a ulteriori elementi di muoversi, trasmette la dinamicità, collega i
pezzi all’interno di una serie continua e ne garantisce il funzionamento. Il
quadro può essere denotato addirittura con le parole con le quali il giunto è
definito nei dizionari di ingegneria: “organo
di accoppiamento”.
Maria Cascioli vi raffigura all’interno una sagoma
stilizzata. Sarebbe agevole dare per
scontata una visione del genere: purtroppo, e la Cascioli ne è cosciente, la mente in realtà esiste solo in un corpo
fragile, limitato. Da questa
prospettiva pittorica, ideologica, scaturisce una particella vitale indotta:
precaria, aggrappata punto dopo punto a un contesto allargato. Nell’angolo di
un immenso e misterioso cosmo, essa è indifferente alle divisioni, alle sfumature
predominanti sulle altre.
Ex
Voto II rinvia a uno schema di sembianze uterine: un profilo
non regolare, gonfio, turgido, sebbene costituito da filamenti metallici
dentati, a copertura di un fondo materiale grigio, magmatico. La scritta
“ex-voto”, in alto, fa colare giù inquietanti rivoli di vernice. In una simile
dialettica di apertura (di messaggio), tra l’obbedienza dell’osservatore e il
suo spirito di iniziativa, si instaura l’attività interpretativa di ognuno di
noi. E direi, in questi quadri, essa diviene rigorosa e inventiva, rimanendo
libera eppure fedele al ripristino archeologico delle circostanze dei codici
presenti nella Cascioli. In parole diverse, nel saggiare le forme acquisite, si
scopre fino a che margine tali forme sopportino l’immissione di contenuti nuovi
grazie all’incoraggiamento promosso dall’artista stessa.
Consentitemi
un ricordo personale. Da studente, con i miei coetanei, ho amato e apprezzato l’apparato
esegetico della semiotica,
proseguimento della casa-madre dello strutturalismo.
Il compianto critico d’arte Filiberto Menna scriveva: «L’impostazione analitica
dell’arte moderna rientra in un più vasto complesso culturale ed è attraversata
dall’avventura strutturalista del XX secolo».
E
per non fare la parte del sostenitore di categorie apriori, precisava come tale
concetto assegnasse agli studiosi, ai critici, il compito di impadronirsi di «un
vocabolario tecnico perfetto, di spostare l’uso dei termini dal loro senso
corrente al loro gergo scientifico».
Riguardo
alle arti, negli anni ’70 dell’indiscusso Louis Althusser lettore di Karl Marx,
sempre per i giovani di allora (avendo già conosciuto Ferdinand de Saussure e
Sigmund Freud), è stato conseguente passare dalle idee all’azione critica: ovvero, comprendere quanto le
figure, i colori, le prospettive, le modalità esecutive di un dipinto, nell’essere
significanti di qualcosa, siano ovunque stati «significante in aggiunta
coesistente di significato».
In
altre parole: a parere di Umberto Eco, il significante sarebbe ipso facto un’area genitrice di senso, come del resto abbiamo trattato fino a
questo momento le opere di Maria. Un’area fertile, feconda, riempita di cumuli
dovuti al denotare e al connotare, in virtù di una serie di norme e di lessico
a stabilirne le relative corrispondenze.
L’accenno
agli studi semiotici consente di tornare di nuovo indietro nel tempo. La
pittura e il linguaggio, diventate un sistema unitario, si chiarificarono da sé
per aggregati successivi di consuetudini, le une sviluppate in base alle altre.
In Mesopotamia, infatti, tra i Sumeri, i pittogrammi iniziali sono disegni schematici di oggetti concreti:
trascorsi alcuni millenni, li ritroveremo nelle migliori stilizzazioni medievali
del Nord Europa e, secoli dopo, nella potente svolta nel ‘900, da Modigliani a
Picasso a Giacometti, con il recupero di una profonda integralità autentica,
non condizionata, alla ricerca delle particelle primigenie della storia
antichissima.
Solo
in un secondo momento nacque la scrittura
cuneiforme, con l’utilizzo di armonie prestabilite di grafemi uguali - appunto
simili a un cuneo - per riprodurre in maniera astratta e semplificata i concetti, e non i fenomeni illustrati
dai pittogrammi. Quindi, per indicare l’immagine
mentale delle cose, non le cose stesse.
Questa
modalità arcaica integrale, ontologica e
sperimentale, predomina in un gruppo di quadri di Maria Cascioli, direi in
una famiglia di essi. Nella Culla della civiltà, la radice di un
albero è formalizzata in un semicerchio: da lì si incrementa e si consolida fino
alla chioma sferica, suggerendo un criterio incline a prevedere la serie
infinita in divenire. Ma attenzione: non è il campo del libero arbitrio, della
morale. È piuttosto il terreno opportuno per procedere a proprio agio solo sul
percorso di una logica transitiva, nel passaggio
da un livello intimo a uno di superficie.
Ciò
accade osservando le fondamenta rappresentate da una rete di esagoni, mentre la
chioma è un insieme di cerchi gialli e marroni. Intorno, si muovono le silohuette scure della civiltà archetipica,
custode del culto dell’albero delle origini, e al centro è rappresentata la successiva
fase di autocoscienza, allorché si sale tra i rami per goderne i frutti.
Il
pozzo della conoscenza indica un
evolversi. Il progresso avanza: il
dominio sull’ambiente è ormai completo, anche se, nelle opere, nei cambiamenti, nelle migliorie compiute dall’arché della stirpe umana, il potere
creativo è, in chiave etimologica, soprannaturale.
In analogia, le figure antropomorfiche della Cascioli sono in lotta perché
superiori all’habitat, a cui
comunque, sebbene in una prospettiva distorta e svincolata, devono essere
associate. Per questo l’albero è svuotato dei suoi doni, condotti in trionfo
dagli uomini emancipati: le particelle tonde, gli atomi di prima, sono nutrimento per il corpo, cibo per la
mente. Della pianta, però, rimane salda e solitaria la radice, una falce di
luna composta da un intarsio ligneo di rombi e losanghe.
Quante
volte un critico letterario, o d’arte, o a confronto con un brano musicale, un
complesso architettonico, si chiede in quale senso sia giusto, con un commento
personale, costruire una misura ridotta
dell’informazione (ricavata, nel nostro caso, dai segnali visuali qui
mostrati). Esprimendo il mio pensiero, io tento di non prendere il posto della
scelta definitiva attuata dagli spettatori, provando, con i mezzi disponibili,
a non sostituire la mia “messa in forma” a quella ambigua e polisensa
dell’artista.
Come?
Basterebbe, per impararlo, il dipinto Percorsi di una mente incatenata,
rammentando il già citato tragitto evolutivo costituito dalla scrittura
cuneiforme, dove ogni segno è indicativo di un concetto.
Percorsi
di una mente incatenata raggiunge
per magia un profilarsi standard dei simboli. Ne comprime il numero, mentre li arricchisce di valori cromatici,
lineari, armonici, in un procedere delimitato dal quadrante di un orologio,
o dalle corsie interne ed esterne di un raccordo stradale.
Il
tutto sembra concepito e realizzato alla stregua della storica e misteriosa
svolta subìta dal rapporto segno-disegno nell’area mesopotamica nel 1500 a.C. Il
passaggio della mano dello scriba sulla tavoletta di argilla ancora fresca, che
avveniva da destra verso sinistra, a un certo punto mutò direzione: si cominciò
a scrivere da sinistra a destra, dal senso antiorario a quello orario. Insomma,
cambiò l’uso già codificato, sia pure non a livello sociale ma del singolo, e l’individuo
lo comunicò prima a se stesso, tra se stesso, poi agli altri.
Lo
avverto con chiarezza quando osservo Percorsi di una mente incatenata,
con la sua famiglia di tratti, di bianco su nero, di luce sull’ignoto, a fianco
di una marea di sfere candide e azzurre che, favorite dal fato, sono tuttavia
potute entrare nella circolarità della
vita e della morte (quel rosso è infatti pennello del sangue).
Ricordo
come l’interpretazione dei quadri di Eugène Delacroix fornita da Charles Baudelaire
si risolvesse spesso nel problema stesso
dell’arte e della sua pertinenza e pratica. In principio, Delacroix era
parso a lui, caposcuola del parnassianesimo, un artista-tipo. Però Baudelaire,
fin dagli inizi dell’attività di critico, aveva sempre riservato molto
interesse, anzi si sentiva a disagio, nei confronti del colore, e si adoperava a risolvere
in esso la questione del dipingere. Anche il ritratto è colore: e incontra l’idea
di un evocare suggestivo, parallelo in letteratura al linguaggio. Ambedue sono
mezzi per ottenere una suggestione magica, allusiva, matrice di un’atmosfera di
incantesimo creativo.
Nei
quadri di Maria Cascioli, il colore si
fa strumento dell’immaginario: e nello stile di una parola alta, allegorica,
quasi un organo trascendente, rivela
l’esistenza di una realtà più profonda e insieme ulteriore alla natura. A
suggello di tali ultime considerazioni, riporto le parole di Luciano Anceschi,
uno dei padri della critica italiana: «La natura non è che un dizionario per
l’artista, il quale non si adegua mai al modello, accettandolo, ma cerca di
renderne la ricca e bella primitività».