martedì 11 aprile 2017

Natura e civiltà nei quadri di Maria Cascioli


Dal 5 al 19 aprile Maria Cascioli espone olii su tela, tempere, acrilici e collage polimaterici nella mostra Rinascita, nei locali di Lettere Caffè a Roma, al n. 100 di via S. Francesco a Ripa, con la direzione artistica di Maurizio Pochesci e Donatella Calì.
Riporto qui di seguito la mia presentazione, letta nel corso del vernissage.

  

Natura e civiltà nei quadri di Maria Cascioli
 

Un poeta peruviano del ‘900, Xavier Abril, ha scritto un brano dedicato all’edera. L’acrostico è:
 
La conoscete senza forma:
è l’edera ostinata,
l’inferriata e l’amore,
appena lacrime di un altro tempo.

 
Quando ho visto la prima volta, e ammirato, l’opera pittorica di Maria Cascioli, ho creduto di sentirla evocata dalle parole dell’intera elegia di Abril. Sono stata incoraggiata da un forte complesso emotivo nell’aver accolto i quadri della nostra Maria incastonati e coperti, o essi stessi come tralci di edera intrecciata e circolare. Non di una selva o di un parco cittadino: mi riferisco al filo, all’intelaiatura naturale, o meglio vegetale, sulla quale è scaturita, alle origini della civiltà, la prima resa grafica del linguaggio, la pittografia originaria.

Più tardi, nel progredire della scrittura, i segni smisero di rappresentare le cose e si sforzarono invece di suggerirne il nome, anzi il nominativo, eventualmente tramite forme stilizzate o simboli. Dalla pittografia si passò alla ideografia. Questo avveniva nell’area geografica del Medio Oriente: capostipite fu, per la precisione, la scrittura cuneiforme dei Sumeri, premessa indispensabile all’alfabeto inventato dai Fenici. Ricordate queste considerazioni: le vedremo tra poco applicate all’osservazione di alcuni quadri di Maria.

I versi di Xavier Abril, dicevo. Con la libertà di scambio esistente tra le arti e i loro commenti, li utilizzeremo come ossatura logico-intuitiva e immaginifica, non per ultima, tecnica, del contesto figurativo della Cascioli. In un simile viaggio, non avrò il timore - con la poesia - di introdurre elementi estranei: mi aiuteranno le parole del grande impressionista, anzi puntinista, Georges Seurat, l’autore del celebre dipinto La Grande Jatte. Diceva Seurat: «Alcuni vedono della poesia in quello che faccio. Non è vero: io applico il mio metodo, e questo è tutto».
 
 L'amazzone

Leggiamo ora, finalmente, i versi di Abril. Vi  rammenteranno il quadro L’amazzone trae nutrimento dalla ragione/emozione e la sua chioma di fiumi:

 
Una donna o la sua ombra di edera
Riempie questa solitudine di lampade vuote.
Nella memoria del cuore
C’è un fiore marcito,
un nome di donna.
Gli occhi dell’assenza
Sono pieni di pioggia, di paesaggi di gelo e senza alberi.
Chi sa il nome di quella donna
che dimentica la sua chioma nei fiumi dell’alba?
Com’è difficile distinguere fra la notte
e una donna da tempo affogata in uno stagno!
Lo svenimento di un fiore non si paragona
al silenzio delle sue palpebre serrate.
 

Il nostro viaggio nell’arte di Maria Cascioli prende avvio dal Frutto della conoscenza. Un cuore, il profilo di un reticolo geometrico del muscolo cardiaco, una sorta di alveare con cellette a cubo e non esagonali. Dall’alto cola una specie di liquido coincidente con piccole sfere di varie tonalità di azzurro, dal celeste al blu.

Dobbiamo tornare un po’ indietro nel tempo. Tra il IV e il V secolo a.C., il filosofo greco Democrito inserì, alla base dell’ontologia della scuola eleatica - quella del mitico Zenone, del paradosso di Achille e la tartaruga - il concetto di “atomo”: appunto, una sorta di “piccola sfera”, segnale dell’essere, ma anche di “vuoto”, cioè di non essere.
 
 Frutto della conoscenza

Per Democrito (allievo di Leucippo), l’unità minima atomica costituiva la zona-matrice dell’universo, nonché il caposaldo metafisico del mondo: l’uomo però non la registrava nella dimensione sensibile (cioè nella realtà fisica), bensì nella mente, attraverso un lungo cammino in grado di scomporre e superare il confine corporeo, che di sua natura cambia perennemente e non è fonte affidabile di notizie certe. Quindi, non era la voce di una pura intelligibilità (lo sarà in Platone), visto che l’atomo possedeva comunque una consistenza materiale. Tuttavia era pur sempre un reale intelligibile poiché sfuggiva ai sensi, ed era da cogliere mediante l’intelletto, garanzia di attendibilità.

In Democrito emergeva dunque una ἀρχή (arché), la fase iniziale di un’entità solida ed eterna: e come nel Frutto della conoscenza, in un insieme utopico analogo alla rete geometrica del muscolo cardiaco,  essa è abitata da particelle primigenie compatte, e tra loro complici, di noi uomini.

La φύσις, cioè la natura, nella tecnica pittorica della Cascioli, viene potenziata dal “principio di inerzia”. Democrito ancora non lo conosceva, se non con un valore - diremmo oggi - di “flash intuitivo”. Il principio di inerzia era il fondamento della dinamica di Galileo Galilei. Diceva pressappoco: il moto rettilineo uniforme non richiede la presenza di alcuna causa che lo provochi; solo dove si ha accelerazione deve esserci una causa che lo produce.

Ora è necessario andare avanti di circa cinquecento anni. Nelle Metamorfosi di Ovidio, dell’8 d.C., l’arché originaria, con i suoi prodotti antropomorfici, è ormai equiparata a oggetti percettivi: l’uomo si identifica con il mondo naturale, vi si mimetizza, prende forma di animale, albero, fiume, roccia. Le immagini di Ovidio riferiscono della caduta della supremazia umana sul contesto.

Ma nella Cascioli, il simbolo della vita è ritratto in una natura restaurata, non utopica né fantasiosa: ecco il cuore, il miocardio, vivere al posto nostro. Nessuna causa è in grado di spiegare il procedere del suo battito. In termini cristiani, un procedimento di corrispettivo artistico così eseguito potrebbe consentire di vedere il Creato di Dio in Dio, lasciando scorgere le cose come create dall’Uomo nell’Uomo.
 
 Fiore della ragione in rosso
 

Nel Fiore della ragione in rosso, uno dei richiami è alla struttura legnosa della pigna, i cui stadi componenti proteggono i frutti del pino. È chiara l’allusione all’alveare nei moduli esagonali, al cuore nel tono acceso del rosso. La figura è sormontata da un ingranaggio del medesimo colore, una ruota dentata, una sorta di giunto meccanico di sezione anch’essa a esagoni.

È un emblema esplicito, mutuato dal linguaggio e dall’uso della tecnica: l’unione permette a ulteriori elementi di muoversi, trasmette la dinamicità, collega i pezzi all’interno di una serie continua e ne garantisce il funzionamento. Il quadro può essere denotato addirittura con le parole con le quali il giunto è definito nei dizionari di ingegneria: “organo di accoppiamento”.

Maria Cascioli vi raffigura all’interno una sagoma stilizzata. Sarebbe agevole dare per scontata una visione del genere: purtroppo, e la Cascioli ne è cosciente, la mente in realtà esiste solo in un corpo fragile, limitato. Da questa prospettiva pittorica, ideologica, scaturisce una particella vitale indotta: precaria, aggrappata punto dopo punto a un contesto allargato. Nell’angolo di un immenso e misterioso cosmo, essa è indifferente alle divisioni, alle sfumature predominanti sulle altre.

Ex Voto II rinvia a uno schema di sembianze uterine: un profilo non regolare, gonfio, turgido, sebbene costituito da filamenti metallici dentati, a copertura di un fondo materiale grigio, magmatico. La scritta “ex-voto”, in alto, fa colare giù inquietanti rivoli di vernice. In una simile dialettica di apertura (di messaggio), tra l’obbedienza dell’osservatore e il suo spirito di iniziativa, si instaura l’attività interpretativa di ognuno di noi. E direi, in questi quadri, essa diviene rigorosa e inventiva, rimanendo libera eppure fedele al ripristino archeologico delle circostanze dei codici presenti nella Cascioli. In parole diverse, nel saggiare le forme acquisite, si scopre fino a che margine tali forme sopportino l’immissione di contenuti nuovi grazie all’incoraggiamento promosso dall’artista stessa.

 Ex Voto II
 
Consentitemi un ricordo personale. Da studente, con i miei coetanei, ho amato e apprezzato l’apparato esegetico della semiotica, proseguimento della casa-madre dello strutturalismo. Il compianto critico d’arte Filiberto Menna scriveva: «L’impostazione analitica dell’arte moderna rientra in un più vasto complesso culturale ed è attraversata dall’avventura strutturalista del XX secolo».

E per non fare la parte del sostenitore di categorie apriori, precisava come tale concetto assegnasse agli studiosi, ai critici, il compito di impadronirsi di «un vocabolario tecnico perfetto, di spostare l’uso dei termini dal loro senso corrente al loro gergo scientifico».  

Riguardo alle arti, negli anni ’70 dell’indiscusso Louis Althusser lettore di Karl Marx, sempre per i giovani di allora (avendo già conosciuto Ferdinand de Saussure e Sigmund Freud), è stato conseguente passare dalle idee all’azione critica: ovvero, comprendere quanto le figure, i colori, le prospettive, le modalità esecutive di un dipinto, nell’essere significanti di qualcosa, siano ovunque stati «significante in aggiunta coesistente di significato».

In altre parole: a parere di Umberto Eco, il significante sarebbe ipso facto un’area genitrice di senso, come del resto abbiamo trattato fino a questo momento le opere di Maria. Un’area fertile, feconda, riempita di cumuli dovuti al denotare e al connotare, in virtù di una serie di norme e di lessico a stabilirne le relative corrispondenze.

L’accenno agli studi semiotici consente di tornare di nuovo indietro nel tempo. La pittura e il linguaggio, diventate un sistema unitario, si chiarificarono da sé per aggregati successivi di consuetudini, le une sviluppate in base alle altre. In Mesopotamia, infatti, tra i Sumeri, i pittogrammi iniziali sono disegni schematici di oggetti concreti: trascorsi alcuni millenni, li ritroveremo nelle migliori stilizzazioni medievali del Nord Europa e, secoli dopo, nella potente svolta nel ‘900, da Modigliani a Picasso a Giacometti, con il recupero di una profonda integralità autentica, non condizionata, alla ricerca delle particelle primigenie della storia antichissima.

Solo in un secondo momento nacque la scrittura cuneiforme, con l’utilizzo di armonie prestabilite di grafemi uguali - appunto simili a un cuneo - per riprodurre in maniera astratta e semplificata i concetti, e non i fenomeni illustrati dai pittogrammi. Quindi, per indicare l’immagine mentale delle cose, non le cose stesse.

 Culla della civiltà
 
Questa modalità arcaica integrale, ontologica e sperimentale, predomina in un gruppo di quadri di Maria Cascioli, direi in una famiglia di essi. Nella Culla della civiltà, la radice di un albero è formalizzata in un semicerchio: da lì si incrementa e si consolida fino alla chioma sferica, suggerendo un criterio incline a prevedere la serie infinita in divenire. Ma attenzione: non è il campo del libero arbitrio, della morale. È piuttosto il terreno opportuno per procedere a proprio agio solo sul percorso di una logica transitiva, nel passaggio da un livello intimo a uno di superficie.

Ciò accade osservando le fondamenta rappresentate da una rete di esagoni, mentre la chioma è un insieme di cerchi gialli e marroni. Intorno, si muovono le silohuette scure della civiltà archetipica, custode del culto dell’albero delle origini, e al centro è rappresentata la successiva fase di autocoscienza, allorché si sale tra i rami per goderne i frutti.

 Pozzo della conoscenza
 
Il pozzo della conoscenza indica un evolversi. Il progresso avanza: il dominio sull’ambiente è ormai completo, anche se, nelle opere, nei  cambiamenti, nelle migliorie compiute dall’arché della stirpe umana, il potere creativo è, in chiave etimologica, soprannaturale. In analogia, le figure antropomorfiche della Cascioli sono in lotta perché superiori all’habitat, a cui comunque, sebbene in una prospettiva distorta e svincolata, devono essere associate. Per questo l’albero è svuotato dei suoi doni, condotti in trionfo dagli uomini emancipati: le particelle tonde, gli atomi di prima, sono nutrimento per il corpo, cibo per la mente. Della pianta, però, rimane salda e solitaria la radice, una falce di luna composta da un intarsio ligneo di rombi e losanghe.

Quante volte un critico letterario, o d’arte, o a confronto con un brano musicale, un complesso architettonico, si chiede in quale senso sia giusto, con un commento personale, costruire una misura ridotta dell’informazione (ricavata, nel nostro caso, dai segnali visuali qui mostrati). Esprimendo il mio pensiero, io tento di non prendere il posto della scelta definitiva attuata dagli spettatori, provando, con i mezzi disponibili, a non sostituire la mia “messa in forma” a quella ambigua e polisensa dell’artista.

Come? Basterebbe, per impararlo, il dipinto Percorsi di una mente incatenata, rammentando il già citato tragitto evolutivo costituito dalla scrittura cuneiforme, dove ogni segno è indicativo di un concetto.

 Percorsi di una mente incatenata
 
Percorsi di una mente incatenata raggiunge per magia un profilarsi standard dei simboli. Ne comprime il numero, mentre li arricchisce di valori cromatici, lineari, armonici, in un procedere delimitato dal quadrante di un orologio, o dalle corsie interne ed esterne di un raccordo stradale.

Il tutto sembra concepito e realizzato alla stregua della storica e misteriosa svolta subìta dal rapporto segno-disegno nell’area mesopotamica nel 1500 a.C. Il passaggio della mano dello scriba sulla tavoletta di argilla ancora fresca, che avveniva da destra verso sinistra, a un certo punto mutò direzione: si cominciò a scrivere da sinistra a destra, dal senso antiorario a quello orario. Insomma, cambiò l’uso già codificato, sia pure non a livello sociale ma del singolo, e l’individuo lo comunicò prima a se stesso, tra se stesso, poi agli altri.

Lo avverto con chiarezza quando osservo Percorsi di una mente incatenata, con la sua famiglia di tratti, di bianco su nero, di luce sull’ignoto, a fianco di una marea di sfere candide e azzurre che, favorite dal fato, sono tuttavia potute entrare nella circolarità della vita e della morte (quel rosso è infatti pennello del sangue).

Ricordo come l’interpretazione dei quadri di Eugène Delacroix fornita da Charles Baudelaire si risolvesse spesso nel problema stesso dell’arte e della sua pertinenza e pratica. In principio, Delacroix era parso a lui, caposcuola del parnassianesimo, un artista-tipo. Però Baudelaire, fin dagli inizi dell’attività di critico, aveva sempre riservato molto interesse, anzi si sentiva a disagio, nei confronti del colore, e si adoperava a risolvere in esso la questione del dipingere. Anche il ritratto è colore: e incontra l’idea di un evocare suggestivo, parallelo in letteratura al linguaggio. Ambedue sono mezzi per ottenere una suggestione magica, allusiva, matrice di un’atmosfera di incantesimo creativo.

Nei quadri di Maria Cascioli, il colore si fa strumento dell’immaginario: e nello stile di una parola alta, allegorica, quasi un organo trascendente, rivela l’esistenza di una realtà più profonda e insieme ulteriore alla natura. A suggello di tali ultime considerazioni, riporto le parole di Luciano Anceschi, uno dei padri della critica italiana: «La natura non è che un dizionario per l’artista, il quale non si adegua mai al modello, accettandolo, ma cerca di renderne la ricca e bella primitività».

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