Ad
Acquasparta (TR), all'interno della “Festa della mamma” di sabato
13 maggio, sono state lette alcune poesie sul tema scritte dall'amico
Otello Semiti. Di una di esse, in particolare, ho letto un commento,
che riporto insieme ai suoi versi.
IL TUO VISO
di
Otello Semiti
Ogni
volta che il sogno mi onora
del tuo
viso la sembianza affiora
come
una carezza mi sfiora.
Madre:
la tua
presenza mi rassicura
quella
fatiscente luce mi consola.
Madre:
da
bambino raccoglievo le voci
di
sgridate veloci
di
pianti innocenti per quei mancati momenti,
ma poi
bastava il tuo sguardo
e quel
tuo viso così dolcemente rotondo
di
giovane amante
di quei
tuoi figli venuti dal niente
da quel
tuo modo di vivere arrogante
verso
quell'uomo sposato per renderlo assente.
Ogni
volta che il sogno mi onora
del tuo
viso ancora
ho il
brivido dentro
mi
desto e penso,
al tuo
richiamo perso nel vento
al mio
essere spento
al mio
amore che brucia nel tempo.
Madre,
il tuo
viso è un groviglio di pagine
scritte
nelle notti dei tempi
dove
ragioni non servono
dove
tutto è irreale
dove
non serve essere per capire di essere
serve
solo l'amore per quei figli destinati a morire
commento
di
Cinzia Baldazzi
Più
di una volta mi càpita di ripensare ai lontanissimi giorni trascorsi
da figlia. Mi avvolge un sentimento dominante e generatore
dell’amore, o meglio l’amore dell’amore,
una sorta di valore aggiunto, non posseduto davvero se non nel
rimpianto di averlo smarrito. Ciononostante, mi trovo ancora immersa
nella coscienza di un incantesimo, appunto, eterno.
Lo
incrocio nel tentativo di uscire dalla nebbia accattivante dei giochi
linguistici, delle tracce dialettiche nelle pagine della letteratura
da me amata. Quasi che la gente e i poeti incontrati, con i loro
versi, tra una riga e l’altra, mi interrogassero innanzitutto sulla
bellezza di un volto di madre, apparizione vera o immaginaria. Magari
perché credono che la poesia sia in grado di far bruciare e
alimentare il fuoco del desiderio ancestrale, ineffabile, di
assolutezza a-priori e di verità concreta.
È
quanto accade a Otello Semiti nella poesia Il
tuo viso, mentre il volto materno, sognando,
lui lo carezza. Forse la ammira dall’alto, oppure appoggia un
braccio a lei, in un gesto di sostegno diffuso e fidato. Con la testa
piegata di lato, riesce a scorgerne la “sembianza” appena
affiorata.
Il
nostro poeta è sensibilissimo agli avvenimenti recenti, nella
società dilaniata da odio e violenza, da guerre fratricide. E
confessa:
Madre:
la
tua presenza mi rassicura
quella
fatiscente luce mi consola.
Spesso,
nel passato e anche di recente, ho avvicinato i versi di Otello alla
poetica di Giovanni Pascoli là dove parla del “fanciullino” che
è in noi. La vita del nostro grande letterato di inizi ‘900, come
sapete, è stata segnata dal ricordo atroce della morte del padre,
ucciso in un agguato mentre ritornava a casa. Pascoli lo ha
raccontato nella Cavallina storna.
E
la figura materna? Ebbene, la mamma pascoliana è più simile a una
sorella. Scrive:
come
non è che sera,
madre,
d'un solo dì?
Me
la miravo accanto
esile
sì, ma bella:
pallida
sì, ma tanto
giovane!
una sorella!
bionda
così com'era
quando
da noi partì
Torniamo
ora a Otello e alla poesia che abbiamo appena ascoltato, cioè Il
tuo viso. Quando rammentiamo l’esperienza
della scomparsa di qualcuno, nella disperazione non chiediamo di
vederne l’anima: piuttosto proviamo, all’ultimo, a fissarne gli
occhi, il volto, che rappresentano l’estrema fisionomia di una
persona. Così sarà più facile, di lì in poi, assimilarne e
costituirne la figura
tra gli alberi “sopravvissuti”, insieme alle sostanze naturali,
allo scorrere dei fiumi, a boschi e radure.
E
la luce, la luminosità di cui Semiti circonda la mamma, testimonia
che fu gioia spirituale di per sé, comunque liberata da un unico
sguardo, e non è concepibile possa morire con il corpo per essere
con esso sepolta. Le parole, per scelta, non sono idonee a rendere
l’impressione, il significato di un’esistenza resa dall’anima
al nostro involucro materiale, indifferentemente prima o dopo la
morte.
Ora
devo introdurre un poeta contemporaneo di Pascoli, ma assai distante
nello spazio. Mi riferisco a Tagore, illustre poeta indiano, anzi
bengalese, essendo originario della regione del Bengala.
“Come
in un sogno, l’amore viene con passi silenziosi”, sottolineava
Tagore. Nonostante ciò, suppongo che tale silenzio non obblighi a
tacere gli amorosi richiami materni, non li annulli, anzi penso che
conduca la sua musica in un sonno indulgente, protetta dal cielo
stellato. È confortato da un fondo di anelito al divino, si estende
alle creature di ogni terra, ai luoghi nei quali si vive e si è
vissuti. Riesce a colmare lo spirito di una rinascente illusione di
realtà divenuta irreale, essendo stata annientata.
Al risveglio, lo descrive bene Otello, riappaiono i pasti quotidiani, gli abiti, i compagni, i doveri, circostanze attive dall’alba alla notte seguente; oppure il buio e l’angoscia della malattia di un amico, di un congiunto e, di certo, le malefatte infantili, di tanto in tanto:
da
bambino raccoglievo le voci
di
sgridate veloci
di
pianti innocenti per quei mancati momenti.
In
casa e fuori, il gioco non è ozioso. Sull’erba, chissà,
rimuovendo un opprimente groppo dalla gola, non chiede parole,
piuttosto musica e rime, da associare all’andante
delle nenie ascoltate la sera da piccini.
Il
messaggio mormorava sempre più fievole, mentre il suono calava
ovunque. Nondimeno, scrive Otello
quel
tuo viso così dolcemente rotondo
di
giovane amante
di
quei tuoi figli venuti dal niente
era
trasformato pure in un mezzo per mostrarsi
arrogante
verso
quell'uomo sposato per renderlo assente.
Ho
nominato l’italiano Pascoli, il bengalese Tagore. Ora è la volta
di un francese contemporaneo, Jude Stefàn, il quale, nella raccolta
I cipressi, ha
celebrato e raccontato un’Estasi.
È il titolo del brano che potremmo utilizzare per conciliare, come
suggerisce Semiti, una soavità.
Scrive
Stefàn:
Se
neve cade sopra alberi solitari
oh
volto terso di neve di marzo
oh
guance di petali oh occhi accesi
oh
labbro d’ala oh capelli d’ombra
oh
bocca di sorriso oh carne
che
illumina (…) oh voi
he
calmate dalla dolce stretta di dita
al
busto sereno al grembo di perdono
seduto
di fronte a voi per toccare
premendo
la colomba del cuore .
Ho
citato Stefàn perché la sua visione materna è molto in sintonia
con il “viso così dolcemente rotondo” evocato da Semiti, simile
a quello di una “giovane amante”.
Otello
Semiti, però, prosegue in un’altra direzione. Dal linguaggio
metaforico emerge una simbologia polisensa, trapelata dalla memoria,
in un paesaggio di oscurità e colline aperte al sole: avanza
un’immagine familiare còlta in un incognito indistinto, tra
affetto, pietà e forza autorevole, onorando il suo destino con un
“brivido dentro” di nostalgia. Il sogno è sospeso, confessa
Otello, con
un
richiamo perso nel vento
al
mio essere spento
al
mio amore che brucia nel tempo
L’evocazione
ottenuta, però, non è simile a una fiamma esaurita di vita pallida:
al contrario, rinvia a uno sguardo “acceso”, con dei “capelli
d’ombra” sparsi insieme all’eco del “vento”.
Purtroppo, ogni annuncio viene disseminato nello spazio illimitato: tuttavia, per incanto, nell’intervallo dell’“essere spento”, insiste a “bruciare nel tempo” della continuità.
Nell’opera
Il tuo viso si svela,
dunque, una madre protagonista capace, nella forma e nei valori
espressi, di sprigionare coraggio, rimanendo in sé fragile. È una
presenza imperiosa e tenera, preziosa nella musicalità del testo, a
dispetto dell’intenso fremito d’addio, leitmotiv
dell’intero componimento. È ricco di spiritualità inquieta e
amara, di intime bontà, segnale e indizio di molteplici ansie
femminili. È il volto inerente a
un
groviglio di pagine
scritte
nelle notti dei tempi
dove
ragioni non servono.
Occorre,
io credo, vincere con l’emotività del “cuore”, evitando sfarzo
e trionfi. “Dove tutto è irreale”, non è affatto utile “es/sere
per capire di essere”. Lo sappiamo, per riuscire a decifrarne la
natura, e lo dico con le parole di Otello,
serve
solo l'amore per quei figli destinati a morire.
Ho
trovato una forte analogia tra i versi di Otello Semiti e quelli dei
grandi poeti Crepuscolari (un nome tra molti, Camillo Sbarbaro), qui
però rinnovati, nell’immediato, da una vasta pertinenza empirica
della morte, assai più robusta e matura di allora. L’energia
tipica della parola poetica di Otello, infatti, è sostenuta in un
movimento unitario, fiero avversario del potere della chiusura
estrema, del lutto eterno. Non in una tempesta di illusioni, bensì
in un’area dell’autocoscienza propria del chiarore della poesia.
Anche
se siamo condannati a morire, ecco la vita e l’anima,
nell’attualità e nel ricordo, pur essendo due differenti elementi,
nutrire saldi contatti che non saranno allentati, spezzati, preclusi.
Mai e poi mai.
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