Dopo
l'intervallo di un decennio, con Tante
piccole sedie rosse torna al romanzo la scrittrice
irlandese Edna O'Brien, originaria del villaggio di Tuamgraney sulla
costa atlantica e autrice del libro di successo Ragazze
di campagna. Qui di seguito la recensione del prof. Marco
Camerini.
Marco
CAMERINI - Tante piccole sedie rosse: i lupi, la Storia e la
speranza di Edna O’Brien.
Nello stile
nitido e nervoso, per la crudezza realistica e, insieme, il lirismo
struggente di contenuti percorsi da intima passionalità e tensione
etica, l’irlandese Edna O’Brien ricorda alcune autrici di cui ci
siamo occupati nelle nostre recensioni: Alice Munro, J.C. Oates,
finanche la Mansfield (fatte le debite proporzioni) e, più di tutte,
l’indimenticata Ágota Kristóf. Ribelle, anticonformista,
spregiudicata sul piano letterario e biografico, accenneremo appena –
la stessa O' Brien non ha mai amato identificarvisi del tutto – a
quel Ragazze di campagna
(1960) che suscitò scandalo nell’Irlanda cattolica consegnandola
al ruolo di autrice “politicamente scorretta” e icona femminista,
nonché versione femminile di D.H. Lawrence.
Tante
piccole sedie rosse (Einaudi, 2017) segna
il suo ritorno al romanzo dopo dieci anni, fra consensi unanimi e
autorevoli per i quali basta scorrere, un po’ intimiditi, la II e
IV di copertina, anche se ci permetteremo di rilevare che non tutto
brilla nel libro, sintesi certo intrigante della poetica della
scrittrice ma, forse, al di sotto delle attese tanto a livello di
costruzione narrativa che di potenzialità emozionale.
A Cloonoila
(anni ’90?), luogo di primitiva innocenza gelido e brumoso che «si
spaccia per cittadina irlandese», immerso nella natura (verbene,
rose canine, betulle, pervinca, felci… edera, ovviamente, ma
costante e simbolica la presenza di animali: scoiattoli rossi,
martore, falchi pellegrini, trote e salmoni; e la ricchezza di
riferimenti alla flora e alla fauna irlandese richiama, in una
prospettiva meno lirica, Ora che è novembre
di J. Johnson), sommerso da bugie, ipocrisie, livore, la vita scorre
lenta in cottage ordinati e pub simili a gironi infernali, fra
battute di caccia e pesca nei fiumi, messe in rustiche pievi
cattoliche, reading di
poesia mentre «pochi riescono ad alzare lo sguardo verso il cielo».
Evocato in
sogno da una donna irlandese – la Aisling di una locale leggenda –
o, forse, dalle pulsioni più inconfessabili di Dara il taverniere,
Désirée «pazza di desiderio», Mona la locandiera, il maestro
Diarmuid e i mille abitanti di Cloonoila, si materializza, annunciato
da sinistri eventi, un fascinoso straniero dagli occhi cangianti, la
voce sommessa, il lungo cappotto scuro e i guanti bianchi: di
provenienza ignota, figlio di «tante donne totemiche», iniziato dal
padre ai riti del sangue, sagace e colto («i celti avevano vissuto
nelle forre sulle Dolomiti o lungo la Drina…c’è un legame tra
l’Irlanda e i Balcani») si professa poeta – frequenta Yeats,
Virgilio, Ovidio… esule sul Mar Nero – filosofo («impossibile
riavere ciò che si è perso, Armonia o Dio […] siamo tutti uniti
nella legge cosmica del divino»…ortodosso, comunque,
giurisdizione di Antiochia), medico, sciamano «entrato nel roseto
del sapere» – esoterismo, oniromanzia, trance – sessuologo
(«eccitazione, perversione», il termine va bandito).
Passionale
e fuggiasco, un po' Rasputin e un po' Siddharta, il dott. Vladimir
Dragan – detto Vuk, il lupo, montenegrino… si parla – inizia a
esercitare l’attività di guaritore dell’anima prima che dei
corpi, di nevrosi represse oltre che di muscoli e tessuti: pari sono,
per lui, neuroscienze e fitoterapia (biancospino, cedro, tiglio,
tarassaco, valeriana per cuore, fegato e umore), medicina olistica e
stone terapy,
pranoterapia, tinture birmane/cinesi/indiane, forcipe e pendoli da
seduta spiritica. Mandragola, nemmeno a dirlo. “Il lupo” –
incarnazione, forse, di Quello cui chi legge sta pensando, con buona
pace di Santa Romana Chiesa e di tutti i padri Damien irlandesi –
soggioga le menti e intercetta lo spirito sensibile e profondo di
Fidelma, smaniosa e solitaria, cresciuta scrivendo versi e leggendo
Bernanos, Gide e la Dickinson accanto a un uomo/padre mai amato e
nell’insopprimibile desiderio di un figlio che arriverà (frutto di
incontri dove il mistero prevale sul sentimento) proprio grazie allo
Straniero.
E questo
nel momento in cui la Storia, che non si fa mai attendere nei libri
della O’Brien, irrompe tragicamente nell’intreccio (ri)aprendo a
sorpresa il plot narrativo con uno scarto brusco, marcato da una
raffinata tecnica stilistica che alterna narratore esterno
onnisciente (con ricorso al tempo presente, raro) e ottica interna di
Fidelma, oltre che di Jack, il marito. Come gli amati Törless,
Amleto o, più semplicemente, il Kurtz di Cuore
di tenebra, il «Dott. Vladimir Dragan detto
Vuk» nasconde un Hyde in fuga da crimini commessi e rimossi
(«Sarajevo? Mai stata assediata. Ero solo un patriota serbo»)
durante il conflitto in Bosnia del 1992/1996, quando l’Armata
Popolare Jugoslava e le forze serbo-bosniache del VRS perpetrarono un
sistematico genocidio delle comunità croate e musulmane, finalizzato
alla pulizia etnica e alla fondazione di una Repubblica Serba di
Bosnia-Erzegovina.
Il seme
dell’aberrazione vive nel ventre ignaro e incolpevole di Fidelma,
il ritmo del romanzo diviene concitato e noi azzardiamo l’ipotesi
che dietro il personaggio fittizio si celi il riferimento ad una
figura effettivamente esistita: magari Veselin Vlahovic, il “mostro
di Grbavica” (i nomi sono fortemente consonanti), paramilitare
serbo-bosniaco condannato a 45 anni dal Tribunale dei Diritti Umani
o, più probabilmente, Radovan Karadzic, medico montenegrino leader
dei Serbi di Bosnia, condannato a 40 anni dal Tribunale dell’Aja
nel 1995 per il massacro di Srebrenica e arrestato nel 2008 a
Belgrado, dove viveva impartendo lezioni di medicina alternativa con
l’aspetto di un santone…più di qualche coincidenza fra realtà e
letteratura.
La seconda
parte, di fatto un racconto autonomo che si integra a fatica con la
prima, è ambientata in una Londra notturna, piovosa, torva, con i
suoi abitanti «fradici e ciechi», i ristoranti asiatici e i take
away multietnici, l’Africa che soffre e
l’Africa che ce l’ha fatta, grattacieli di vetro e una Torre
«scomposta e rossiccia con storie di principini fatti fuori» ma,
soprattutto, vicende di sofferenza e (mancata) integrazione nei
centri di accoglienza e negli uffici di collocamento dove «gli
spaventati, gli spiritati, i violentati, gli sconfitti, i mutilati,
gli esiliati» giunti dal Mozambico, dal Senegal, dalla Bosnia,
«arrancano su per le scale» e si confessano in sedute di gruppo
durante le quali ci si disintossica dalla solitudine, dalla violenza
subita, dall’ossessione di madri lasciate, fidanzati rissosi,
matrimoni solo sognati più che dall’alcol bevuto.
«Ogni
giorno non sappiamo cosa aspettarci. Padre. Madre. Fratello. Sorella.
Embrioni perduti» confessa Fidelma che, dopo la precarietà e il
disadattamento, nel tentativo coraggioso di dimenticare, tenterà di
(ri)entrare nella vita (non certo nella morte, come l’Imperatore)
«ad occhi aperti» (p. 210!) consapevole, in questo vero alter ego
della scrittrice, che «tutto è politica: il pane che mangi, l’acqua
che bevi, il materasso su cui ti stendi, la guerra, la pace» e, alla
fine, fiduciosa che lo spirito di accoglienza (quanto attuale oggi
questo messaggio) non rimarrà un sogno, come quello shakespeariano
“di mezza estate” interpretato dai rifugiati.
Concludiamo
soffermandoci su di un altro aspetto del libro non del tutto
convincente, per il quale ricorriamo al paragone con il romanzo di
Tom Drury La fine dei vandalismi recentemente
segnalato. Lì compaiono molti personaggi, assai poco o per nulla
descritti ma capaci di rimanere impressi; in Tante
piccole sedie rosse – il titolo ha una sua
spiegazione storica – altrettanti tipi umani (i dipendenti del
Country Hotel, gli abitanti di Cloonoila, i richiedenti asilo e gli
immigrati londinesi) vengono accuratamente delineati ma poi, lasciati
narratologicamente a se stessi (con l’eccezione dei due
protagonisti), non riescono a conseguire esiti letterari autonomi e,
d’altra parte, non interagiscono efficacemente fra loro, finendo
con il rimanere una serie di ritratti giustapposti troppo
meccanicamente. Insomma, come autore corale meglio l’americano
dell’irlandese.
Edna O'Brien
Tante
piccole sedie rosse
traduzione
di Giovanna Granato
Torino,
Einaudi, 2017, pp. 304, € 18,00
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