sabato 29 dicembre 2018


Marco CAMERINI - In memoria di Amos Oz

 
 

“È  scomparso uno scrittore straordinario, voce unica della Letteratura israeliana insieme a Abraham Yehoshua. A poche ore dalla morte, vogliamo ricordarlo con la recensione di Giuda, il suo libro forse più bello”. (m.c.)

 
“Tante persone sono oggi furiose con i musulmani. Non dobbiamo però dimenticare che quanto è successo a Parigi ha prima di tutto a che fare con i fanatici e non con i musulmani. Nel mondo islamico persiste un forte sentimento di frustrazione, rabbia, un profondo senso di sconfitta e umiliazione. Solo i musulmani potrebbero e dovrebbero provare a confrontarsi con questi sentimenti e cercare di guarirli”.
Queste parole, tratte da un’intervista rilasciata al “Corriere della Sera” l’11 gennaio 2014 da Amos Oz, appaiono quanto mai opportune per iniziare a parlare di Giuda (Feltrinelli, 2014): un bellissimo romanzo – bastava molto poco perché lo definissimo il suo più suggestivo e profondo…chiariremo quel “poco” – che nei drammatici fatti di Parigi ha trovato un motivo in più per essere letto ed apprezzato. Semplicemente, l’ideologia che lo sostiene, le motivazioni letterarie che alimentano l’intreccio riflettono la posizione degli intellettuali israeliani più moderati ed equilibrati (Yehoshua fra tutti, si rilegga L’amante) di fronte all’integralismo armato jihaidista.
Sullo sfondo di una Gerusalemme umida e polverosa, densa di profumi speziati e intriganti, per lo più notturna ma improvvisamente illuminata da albe sul Sinai e rinfrescata da brezze terse e rigide (una presenza pulsante del libro, magnificamente descritta) si incontrano, nel 1959, i destini misteriosi del colto Gershom Wald, dell’affascinante nuora Atalia e del timido studente Shemuel Asch, che ha interrotto i promettenti studi universitari ferito nei suoi sogni politici ed affettivi, lontano da una famiglia in dissesto e alla ricerca di un momentaneo impiego. Lo troverà assistendo Wald, in una casa dove si aggirano i fantasmi drammatici di un passato che lega disperatamente l’anziano alla sfuggente donna e ha il volto di due straordinari “protagonisti in assenza” (per ricorrere ad una definizione narratologica) che non cessano un attimo di tormentare i vivi, incapaci a tratti di considerarsi tali: Micah, il marito di Atalia e figlio del vecchio (precocemente morto nel conflitto arabo-israeliano del ’48) e Shaltiel Abrabanel, padre di Atalia.
Il “muezzin” che, nel pieno della guerra d’Indipendenza del ‘47-‘48 – fermamente convinto che la decisione di fondare uno stato ebraico senza l’avvio di un dialogo costruttivo con i Palestinesi fosse uno sbaglio – lascia il Comitato sionista, in disaccordo con “il sognatore Ben-Gurion, il pifferaio magico che ha condotto tutti al massacro. Al macello. Alla cacciata. All’odio eterno fra due comunità”. E sarà quest’ultimo, “ateo, come tutti i socialisti sionisti”, presidente sino al ‘48 dell’Agenzia ebraica – governo ombra degli ebrei residenti in Palestina sotto il mandato britannico – il promotore vincente, sino al 1963, della politica israeliana e delle sue aperture alle potenze occidentali anti-arabe.
Il delicatissimo conflitto lascia, grazie alla sapienza narrativa di Oz, il macrocosmo della Storia per riprodursi nel microcosmo, a tratti claustrofobico, di silenzi carichi di rancore, di stanze assorte dove un genitore e una moglie vivono accanto in nome dell’amore per la medesima persona, più forte, alla fine, delle convinzioni culturali e politiche dell’ebreo Wald e della “figlia dell’Arabo” Atalia, che sulle alture di Gerusalemme ha perso l’uomo della sua vita, prima che constatare il fallimento, nell’ignominia, delle idee di un padre (inconsciamente) amato.
 
 
Chi è il traditore? Che significa tradire? Perché è questo il tratto che salda, in Giuda, la dimensione storico-politica a quella religiosa. “Chi è pronto al cambiamento, chi ha il coraggio di cambiare, viene sempre considerato un traditore da coloro che non sono capaci di nessun cambiamento” sostiene Shemuel, parlando dei suoi studi su Giuda: il colto e intelligente possidente della città di Keriot – unico fra gli apostoli a non essere originario della Galilea – inviato dalla casta ortodossa gerosolimitana per infiltrarsi fra i seguaci del Nazareno, ne diviene il più fervente discepolo, strumento consapevole di un tradimento necessario, maturato non certo per l’insignificante compenso di trenta denari (la paga mensile di un suo salariato) ma per la sopravvenuta, esaltante fiducia in un progetto di redenzione universale dell’uomo.
Ed è in nome di questo che incoraggia e sostiene “il vero e unico figlio di Dio”, Gesù, “nato e morto ebreo”, fedele alla Torah, certamente riformatore “fondamentalista” e fautore del ritorno a un ebraismo primitivo, depurato dalle ridondanze spirituali di Farisei e Sadducei, secondo l’ipotesi della tesi di laurea mai conclusa e suggestivamente maturata sulla scorta di una bibliografia che va da Giuseppe Flavio a Yehuda Halevi, da Maimonide a Nahmanide (è il terzo tradimento, quello del talentuoso studente avviato alla carriera universitaria nei confronti dei suoi professori e della famiglia).
Giuda come Abrabanel, allora, traditori per la Storia – contingente e soprannaturale – banditi dal consesso umano dei Templi e delle Convenzioni internazionali da una damnatio memoriae che l’ambizioso libro di Oz sembra voler interrompere nel nome della tolleranza, sola capace di riavviare il confronto fra Ebrei e Cristiani (“Fintanto che da loro ogni bambino continuerà a succhiare con il latte della madre il fatto che esistono delle creature che hanno assassinato Dio non conosceremo pace” confessa Wald), Arabi ed Israeliani, il presente angoscioso dei personaggi e un trascorso di rimorsi e rimpianti con il quale la partita è aperta.
È nelle corde dell’autore e (probabilmente) non poteva mancare la componente sentimentale, che egli ha saputo sempre affrontare con miracolosa abilità, sondando i meandri più intimi della passionalità, particolarmente all’interno dei rapporti di coppia: stavolta – forse perché sovrastata dalle tematiche cui abbiamo accennato – ci sembra l’anello debole del tutto. Sarà la doverosa speranza che uno dei massimi scrittori contemporanei ci regali una storia ancora migliore o altro, comunque proprio la vicenda d’amore, nella sua prevedibilità, lascia delusi…nessuna “scatola nera”, tutto è abbastanza chiaro sin dalle prime pagine, come sempre formalmente ipnotiche e raffinate, nell’apparente semplicità strutturale di dialoghi e descrizioni.
Certamente Amos Oz sa “narrare” e il monologo di Giuda (cap. 47) insieme alle sorprendenti pagine 209-213, sulle quali non sveliamo volutamente nulla, ne sono un nitido esempio che non mancherà di emozionare il lettore.


 

 

lunedì 24 dicembre 2018


 

Enrico GRAGLIA – Presepe vivente (racconto breve) 

 



Quando la luce fu spenta e la porta chiusa, dalla stella cometa sopra la capanna si staccarono alcuni brillantini. Prima che toccassero terra, dopo aver volteggiato nell’aria come minuscoli fiocchi di neve, una leggera luminescenza si diffuse tutto intorno. Veniva dai brillantini ancora attaccati al robusto cartone della stella cometa e dalle piccole stelle disegnate sullo sfondo del presepe. 

L’angelo appeso sulla capanna spiegò le ali, stiracchiandosi e sbadigliando. La donna vicino al pozzo appoggiò a terra l’anfora rossa, che teneva su una spalla da ore. La vecchina che filava tossì leggermente per un prurito alla gola a cui aveva faticato a resistere. La ragazza che lavava i panni posò il sapone e si sciacquò le mani nella bacinella d’acqua. Il vasaio riprese a modellare la creta, ormai quasi secca, e il caldarrostaio riattizzò il suo focherello spento. L’acqua della fontana scorreva e il toro ricominciò a berla avidamente; poco più in là, il contadino si tergeva il sudore dalla fronte con la manica del vestito. La gallina saltò giù dal suo trespolo nella capanna e iniziò a razzolare nei dintorni, mentre il bue e l’asinello si contendevano la paglia nella mangiatoia. Ancora lontani, i tre Re magi posarono i loro doni e si sedettero sotto due grosse palme di plastica. Vicino allo sfondo una pecorella gemette: era caduta su un fianco e si stava tirando su da sola, visto che nessuno si era accorto di lei. Per ultimo, il bambino nella culla si mosse ed iniziò a piangere. Giuseppe lo avvolse nel mantello e lo diede a Maria, che iniziò ad allattarlo. Non mangiava da troppo tempo e aveva fame.

«Scusa.», disse il pescivendolo alla donna vicino al pozzo. «Mi dai un goccio d’acqua, per favore? Sto morendo di sete.»

«Ecco qui.», rispose lei con un sorriso, porgendogli l’anfora. «Ma non svuotarla, che se poi il bambino ha sete non ho più niente da dargli. Nel pozzo non è rimasta quasi più acqua.»

Il pescivendolo mandò giù un sorso e le restituì l’anfora.

«Eh, sì.», ammise. «Quest’anno non ha piovuto molto.»

«Proprio per niente.», si lamentò un pastorello. Portava sulle spalle una pecorella così magra che faceva pena a guardarla. E, come tutti i pastori, aveva una giacchetta di lana di pecora, pantaloni ruvidi, un cappello floscio in testa e scarpe robuste ai piedi.

«L’erba è secca.», aggiunse. «Non so che dare da mangiare a queste povere bestie.»

«Una volta era diverso.», asserì il pescivendolo. Era un ragazzetto che ne stava tutto il giorno con in braccio una cesta piena di trote e una mano alla bocca, per decantare le qualità del pesce che vendeva ai passanti. Aveva addosso solo un paio di pantaloni blu, stretti in via da una fascia bianca, e una casacchetta rossa, aperta sul petto scarno. Si vedeva che era povero, ma aveva occhi azzurri e riccioli d’oro che alla donna vicino al pozzo piacevano molto. Lei aveva la pelle scura: si vedeva che era straniera. Era molto bella, con dei lunghi capelli neri e una veste color del cielo all’imbrunire, su cui erano ricamate piccole stelle bianche. Portava dei sandali di legno intarsiati che sembravano robusti, ma che usava poco: di solito restava immobile, appoggiata al pozzo ad ascoltare le chiacchiere del suo pescivendolo e dei due o tre pastorelli che si trovavano nelle vicinanze. Solo raramente Maria la chiamava e allora lei andava con la sua anfora rossa fino alla capanna, per portare acqua fresca al bambino.

«Sembra che ci sia meno spazio!», mormorò il pescivendolo.

«Sicuro, che c’è meno spazio.», annuì il pastorello.

«Proprio così.», gli fece eco un pastore più anziano. «Ogni anno ce n’è di meno. Se andiamo avanti così, non so come finirà. Voi siete giovani e non potete saperlo, ma una volta non finiva tutto lì.»

Così dicendo, indicò con un gesto vago il punto in cui lo sfondo era tagliato e non c’era altro che il legno scuro del mobile su cui era stato disposto il presepe quell’anno.

«Ah, no?», fece finta di stupirsi il pescivendolo, che moriva dalla voglia di sentir parlare ancora una volta il vecchio dei bei tempi andati. «E che cosa c’era, invece?»

C’era una collina, che saliva e saliva, fin quasi a toccare il cielo. E su di essa delle case. E una chiesetta. E poi pastori e pecore, molte più di adesso, e un fiume che scendeva dalla collina e arrivava fin dietro la capanna. E c’era anche tutta un’altra luce. Le stelle erano più luminose, più vive. E la capanna era illuminata a giorno da una grande sole posto ad occidente. A quei tempi, l’angelo e la cometa risplendevano da far male agli occhi. E lo sfondo era più grande, si estendeva in là... e c’era più vegetazione, anche qui, sotto i nostri piedi. Un sacco di muschio. C’erano anche un suonatore di liuto e un altro che suonava un lungo strumento nero, seduto su un tronco d’albero tagliato. E cammelli. Ho visto persino un elefante, una volta.

«E dove sono finiti tutti quanti?», chiese il pastorello.

«Un anno, Loro non li hanno imballati con noi, ma avvolti in bende di carta igienica e poi sistemati in un vecchio fustino di detersivo vuoto. Non so dove li abbiano portati. Non lo sa nessuno.»

«Ma perché ora le cose stanno così?»

«Eh... è passato del tempo. E il Figlio è cresciuto. Ero uno dei Suoi preferiti, sapete? Ma ora è diverso. Non bada più molto a noi, e così il Padre ha deciso di limitare lo spazio e di togliere la collina e le luci e la Madre ha smesso di attaccare i brillantini alla stella cometa, così è divenuta tutta opaca.»

«Peccato.», commentò il pescivendolo.

Per qualche attimo restarono in silenzio, come per riflettere su ciò che avevano perso. Intanto, uno dei Re magi si avvicinava alla capanna, inchinandosi rispettosamente davanti al bambino, che dormiva tra le braccia di Maria.

«Giuseppe.», sussurrò.

«Sì, Melchiorre?»

«Senti, Giuseppe.... anche quest’anno ci tocca portare sempre gli stessi doni.», spiegò, bisbigliando. «Il bambino sarà stufo: non c’è più sorpresa, quando apre i pacchetti. E poi, che se ne fa di oro, incenso e mirra?»

«La tradizione, Melchiorre.», disse Giuseppe, che aveva una pazienza infinita. «La tradizione è importante. Non si può andare contro la tradizione. Vorrebbe dire cambiare tutto, mettere tutto in discussione. Stravolgere, travisare.»

«Sì, però noi pensavamo una cosa.»

«Che cosa?»

«Pensavamo di cantare.»

«Cantare?»

«Senza farci sentire da Loro, naturalmente. Abbiamo già pensato a tutto. Appena se ne vanno a dormire, noi attacchiamo con il pezzo. Giusto per fare divertire un po’ il bambino, così non ci resta troppo male. Eh? Che ne dici? Pensavamo a qualcosa tipo il Gloria, ma fatto bello allegro. Non so, un gospel. Sentissi Baldassarre, che voce da baritono che ha! Eh, che ne pensi? Va bene?»

«Ma sì.», disse Giuseppe, un po’ imbarazzato. «Magari potete farvi accompagnare dall’angelo.»

«Oh, ma certo! Quello ha una voce!», sussurrò il Re magio per non farsi sentire dall’interessato, che penzolava poco al di sopra della sua testa. «Poi magari ci mettiamo d’accordo. Grazie, Giuseppe!»

E Giuseppe sorrise, lasciando che Melchiorre tornasse dai suoi due amici. Era sicuro che avrebbero provato per tutta la notte. Erano veramente cortesi, anche se un po’ stravaganti. Trovava esotici quei vestiti colorati, i turbanti e le scarpe a punta. Stava ancora sorridendo tra sé, quando si avvicinò a Maria e le diede un lieve bacio sulla fronte: si stava per assopire anche lei, insieme al bambino. Come sempre, era stata una giornata dura. Ferma in quella posa, a metà tra tenerezza e adorazione, il tempo sembrava non passare mai: la capiva perfettamente. Lui almeno poteva appoggiarsi al bastone di legno di cedro, ogni tanto. Soprapensiero, si avvicinò alla mangiatoia e sporse un po’ di fieno al bue e all’asinello.

Sopra di lui, l’angelo guardava il panorama che si godeva dal ripiano del mobile su cui Loro li avevano messi. Gli piaceva quel salotto, col tavolino basso, i due divani e la libreria. Quella era una bella casa, una Famiglia tranquilla, senza Figli piccoli che potevano farlo cadere in qualsiasi momento sulle piastrelle del pavimento, dove si sarebbe sbriciolato in mille pezzi. E la fascia che teneva tra le mani, su cui stava scritto in elaborate lettere dorate GLORIA IN EXCELSIS DEO, era di seta finissima.

Sì, pensò, nella sua lingua antichissima lingua, qui si sta bene. Certo, è dura dover stare immobili per tutto il giorno, ma almeno non c’è pericolo che...

In quel momento, il caldarrostaio si ustionò leggermente una mano ed urlò con quanto fiato aveva in gola.

«Zitto!», lo redarguì con un sibilo la vecchina che filava e lui si tappò la bocca con la mano sana.

Il bambino si mosse in braccio a Maria, aprì gli occhi per un attimo e poi li richiuse subito, tornando a dormire. Al pescivendolo per lo spavento cadde il cesto con le trote e si chinò a raccoglierle tra l’erba finta. Il vasaio fece un movimento brusco e la creta si sformò completamente. Il cane lupo di uno dei pastori abbaiò un paio di volte.

Nessuno ebbe tempo di contare fino a tre, che si aprì la porta. Tutti si bloccarono nella posizione in cui erano, irrigiditi dal terrore: forse uno di Loro li aveva sentiti. Non erano ai loro posti, ma era meglio restare fermi che farsi sorprendere in movimento; così rimasero immobili, trattenendo il fiato.

Attendevano con ansia che venisse accesa la luce, ma era soltanto il Padre che andava in bagno. Accadeva sempre più spesso e i Re magi sostenevano, sulla base degli studi compiuti, che fosse normale, perché i Loro bisogni notturni aumentavano con l’età. Per fortuna, però, il Padre non accendeva mai la luce quando si spostava per la casa di notte; probabilmente lo faceva per non disturbare il sonno della Madre, di cui in quel momento arrivava alle loro orecchie tese il russare leggero.

Tutti tirarono un sospiro di sollievo: era già capitato che rischiassero di farsi scoprire, ma quella volta ci erano andati veramente vicini. Troppo vicini, secondo Giuseppe.

«Tornate ai vostri posti!», ordinò; aveva perso la sua proverbiale pazienza. «E per stanotte non muovetevi più, va bene? E che non si ripeta!»

Nessuno ebbe il coraggio di fiatare.




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Una volta, pare che il celebre Fernando Botero abbia affermato:

Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste… Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande… E con voi, il mondo diventa più fantasioso, più colorato… Ma non cambia mai!»

Forse, anche l’originale pittore e scultore colombiano sembra aver incontrato una sorta di “presepe vivente” (“anime belle”, “persone oneste”), come avete scoperto nel racconto di Enrico Graglia: «l’angelo appeso sulla capanna» spiegare «le ali», una vecchia tossire, una ragazza sciacquarsi le mani, insomma, il popolo del paesaggio interagire con una fenomenologia di vita consona alla nostra. Rammento il componimento di Salvatore Quasimodo apprezzato da studentessa, dedicato al presepe, dove nella pace della finzione, del silenzio, scolpite nel legno, emergevano figure ma, all’improvviso, «ecco i vecchi / del villaggio e la stalla che / risplende / e l’asinello di colore azzurro». Reale o apparente? Nelle poetiche in versi e in prosa, un’eterogeneità del genere non possiede effettiva pertinenza. Scriveva Wolfgang Goethe:

È questo il momento d'accennare a un'altra costumanza popolarissima fra i napoletani: si tratta dei presepi, che si vedono in tutte le chiese durante le feste di Natale e che rappresentano l'adorazione dei pastori, degli angeli e dei re, in gruppi più o meno completi di figurine abbigliate riccamente e vistosamente. Fin sui tetti a terrazza dell'allegra città si allestisce questa esibizione; entro una leggera impalcatura a forma di capanna, ornata di piante e d'arbusti sempreverdi, si collocano la Vergine, il Bambino e tutti gli altri partecipanti, posati a terra o svolazzanti nell'aria, in splendide vesti, per le quali i padroni di casa spendono grosse somme. Ma un tocco d'inarrivabile bellezza all'insieme è dato dallo sfondo che raffigura il Vesuvio con i paesi circostanti.

Dunque, per il grande poeta e pensatore tedesco, «l'adorazione dei pastori, degli angeli e dei re» coesisteva in misura perfetta con l’icona del vulcano, nonché con il fascino del circondario. Nel brano di Graglia, però, leggiamo:

“Una volta era diverso”, asserì il pescivendolo. Era un ragazzetto che se ne stava tutto il giorno con in braccio una cesta piena di trote e una mano alla bocca, per decantare le qualità del pesce che vendeva ai passanti. Aveva addosso solo un paio di pantaloni blu, stretti in vita da una fascia bianca, e una casacchetta rossa, aperta sul petto scarno. Si vedeva che era povero, ma aveva occhi azzurri e riccioli d’oro che alla donna vicino al pozzo piacevano molto. Lei aveva la pelle scura: si vedeva che era straniera.

Pertanto:

Solo raramente Maria la chiamava e allora lei andava con la sua anfora rossa fino alla capanna, per portare acqua fresca al bambino.

Cos’è accaduto? L’area disponibile era diminuita; infatti, sostiene un pastore esperto:

“Ogni anno ce n’è di meno. Se andiamo avanti così, non so come finirà. Voi siete giovani e non potete saperlo, ma una volta non finiva tutto lì”.

La parola latina praesaepe indica “mangiatoia”, la quale costituisce il centro delle cultualità, delle rappresentazioni natalizie, con Maria, Giuseppe e il “pargoletto” scaldato dall'asinello insieme al bue. L’oggetto quasi rituale risulta legato a Francesco d’Assisi, quando scelse di illustrare in chiave realistica (ossia vera, verosimile, non falsa o ingabbiata di simboli) la Nascita del Bambinello a beneficio dei cristiani, in specie dell’ingente numero di essi accomunati da analfabetismo e, quindi, impossibilitati ad accedere al Nuovo Testamento, in particolare nei tratti relativi a quella solenne tappa della storia. La Basilica di Santo Stefano a Bologna ne conserva un prototipo analogo, risalente al 1223.

Nell’epoca attuale, dopo secoli e secoli, il presepe, continuando a vivere, si confronta con significati che appaiono estranei al suo antico, nondimeno universale, modo di concepire le cause, gli effetti:

“Eh... è passato del tempo. E il Figlio è cresciuto. Ero uno dei Suoi preferiti, sapete? Ma ora è diverso. Non bada più molto a noi, e così il Padre ha deciso di limitare lo spazio e di togliere la collina e le luci e la Madre ha smesso di attaccare i brillantini alla stella cometa, così è divenuta tutta opaca”.

La scrittrice italiana Benedetta Cibrario, nel romanzo Lo Scurnuso (2010), dichiara con certezza:

E immaginerete anche voi che molte di queste fisionomie sono reali. Queste sono le facce di duecento anni fa. Guardate questo storpio con le mani e i piedi bendati, potete immaginare che non abbia mai vissuto?».

Commuove il nostro Graglia, nel consigliare ai personaggi il ricordo di vecchie consuetudini casalinghe:

C’era una collina, che saliva e saliva, fin quasi a toccare il cielo. E su di essa delle case. E una chiesetta. E poi pastori e pecore, molte più di adesso, e un fiume che scendeva dalla collina e arrivava fin dietro la capanna. E c’era anche tutta un’altra luce. Le stelle erano più luminose, più vive. E la capanna era illuminata a giorno da un grande sole posto ad occidente. A quei tempi, l’angelo e la cometa risplendevano da far male agli occhi».

Da bambina, illuminata da quella luce, contemplavo il piccolo Gesù, la Cometa, i rivoli d’acqua con una lavandaia intenta al bucato, il ritmo cadenzato del martello del fabbro. In seguito, ormai adulta, non avendo, chissà, letto pagine come in questa novella, uniformata al resto mi sono distratta: ricorrendo alle parole stesse della voce narrante di Graglia, «stufata» di ricevere sempre gli stessi doni dai re Magi. Allora, ho imballato «in bende di carta igienica» le statuine del presepe paterno, credendo mio figlio vedesse, in tale allestimento, solo un’ulteriore «commedia infantile»: non rendendomi conto - lo precisa il filosofo Emanuele Samek Lodovici - «di quale enorme difesa di fronte alla stanchezza della vita, alle abitudini, ai tedi, alle fatiche, la mancanza di essa privi il bambino, e col bambino l'uomo».

Per fortuna, nel corso degli anni, coltivando rispetto per il Santo Evento, maturavo l’auspicio di qualche “sorpresa”, forse «qualcosa tipo il Gloria, ma fatto bello allegro. Non so, un gospel». E poi, Giuseppe a chiedere imbarazzato: «Magari potete farvi accompagnare dall’angelo».

Buon Natale a tutti, e grazie a Enrico Graglia per aver di nuovo permesso, con il racconto, a ciascun personaggio di cantare per noi, ascoltandoli prima che, fatalmente, nessuno abbia più «il coraggio di fiatare». (c.b.)