Quando la luce fu
spenta e la porta chiusa, dalla stella cometa sopra la capanna si staccarono
alcuni brillantini. Prima che toccassero terra, dopo aver volteggiato nell’aria
come minuscoli fiocchi di neve, una leggera luminescenza si diffuse tutto
intorno. Veniva dai brillantini ancora attaccati al robusto cartone della
stella cometa e dalle piccole stelle disegnate sullo sfondo del presepe.
L’angelo appeso
sulla capanna spiegò le ali, stiracchiandosi e sbadigliando. La donna vicino al
pozzo appoggiò a terra l’anfora rossa, che teneva su una spalla da ore. La
vecchina che filava tossì leggermente per un prurito alla gola a cui aveva
faticato a resistere. La ragazza che lavava i panni posò il sapone e si
sciacquò le mani nella bacinella d’acqua. Il vasaio riprese a modellare la creta,
ormai quasi secca, e il caldarrostaio riattizzò il suo focherello spento.
L’acqua della fontana scorreva e il toro ricominciò a berla avidamente; poco
più in là, il contadino si tergeva il sudore dalla fronte con la manica del
vestito. La gallina saltò giù dal suo trespolo nella capanna e iniziò a
razzolare nei dintorni, mentre il bue e l’asinello si contendevano la paglia
nella mangiatoia. Ancora lontani, i tre Re magi posarono i loro doni e si
sedettero sotto due grosse palme di plastica. Vicino allo sfondo una pecorella
gemette: era caduta su un fianco e si stava tirando su da sola, visto che
nessuno si era accorto di lei. Per ultimo, il bambino nella culla si mosse ed
iniziò a piangere. Giuseppe lo avvolse nel mantello e lo diede a Maria, che
iniziò ad allattarlo. Non mangiava da troppo tempo e aveva fame.
«Scusa.», disse il
pescivendolo alla donna vicino al pozzo. «Mi dai un goccio d’acqua, per favore?
Sto morendo di sete.»
«Ecco qui.», rispose
lei con un sorriso, porgendogli l’anfora. «Ma non svuotarla, che se poi il
bambino ha sete non ho più niente da dargli. Nel pozzo non è rimasta quasi più
acqua.»
Il pescivendolo
mandò giù un sorso e le restituì l’anfora.
«Eh, sì.», ammise.
«Quest’anno non ha piovuto molto.»
«Proprio per
niente.», si lamentò un pastorello. Portava sulle spalle una pecorella così
magra che faceva pena a guardarla. E, come tutti i pastori, aveva una
giacchetta di lana di pecora, pantaloni ruvidi, un cappello floscio in testa e
scarpe robuste ai piedi.
«L’erba è secca.»,
aggiunse. «Non so che dare da mangiare a queste povere bestie.»
«Una volta era
diverso.», asserì il pescivendolo. Era un ragazzetto che ne stava tutto il
giorno con in braccio una cesta piena di trote e una mano alla bocca, per
decantare le qualità del pesce che vendeva ai passanti. Aveva addosso solo un
paio di pantaloni blu, stretti in via da una fascia bianca, e una casacchetta
rossa, aperta sul petto scarno. Si vedeva che era povero, ma aveva occhi
azzurri e riccioli d’oro che alla donna vicino al pozzo piacevano molto. Lei
aveva la pelle scura: si vedeva che era straniera. Era molto bella, con dei
lunghi capelli neri e una veste color del cielo all’imbrunire, su cui erano
ricamate piccole stelle bianche. Portava dei sandali di legno intarsiati che
sembravano robusti, ma che usava poco: di solito restava immobile, appoggiata
al pozzo ad ascoltare le chiacchiere del suo pescivendolo e dei due o tre
pastorelli che si trovavano nelle vicinanze. Solo raramente Maria la chiamava e
allora lei andava con la sua anfora rossa fino alla capanna, per portare acqua
fresca al bambino.
«Sembra che ci sia
meno spazio!», mormorò il pescivendolo.
«Sicuro, che c’è
meno spazio.», annuì il pastorello.
«Proprio così.», gli
fece eco un pastore più anziano. «Ogni anno ce n’è di meno. Se andiamo avanti
così, non so come finirà. Voi siete giovani e non potete saperlo, ma una volta
non finiva tutto lì.»
Così dicendo, indicò
con un gesto vago il punto in cui lo sfondo era tagliato e non c’era altro che
il legno scuro del mobile su cui era stato disposto il presepe quell’anno.
«Ah, no?», fece
finta di stupirsi il pescivendolo, che moriva dalla voglia di sentir parlare
ancora una volta il vecchio dei bei tempi andati. «E che cosa c’era, invece?»
C’era una collina,
che saliva e saliva, fin quasi a toccare il cielo. E su di essa delle case. E
una chiesetta. E poi pastori e pecore, molte più di adesso, e un fiume che
scendeva dalla collina e arrivava fin dietro la capanna. E c’era anche tutta
un’altra luce. Le stelle erano più luminose, più vive. E la capanna era
illuminata a giorno da una grande sole posto ad occidente. A quei tempi,
l’angelo e la cometa risplendevano da far male agli occhi. E lo sfondo era più
grande, si estendeva in là... e c’era più vegetazione, anche qui, sotto i nostri
piedi. Un sacco di muschio. C’erano anche un suonatore di liuto e un altro che
suonava un lungo strumento nero, seduto su un tronco d’albero tagliato. E
cammelli. Ho visto persino un elefante, una volta.
«E dove sono finiti
tutti quanti?», chiese il pastorello.
«Un anno, Loro non
li hanno imballati con noi, ma avvolti in bende di carta igienica e poi
sistemati in un vecchio fustino di detersivo vuoto. Non so dove li abbiano
portati. Non lo sa nessuno.»
«Ma perché ora le
cose stanno così?»
«Eh... è passato del
tempo. E il Figlio è cresciuto. Ero uno dei Suoi preferiti, sapete? Ma ora è
diverso. Non bada più molto a noi, e così il Padre ha deciso di limitare lo
spazio e di togliere la collina e le luci e la Madre ha smesso di attaccare i
brillantini alla stella cometa, così è divenuta tutta opaca.»
«Peccato.», commentò
il pescivendolo.
Per qualche attimo
restarono in silenzio, come per riflettere su ciò che avevano perso. Intanto,
uno dei Re magi si avvicinava alla capanna, inchinandosi rispettosamente davanti
al bambino, che dormiva tra le braccia di Maria.
«Giuseppe.»,
sussurrò.
«Sì, Melchiorre?»
«Senti, Giuseppe....
anche quest’anno ci tocca portare sempre gli stessi doni.», spiegò,
bisbigliando. «Il bambino sarà stufo: non c’è più sorpresa, quando apre i
pacchetti. E poi, che se ne fa di oro, incenso e mirra?»
«La tradizione,
Melchiorre.», disse Giuseppe, che aveva una pazienza infinita. «La tradizione è
importante. Non si può andare contro la tradizione. Vorrebbe dire cambiare
tutto, mettere tutto in discussione. Stravolgere, travisare.»
«Sì, però noi
pensavamo una cosa.»
«Che cosa?»
«Pensavamo di
cantare.»
«Cantare?»
«Senza farci sentire
da Loro, naturalmente. Abbiamo già pensato a tutto. Appena se ne vanno a
dormire, noi attacchiamo con il pezzo. Giusto per fare divertire un po’ il
bambino, così non ci resta troppo male. Eh? Che ne dici? Pensavamo a qualcosa
tipo il Gloria, ma fatto bello
allegro. Non so, un gospel. Sentissi Baldassarre, che voce da baritono che ha!
Eh, che ne pensi? Va bene?»
«Ma sì.», disse
Giuseppe, un po’ imbarazzato. «Magari potete farvi accompagnare dall’angelo.»
«Oh, ma certo!
Quello ha una voce!», sussurrò il Re magio per non farsi sentire
dall’interessato, che penzolava poco al di sopra della sua testa. «Poi magari
ci mettiamo d’accordo. Grazie, Giuseppe!»
E Giuseppe sorrise,
lasciando che Melchiorre tornasse dai suoi due amici. Era sicuro che avrebbero
provato per tutta la notte. Erano veramente cortesi, anche se un po’
stravaganti. Trovava esotici quei vestiti colorati, i turbanti e le scarpe a
punta. Stava ancora sorridendo tra sé, quando si avvicinò a Maria e le diede un
lieve bacio sulla fronte: si stava per assopire anche lei, insieme al bambino.
Come sempre, era stata una giornata dura. Ferma in quella posa, a metà tra
tenerezza e adorazione, il tempo sembrava non passare mai: la capiva
perfettamente. Lui almeno poteva appoggiarsi al bastone di legno di cedro, ogni
tanto. Soprapensiero, si avvicinò alla mangiatoia e sporse un po’ di fieno al
bue e all’asinello.
Sopra di lui,
l’angelo guardava il panorama che si godeva dal ripiano del mobile su cui Loro
li avevano messi. Gli piaceva quel salotto, col tavolino basso, i due divani e
la libreria. Quella era una bella casa, una Famiglia tranquilla, senza Figli
piccoli che potevano farlo cadere in qualsiasi momento sulle piastrelle del
pavimento, dove si sarebbe sbriciolato in mille pezzi. E la fascia che teneva
tra le mani, su cui stava scritto in elaborate lettere dorate GLORIA IN
EXCELSIS DEO, era di seta finissima.
Sì, pensò, nella sua
lingua antichissima lingua, qui si sta
bene. Certo, è dura dover stare immobili per tutto il giorno, ma almeno non c’è
pericolo che...
In quel momento, il
caldarrostaio si ustionò leggermente una mano ed urlò con quanto fiato aveva in
gola.
«Zitto!», lo
redarguì con un sibilo la vecchina che filava e lui si tappò la bocca con la
mano sana.
Il bambino si mosse
in braccio a Maria, aprì gli occhi per un attimo e poi li richiuse subito,
tornando a dormire. Al pescivendolo per lo spavento cadde il cesto con le trote
e si chinò a raccoglierle tra l’erba finta. Il vasaio fece un movimento brusco
e la creta si sformò completamente. Il cane lupo di uno dei pastori abbaiò un
paio di volte.
Nessuno ebbe tempo
di contare fino a tre, che si aprì la porta. Tutti si bloccarono nella
posizione in cui erano, irrigiditi dal terrore: forse uno di Loro li aveva
sentiti. Non erano ai loro posti, ma era meglio restare fermi che farsi
sorprendere in movimento; così rimasero immobili, trattenendo il fiato.
Attendevano con
ansia che venisse accesa la luce, ma era soltanto il Padre che andava in bagno.
Accadeva sempre più spesso e i Re magi sostenevano, sulla base degli studi
compiuti, che fosse normale, perché i Loro bisogni notturni aumentavano con
l’età. Per fortuna, però, il Padre non accendeva mai la luce quando si spostava
per la casa di notte; probabilmente lo faceva per non disturbare il sonno della
Madre, di cui in quel momento arrivava alle loro orecchie tese il russare
leggero.
Tutti tirarono un
sospiro di sollievo: era già capitato che rischiassero di farsi scoprire, ma
quella volta ci erano andati veramente vicini. Troppo vicini, secondo Giuseppe.
«Tornate ai vostri
posti!», ordinò; aveva perso la sua proverbiale pazienza. «E per stanotte non
muovetevi più, va bene? E che non si ripeta!»
Nessuno ebbe il
coraggio di fiatare.
_____________________________________________________________
Una volta, pare che il celebre Fernando
Botero abbia affermato:
Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste…
Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande… E con
voi, il mondo diventa più fantasioso, più colorato… Ma non cambia mai!»
Forse, anche l’originale pittore e
scultore colombiano sembra aver incontrato una sorta di “presepe vivente”
(“anime belle”, “persone oneste”), come avete scoperto nel racconto di Enrico
Graglia: «l’angelo appeso sulla capanna» spiegare
«le ali», una vecchia tossire, una ragazza sciacquarsi le mani, insomma, il
popolo del paesaggio interagire con una fenomenologia di vita consona alla nostra.
Rammento il componimento di Salvatore Quasimodo apprezzato da studentessa,
dedicato al presepe, dove nella pace
della finzione, del silenzio, scolpite nel legno, emergevano
figure ma, all’improvviso, «ecco i vecchi / del villaggio e la stalla che /
risplende / e l’asinello di colore azzurro». Reale o apparente? Nelle poetiche
in versi e in prosa, un’eterogeneità del genere non possiede effettiva
pertinenza. Scriveva Wolfgang Goethe:
È questo il momento d'accennare a
un'altra costumanza popolarissima fra i napoletani: si tratta dei presepi, che
si vedono in tutte le chiese durante le feste di Natale e che rappresentano
l'adorazione dei pastori, degli angeli e dei re, in gruppi più o meno completi
di figurine abbigliate riccamente e vistosamente. Fin sui tetti a terrazza
dell'allegra città si allestisce questa esibizione; entro una leggera
impalcatura a forma di capanna, ornata di piante e d'arbusti sempreverdi, si
collocano la Vergine, il Bambino e tutti gli altri partecipanti, posati a terra
o svolazzanti nell'aria, in splendide vesti, per le quali i padroni di casa
spendono grosse somme. Ma un tocco d'inarrivabile bellezza all'insieme è dato
dallo sfondo che raffigura il Vesuvio con i paesi circostanti.
Dunque, per il grande poeta e
pensatore tedesco, «l'adorazione dei pastori, degli angeli e dei re» coesisteva
in misura perfetta con l’icona del vulcano, nonché con il fascino del
circondario. Nel brano di Graglia, però, leggiamo:
“Una volta era diverso”, asserì il pescivendolo. Era un
ragazzetto che se ne stava tutto il giorno con in braccio una cesta piena di
trote e una mano alla bocca, per decantare le qualità del pesce che vendeva ai
passanti. Aveva addosso solo un paio di pantaloni blu, stretti in vita da una
fascia bianca, e una casacchetta rossa, aperta sul petto scarno. Si vedeva che
era povero, ma aveva occhi azzurri e riccioli d’oro che alla donna vicino al
pozzo piacevano molto. Lei aveva la pelle scura: si vedeva che era straniera.
Pertanto:
Solo raramente Maria la chiamava e allora lei andava con la
sua anfora rossa fino alla capanna, per portare acqua fresca al bambino.
Cos’è accaduto? L’area disponibile
era diminuita; infatti, sostiene un pastore esperto:
“Ogni anno ce n’è di meno. Se andiamo avanti così, non so
come finirà. Voi siete giovani e non potete saperlo, ma una volta non finiva
tutto lì”.
La parola latina praesaepe indica “mangiatoia”, la quale costituisce il centro delle
cultualità, delle rappresentazioni natalizie, con Maria, Giuseppe e il “pargoletto”
scaldato dall'asinello insieme al bue. L’oggetto quasi rituale risulta legato a
Francesco d’Assisi, quando scelse di illustrare in chiave realistica (ossia
vera, verosimile, non falsa o ingabbiata di simboli) la Nascita del Bambinello
a beneficio dei cristiani, in specie dell’ingente numero di essi accomunati da
analfabetismo e, quindi, impossibilitati ad accedere al Nuovo Testamento, in
particolare nei tratti relativi a quella solenne tappa della storia. La
Basilica di Santo Stefano a Bologna ne conserva un prototipo analogo, risalente
al 1223.
Nell’epoca attuale, dopo secoli e
secoli, il presepe, continuando a vivere, si confronta con significati che appaiono
estranei al suo antico, nondimeno universale, modo di concepire le cause, gli
effetti:
“Eh... è passato del tempo. E il Figlio è cresciuto. Ero uno
dei Suoi preferiti, sapete? Ma ora è diverso. Non bada più molto a noi, e così
il Padre ha deciso di limitare lo spazio e di togliere la collina e le luci e
la Madre ha smesso di attaccare i brillantini alla stella cometa, così è
divenuta tutta opaca”.
La scrittrice italiana Benedetta
Cibrario, nel romanzo Lo Scurnuso
(2010), dichiara con certezza:
E immaginerete anche voi che molte di queste fisionomie sono
reali. Queste sono le facce di duecento anni fa. Guardate questo storpio con le
mani e i piedi bendati, potete immaginare che non abbia mai vissuto?».
Commuove il nostro Graglia, nel
consigliare ai personaggi il ricordo di vecchie consuetudini casalinghe:
C’era una collina, che saliva e saliva, fin quasi a toccare
il cielo. E su di essa delle case. E una chiesetta. E poi pastori e pecore,
molte più di adesso, e un fiume che scendeva dalla collina e arrivava fin
dietro la capanna. E c’era anche tutta un’altra luce. Le stelle erano più
luminose, più vive. E la capanna era illuminata a giorno da un grande sole
posto ad occidente. A quei tempi, l’angelo e la cometa risplendevano da far
male agli occhi».
Da bambina, illuminata da quella luce, contemplavo il piccolo Gesù, la Cometa,
i rivoli d’acqua con una lavandaia intenta al bucato, il ritmo cadenzato del
martello del fabbro. In seguito, ormai adulta, non avendo, chissà, letto pagine
come in questa novella, uniformata al resto mi sono distratta: ricorrendo alle parole
stesse della voce narrante di Graglia, «stufata» di ricevere sempre gli stessi
doni dai re Magi. Allora, ho imballato «in bende di carta igienica» le statuine
del presepe paterno, credendo mio figlio vedesse, in tale allestimento, solo
un’ulteriore «commedia infantile»: non rendendomi conto - lo precisa il
filosofo Emanuele Samek Lodovici - «di quale enorme difesa di fronte alla
stanchezza della vita, alle abitudini, ai tedi, alle fatiche, la mancanza di essa
privi il bambino, e col bambino l'uomo».
Per fortuna, nel corso degli anni, coltivando
rispetto per il Santo Evento, maturavo l’auspicio di qualche “sorpresa”, forse «qualcosa
tipo il Gloria, ma fatto bello
allegro. Non so, un gospel». E poi, Giuseppe a chiedere imbarazzato: «Magari
potete farvi accompagnare dall’angelo».
Buon Natale a tutti, e grazie a
Enrico Graglia per aver di nuovo permesso, con il racconto, a ciascun
personaggio di cantare per noi, ascoltandoli prima che, fatalmente, nessuno abbia
più «il coraggio di fiatare». (c.b.)