Diego RIA – “Odore di Margherita” (racconto breve)
Lei era di spalle, con la chioma di capelli castani un po' più
lunga di quel che ricordava e un vestito molto più appariscente di quelli con
cui l'aveva vista al bar, da lui. L'uomo che le stava davanti aveva un'aria
scanzonata e affascinante e parlava svelto mentre, con la mano, dondolava il
bicchiere. Lui non l'aveva mai visto. Margherita era solita scendere per pranzo
con Maria e altre due impiegate delle assicurazioni Pegaso. Si erano sedute
allo stesso tavolino per un anno intero, tutti i giorni, dal lunedì al venerdì,
alle 13.15 in punto, e per tutto quel tempo Carlo le aveva servite col cuore in
gola, immergendosi un passo alla volta nell'odore di lei, fino a venirne
completamente dominato. Era una fragranza particolare, non del tutto femminile
con quelle note legnose e muschiate, ma aveva qualcosa di sfuggevolmente dolce
e, soprattutto, emanava da lei.
Carlo se n'era innamorato a prima vista, il giorno stesso in cui l'aveva
vista entrare. Conosceva già Maria e, quando gli presentò la nuova collega,
rimase immobile a balbettare un tanto piacere. Non era mai riuscito a scambiare
due parole con Margherita. Né lei né le altre due parlavano mai con Carlo, al
di là dell'ordinazione, solo Maria gli buttava lì due domande quando si
spostavano al bancone per il caffè. Un ottimo caffè. Carlo era un grandissimo
barista. Col suo olfatto riusciva a distinguere le varie miscele e coglieva
anche la minima nota di bruciato ma, quando si avvicinava Margherita,
quell'odore improbabile e pungente lo catturava e continuava a stazionare nella
sua testa per ore.
Carlo sapeva di non essere brillante con l'altro sesso, ma
l'attrazione per lei era cosi forte che, quando le vedeva entrare e sedersi,
lasciava il bancone per precipitarsi al loro tavolo e si posizionava sempre
all'angolo tra Maria e Margherita per segnare l'ordine, in modo da inebriarsi e
lasciarsi compenetrare dall'unica cosa che poteva avere a lei: il suo odore. Si
era convinto di avere un legame con quella donna, come se quella fragranza
fosse un filo invisibile che li aveva uniti e folgorati anche nella lontananza
o nell'indifferenza. Cercava anche di migliorarlo quell'odore che, in fondo,
non si adattava bene alla bellezza di lei. Provava a ornare il tavolo al quale
si sarebbe seduta con diversi tipi di fiori profumati, oppure
aggiungeva del basilico o della menta fresca nell'insalata che, di solito, lei
prendeva, ma i suoi tentativi erano inutili: la fragranza dura e vagamente
dolce che pervadeva il corpo di Margherita dissolveva con noncuranza i suoi
tentativi di modificarla.
Quando aveva del tempo libero, girava per le
profumerie e chiedeva di provare i prodotti più strani nella speranza di
riuscire a imbattersi nell'essenza della sua amata. Sognava di immergersi in
quel profumo e di pararsi di fronte a lei, credeva che la consonanza di odori
avrebbe attivato una sorta di estro animale. Grazie al suo olfatto era riuscito
a riconoscere e isolare le tonalità principali di quella fragranza, ma alcune
delle note minori ancora gli sfuggivano per comporre il tutto.
Un giorno, poi, Margherita non si era presentata
a pranzo. Maria e le altre due parlavano concitate al tavolo ma, quando Carlo
si avvicinava per servirle, abbassavano il tono e aspettavano che se ne andasse
per ricominciare. Lui non ci aveva fatto troppo caso, Margherita era mancata
altre volte, per piccoli malanni o per ferie, ma poi era sempre riapparsa e il
suo odore era riapparso con lei. Quella volta però non tornò. Passarono i
giorni, poi una, due settimane e, quando Maria e le altre si presentarono a
pranzo con una nuova collega, Carlo capì che era finita, che quell'odoroso filo
immaginario che l'aveva unito in devoto e cieco amore con la sua adorata
Margherita era stato spazzato via da un qualche tipo di tempesta di cui non
trovò mai il coraggio di chiedere a Maria.
Ma ora lei era lì. Il destino aveva distribuito
un altro giro di carte e Carlo aveva pescato un jolly. Annusò ancora l'aria,
come a godersi la conferma di quello che sapeva benissimo e, incurante di
tutto, si avvicinò alla coppia chiamando ad alta voce Margherita. La donna si
voltò, sgranò gli occhi e sbatté furente il tovagliolo che aveva in mano sul
tavolo. L'uomo allungò un braccio per trattenerla e con voce supplicante le
disse: «Amore, ti prego».
Poi lanciò uno sguardo severo a Carlo. «Lei chi diavolo è?»
sibilò.
Carlo era perplesso. Guardò meglio la sconosciuta
e si grattò il mento. L'aria era pervasa dall'odore di Margherita ma lei non
c'era.
«Insomma, che
vuole?» disse l'uomo spazientito,
tenendo sempre una mano sul braccio della donna, come per proteggerla e
trattenerla allo stesso tempo, mentre gli occhi di lei iniziavano a inumidirsi.
Carlo si voltò verso l'uomo e credette di capire.
Quel profumo arrivava da lui, non da lei. La fonte originale di quella
fragranza doveva essere quel tipo brizzolato e distinto che lo guardava con
occhi fiammeggianti, infatti calzava a pennello alla sua raffinata figura. In
un baleno la storia fu chiara e, incurante della sofferenza che stava
evidentemente causando con quell'intrusione, Carlo chiese: «Dov'è Margherita?».
La donna si liberò con uno strattone e corse
fuori dal locale coprendosi il volto. L'uomo si alzò di scatto e afferrò Carlo
per il bavero della camicia: «Allora, chi sei?».
«Lavori alle
Pegaso? » chiese Carlo. Non aveva
paura, non provava niente. Voleva solo Margherita.
«Le Pegaso sono
mie, imbecille», rispose lui
lasciandolo. «Ma se credi di
ricattarmi... Mia moglie sa tutto e stiamo cercando...».
«Voglio solo
sapere dov'è Margherita», lo interruppe
Carlo. Non gli fregava niente di quell'uomo, del suo matrimonio, del modo in
cui aveva profumato Margherita. La sua mente aveva già cancellato tutto. Lui
voleva solo ritrovare il suo amore. L'uomo soppesò la situazione per un
istante, temeva una scenata e in quel locale era troppo conosciuto per
potersela permettere: «Abbiamo deciso
che era meglio trasferirla in un'altra filiale. Via Battelli, quartieri nord», aggiunse per anticipare la nuova domanda. Poi
si voltò per seguire la moglie, ma la voce di Carlo lo fermò: «Un'ultima cosa. Come si chiama il tuo profumo?».
«Cosa?».
«Il profumo che
porti addosso. Come si chiama?».
«Tu sei matto».
«L'ho cercato in
ogni profumeria della città. Dove lo prendi?».
L'uomo valutò nuovamente la situazione. Gli
avvenimenti dell'ultimo periodo l'avevano reso meno impulsivo: «Si chiama Notti d'Oriente. Non si trova
nelle profumerie, me lo faccio spedire direttamente a casa. E ora sparisci».
Il giorno seguente Carlo si piazzò su una
panchina di via Battelli, tra la filiale delle assicurazioni Pegaso e il bar
pranzi veloci più vicino. Aveva preso un giorno di ferie tutto per Margherita
e, infine, lei era uscita da quel portone, alle 13.10 in punto e si era avviata
proprio nella sua direzione. Quando fu a un metro, lui si alzò e le si parò
davanti.
«Margherita», disse.
Lei ebbe un moto di sorpresa ma, guardandolo nel
volto, lo riconobbe. Si rese conto di non ricordare il suo nome, così
tossicchiò, sorrise e disse: «Oh, ciao. Che ci
fai da queste parti?».
«Sono qui per te», rispose Carlo inspirando forte.
Margherita si portò un braccio al petto e fece un
passo indietro. Carlo chiuse gli occhi, l'aroma caldo e floreale della donna
gli entrò nei polmoni. Lo sentì risalire lungo le vene, per tutti gli arti,
fino alle appendici. Lo sentì familiare, rassicurante. Così calzante alla
figura diafana e slanciata di lei da infondergli pace e coraggio.
«Volevo sapere di
cosa odori veramente», le disse.
Lei soffiò via un sorriso perplesso: «Cosa?».
«In fondo al
cuore, ero certo che non potevi sapere di Notti d'Oriente».
Margherita sgranò leggermente gli occhi, si perse
qualche secondo tra i propri pensieri e lasciò ricadere il braccio lungo il
corpo. «Odoro di stupida, probabilmente», disse.
«No», disse lui, fissandola intensamente. «Odori di violetta, calla, quasi certamente lillà
e un'altra cosa che ora non mi viene proprio».
Lei sorrise: «Ed è un buon
odore?».
«Il migliore che
abbia mai sentito. Anche più di una 100% arabica tostata lentamente a mano».
«Sembra un
complimento» disse piano
lei.
«Si, lo è», rispose Carlo guardandosi la punta dei piedi. «Ma andiamo», continuò
indicando il vicino bar: «La tua insalata». E si avviò verso il locale.
Margherita guardò quello strano tipo camminare
verso il bar con le mani in tasca. Si sforzò un'altra volta di ricordarne il
nome ma non le veniva proprio. Si ricordò di non aver mai scambiato una parola
con lui e non capiva bene cosa volesse, cosa stesse succedendo. Lo vide
raggiungere l'ingresso del bar, voltarsi e chiamarla con un ampio gesto della
mano.
«Sì, arrivo», gli urlò Margherita. Appena lo vide entrare nel
locale, si guardò attorno per assicurarsi che nessuno la stesse guardando, si
portò il polso al naso e annusò forte. Poi rise di quella sciocchezza, lei
profumava di fiori e non aveva niente di cui vergognarsi. Guardò il cielo
sereno, aprì le braccia per allargare i polmoni e inspirò l'azzurro di quella
stupenda giornata ed era come se l'aria tersa dilavasse via lentamente dalla sua
coscienza la sciocca, l'ingenua, la puttana che l'avevano tormentata negli
ultimi mesi e le restituisse una pura e semplice Margherita. E si sentì felice,
la prima volta da molti, molti giorni. Si sentì giusta, pulita, profumata. La
testa di Carlo fece capolino dall'ingresso del bar. «Margherita», chiamò. «Vieni».Dovrò chiedergli come si chiama, pensò Margherita, e continuò a respirare il cielo.
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(c.b.) «Carlo riconobbe
subito quel profumo. […] Trasse un respiro, per orientarsi tra la decina di
tavoli di quel caffè e vide, a tre passi da lui, la fonte di
quell'inconfondibile misto di patchouli, vetiver e chissà cosa che dominava
ogni sua immaginazione emotiva». È l’esordio della storia di Diego Ria, nella
quale il protagonista, per riuscire a individuare la provenienza dell’essenza
odorosa di una donna “desiderata”, assente
da tempo (da riscontrare, in schemi favolistici classici, nell’allontanamento
volontario dell’eroe e forzato
della vittima, dal “rifugio” o “Castello-casa”, altrimenti dal “valore amato”),
suscita tematicamente il leitmotiv dell’avventura condivisa con noi. Pur
conoscendone, infatti, e descrivendone nel dettaglio la natura, per consentire
di rintracciarla vuole spostare il clou dell’obiettivo dell’indagine,
tentando, invece, di scovarlo “orientandosi” in un ambito ampliato della sua
possibile “ricomparsa”.
In un parallelo di
indirizzo utopico (nonostante ben documentato in scala operativa), vorrei
allargare in matrice maieutica il consiglio investigativo del
personaggio di Ria al campo della detection critica, al fine di
decifrare il contenuto globale tipico del racconto: essendo stata sempre, del
resto, una fautrice convinta di metodologie ermeneutiche legate all’espansione
dell’orizzonte di riferimento poetico. Nell’esegesi di un brano di prosa o
poesia, infatti, per interpretarli reputo molto utile identificare o segnalare
citazioni esterne da paragonare al contesto. Sono d’accordo con il grande Mario
Fubini su come, adottando un simile prezioso mezzo chiarificatore, nessun
accorgimento o parafrasi di scrittura riesca in tal modo, né intenda, fissare
nella mente del destinatario un alter-ego esaustivo dell’effettiva opera
considerata: con precisi meccanismi stilistici, le medesime “citazioni interne”
e, in questo caso, con l’onda lunga del profumo irripetibile del
relativo costrutto evocativo, insomma il complesso poetico concreto formulato in
primis dall’autore.
Eppure, nella dinamica
di percezione del messaggio, i ricercatori delle maggiori scuole critiche
ritengono proficuo in campo strumentale favorire una pratica equivalente. Come,
ad esempio, accogliendo l’affascinante mosaico tecnico-espressivo incrementato
da Diego Ria, risulta adeguato confrontarne lo sviluppo semiotico con la
semantica delle fiabe popolari e tradizionali russe studiate dal linguista e
antropologo Vladimir Propp; in particolare, usufruendo dell’approfondimento
ulteriore compiuto nel repertorio (o meglio sulla logica di possibilità
narrativa in esso inserita) da Claude Bremond, saggista e semiologo
contemporaneo.
Quindi, in virtù della
salda efficacia dell’itinerario di lettura delineato da Odore di margherita,
tra significanti e significati di fragranza e aroma, vaghiamo dentro e fuori
l’articolata mini-detective story di Carlo e Margherita, rigorosa
nell’offrire piste indagative, veritiere e ingannatrici, unite dallo scorcio di
un ipotetico e prossimo status finale. Otteniamo così l’esito - per noi,
prima che per altri - di scoprire, con lo sguardo limpido di un arco empirico
potenziato da testi differenti ma coerenti, la sfera più vasta di un certo
stile di vita della personale esperienza etica e sociale: attiva e inquietante
nel topos del bar dove lavora Carlo e, di solito, consumano il pranzo le
dipendenti e il manager della compagnia assicurativa Pegaso.
Ne scaturisce
un’umanità resa in chiave realistica e poi sublimata in veicolo (semi-conscio o
volontario) del complesso polisemantico del profumo, elemento essenziale
della coesione narratologica costruita da lessico e piano referenziale.
Seguendo, infatti, la griglia di regole di simulazione e dissimulazione
intessuta da Bremond nell’analisi dei parametri delle antiche civiltà elette a
prototipo, l’input della vicenda di Diego Ria consisterebbe nello sbaglio dell’eroe,
qui commesso dal giovane cameriere scambiando l’identità della persona
“portatrice” dell’aroma preferito: dunque, il tenace paladino di tale
coinvolgente circuito cognitivo di “svelamento” sembra investire con attinenza
un incarico consono a quello centrale del microcosmo russo, non per questo
trascurando il valore unico dell’individuum di cui è frutto inedito.
L’allusione all’antico repertorio è quando il protagonista, essendo stato
“colpito da cecità” - nel nostro caso sostituita nel senso dell’olfatto fallace
- era costretto a subirne le gravi ripercussioni. Doveva, pertanto, affrontare
un tragitto denso di travagli, al fine di sanare l’equivoco iniziale
(fugandolo con estro e coraggio fisico o d’animo) per discernere le tracce in
grado di ricondurlo alla fanciulla smarrita. L’“aiutante” nell’impresa
sarà, però, lo stesso “oggetto magico”, la fragranza inebriante: dalla
coincidenza dei ruoli canonici emergerà una sorta di intrigo avvincente.
Del resto, la
Margherita del racconto moderno è autrice, da parte sua, di un misfatto,
sarebbe a dire l’aver espletato una specie di inadempienza o mancanza di lealtà
pertinente alle categorie universali del comportamento umano, perché
divenuta l’amante del capufficio (un uomo sposato) tra le pagine della story.
Per proprio conto estingue in ciò, da succube a trasgressore, un castigo
simboleggiato dalle malelingue che la stimano una «sciocca, ingenua puttana».
Ed ecco Diego Ria decidere di impiegare una variante assai ricca di trascinanti
prospettive, scegliendo di scartare il peggioramento del danno da
riscattare con il promuovere una nuova fase di riparazione alle pesanti
conseguenze: evitando quindi la più probabile, cioè la vendetta, spesso
realizzata dalle vittime (Carlo e la moglie tradita).
Cosa succede, allora?
Il narratore inaugura, con il personaggio principale, un iter alimentato da
modalità di miglioramento, rappresentate dall’occasione, per i presunti
colpevoli della disobbedienza, di guarire. Nell’intervallo conclusivo
della trama-intreccio leggiamo, appunto: «“Sì, arrivo”, gli urlò Margherita.
Appena lo vide entrare nel locale, si guardò attorno per assicurarsi che
nessuno la stesse guardando, si portò il polso al naso e annusò forte. Poi rise
di quella sciocchezza, lei profumava di fiori e non aveva niente di cui
vergognarsi. Guardò il cielo sereno, aprì le braccia per allargare i polmoni e
inspirò l'azzurro di quella stupenda giornata ed era come se l'aria tersa
dilavasse via lentamente dalla sua coscienza». Intanto: «La testa di Carlo fece
capolino dall'ingresso del bar. “Margherita”, chiamò. “Vieni”».
Infine, il sacrificio, nel doppio
carattere di esclusione e protezione pagato dal loro eventuale
vincolo amoroso per godere di un futuro seppure lontano, termina il capitolo espiativo,
quando la donna, in un dialogo interiore, pensa: «”Dovrò chiedergli come si
chiama” […] e continuò a respirare il cielo». Ma quale volta celeste? Quella
eterna in cui il misunderstanding consiste non nell’atto in sé di
frantumare le leggi della norma convenuta e imposta, ma nell’illusione genuina
di poter infrangere impunemente un modus vivendi obbligato e
autoritario. L’Io narrante di Diego Ria comunica quanto sia opportuno, ancora
oggi, combattere - anche con lo strumento della poetica - allo scopo di
invalidare umiliazioni e preconcetti inutili, dolorosi e inibitori.