MAPI – “Il vecchio”
(racconto breve)
La casa è immersa
nel silenzio, un pesante silenzio rotto appena dal crepitio intermittente della
legna che brucia nel grande camino. Poca legna, in verità, appena due o tre
pezzi dai quali si sprigiona una fiamma anemica che a volte scoppiettando e
sibilando sembra voler fuggire su per la cappa, a volte si nasconde in agonia
fra la legna. Il vecchio con un lungo soffietto di ferro muove la poca brace,
la fiamma sembra riprendere vigore e mille scintille giocano a rincorrersi,
simili a petali rossi di un fiore che man mano si disfano nel nero camino.
Quel fiore piace al
vecchio, gli mette allegria, gli ricorda i grandi fiori dei fuochi artificiali
delle feste della sua infanzia. Che corse, da bambino, per arrivare sull’aia da
cui si potevano veder partire i razzi che in alto si aprivano come grossi
ombrelli… Il cielo diveniva rosso, verde, giallo, azzurro… E mille corolle di
fiori piovevano come stelle frantumate.
Che gioia, ma anche
tristezza, perché quei fuochi significavano la fine della festa e il ritorno al
lavoro dei campi.
Ai suoi tempi a
scuola andavano solo i figli dei ricchi, i bambini poveri il pane dovevano
guadagnarselo in qualunque modo. Il vecchio se lo guadagnava portando le pecore
al pascolo. Non erano molte, ma vi erano anche due caprette, una delle quali
candida come la neve, con le corna striate e lunghe, e un campanellino appeso
al collo che suonava ad ogni passo della bestia. Il bimbo passava l’intera
giornata sui campi pieni di sole, di verde. Giocava a rincorrersi con le
caprette, parlava al piccolo gregge e si sentiva l’anima leggera.
Respirava a pieni polmoni l’aria fresca
del mattino ricca di profumi, mentre gli giungeva dal paese, portata dal vento,
il suono della campanella che chiamava a scuola i suoi coetanei.
Un senso di
malinconia lo invadeva mentre si immaginava seduto a un banco di scuola ad
ascoltare la voce del maestro che lo trasportava verso mondi sconosciuti. Era
il suo sogno! Fantasie di un bambino che il destino aveva ancorato alla terra,
al lavoro dei campi, alla custodia delle pecore.
Ora la fiamma è più
scura, lambisce i pezzi di legno come una carezza e si allunga festosa verso
l’alto, lasciandosi dietro il rosso brillante dei carboni. Le lingue di fuoco
illuminano il magro viso del vecchio: gli occhi stretti formano due lunghi
solchi sulla fronte, illuminano i baffi che vanno su e giù col muovere delle
labbra e le profonde cicatrici delle mani, indurite dal lavoro dei campi.
Questa legna è buona, pensa il vecchio, tarda a prendere fuoco ma ti ripaga con
tanto calore.
Quanta ne aveva
tagliata da giovane nel bosco! Si rivede dietro il grigio steccato che separava
la sua masseria della strada sassosa. Con quanto orgoglio caricava il basto del
suo mulo con tronchi ben tagliati, ben sistemati in perfetto equilibrio sui due
fianchi della bestia. Non era mai stanco e i suoi vent’anni non sentivano la
fatica. Quando sollevava sulle spalle quei grossi tronchi, i muscoli delle
braccia si gonfiavano e si indurivano e tutta la sua figura acquistava la
bellezza di una statua greca. Erano belli i suoi vent’anni, pieni di entusiasmo,
di gioia di vivere!
Alza la testa e,
attraverso le palpebre socchiuse, su una foto appesa al muro vede la dolcezza
del sorriso della sua Maria e gli sembra di riascoltare la soavità della sua
voce. Qualche volta vorrebbe togliere quella foto dal muro, perché vederla gli
stringe il cuore e lo fa sentire solo. Troppo presto se n’era andata…
Nella vaga luce
della fiamma chiude gli occhi e si perde
nei ricordi. Rivede la sua casa, ogni angolo, ogni stanza gli ricorda bambini
felici schiamazzanti: i suoi figli! La mente sembra si compiaccia a
presentargli soltanto ricordi dolorosi. Ora la fiamma è del tutto spenta. I
carboni perdono lo splendore, diventano cenere: la stanza è nell’ombra. Il
vecchio non ha voglia di attizzare il fuoco, nessuna fiamma riuscirebbe a
scaldarlo, nessuna fiamma riuscirebbe a fugare il freddo che si è impadronito
del suo cuore.
Due guerre, due
figli perduti! Un grido muto gli scuote le pareti del cuore, lo stringe alla
gola, indurisce i muscoli del viso. Perché loro? Perché non io? Cosa ci faccio
io qui, vecchio e stanco? Albero senza rami e senza più frutti?
Appoggia le mani
sulle ginocchia, piega la testa sul petto e si abbandona all’onda dolorosa dei
ricordi.
Rivede i carabinieri
entrare in casa: il suo cuore aveva rallentato i battiti al lieve bussare della
porta, quasi presagisse la tragedia che stava per abbattersi nella sua casa.
Era un eroe?
Sapeva soltanto che
il sangue del suo sangue non avrebbe più varcato la soglia di quella porta: il
giovane figlio non avrebbe più riempito quella casa con la sua esuberanza, la
sua allegria, il suo attaccamento al lavoro.
Era fiero di lui
quando insieme portavano avanti con lo stesso ritmo le grandi falci nella
fienagione o quando insieme alzavano con le vanghe grosse zolle di terra. Il
ragazzo gli comunicava la sua forza, il suo ottimismo, la sua allegria.
Non erano solo padre
e figlio, erano due amici: bastava uno sguardo per capirsi, per sentirsi
complici nei discorsi fra gli amici. Ora lui non c’era più. Era rimasto solo
Antonio, sedici anni.
Ma il tempo passa
inesorabile!
Purtroppo non si
muore di dolore, e il lavoro dei campi, la custodia, la cura degli animali non
permettevano rilassamenti o abbandoni. Il leone che era in lui si risvegliò,
riprese il sopravvento, così col secondo figlio si gettò di nuovo nella fatica.
Non poteva e non doveva arrendersi!
Il dolore, il vuoto,
il rimpianto, erano insopportabili; il lavoro rappresentava per lui un’ubriacatura,
uno stordimento, bisognava stringere I denti e andare avanti.
Un’altra guerra!
Cosa può capire un
contadino di conquiste, alleanze o espansioni? Il suo orizzonte si restringe al
campo, alla casa, al paese. A lui interessa solo un raccolto abbondante, e che
non ci siano gelate o grandinate. È felice solo quando può dire: questa è una
buona annata!
Erano passati anni dalla
perdita del primogenito e il dolore si era attenuato. Gli avevano assegnato una
pensione di guerra e sulla parete era appeso un attestato con due medaglie di
bronzo.
ll secondo figlio si
era sposato e gli aveva regalato due nipotini che qualche volta lo facevano
sorridere. Per questa seconda guerra loro erano piccoli, e il padre quasi
anziano.
Il vecchio si
preparava ad affrontare una vecchiaia serena. Ogni mattina si recava in
campagna, rimaneva tutta la giornata seduto sotto un ulivo a pensare, ricordare,
a fare il bilancio della sua vita… Il tramonto del sole e il crepuscolo lo
coglievano di sorpresa: bisognava tornare a casa, sarebbero stati in pensiero
per lui.
Ma ecco il secondo
appuntamento con la morte!
Un’altra tragedia si
abbatte sulla famiglia: questa guerra, che egli non temeva, gli porta via anche
il secondogenito, fucilato dai tedeschi.
Il buio cala nella
casa.
A questo ricordo,
grosse lacrime scivolano lungo le guance infossate, si incanalano tra le pieghe
delle rughe, si poggiano sui baffi come gocce di rugiada.
Finalmente il
vecchio piange!
Il suo è un pianto
silenzioso, accorato: ogni lacrima un pezzetto di cuore, una speranza delusa. Rivive
la sua angoscia e, come un leone ferito, aspetta la morte: non dovrebbe
tardare!
Nata
a Uccle (Belgio), di origini abruzzesi, Mapi si è laureata in Filosofia alla
Sapienza di Roma. Ha insegnato Lingua e Letteratura italiana e Storia per
trentatre anni nei trienni delle scuole superiori. Ha pubblicato i romanzi L’amore corre via internet (Europa
edizioni, 2013) e Storia di Carlo… ovvero
il dolore di una madre (Irda edizioni 2015). Nel 2016 ha dato alle stampe
le sillogi poetiche Parole del cuore e
Colori dell’anima (entrambi di Irda
edizioni). Con Le Mezzelane ha pubblicato i versi Le scale del tempo (2017) e Il
vento della vita (di prossima uscita).
Il racconto di Mapi esordisce entro l’orizzonte di uno status
realistico e dettagliato in cui seguiamo l’avvicendarsi della “vita” e della
“morte” attraverso una quantità di legna arsa nel grande camino: dall’iniziale
«crepitio intermittente» sino a quando «la fiamma è del tutto spenta, i carboni
perdono lo splendore, diventano cenere: la stanza è nell’ombra». Ne emerge un
effetto di smarrimento, bilanciato dalla salda gamma di segni e segnali che lo
armonizza: capace di collaborare con energia di espressione alla sintassi espositiva
e sentimentale di un ethos
del “fuoco” – ovvero, del vissuto – all’altezza di consumarla, verificarla,
ridurla in tracce distinte, senza comunque gestire la facoltà di annullarla.
Attraverso il veicolo della voce del “vecchio” protagonista, la trama-intreccio
esorta a condividere il pensiero dominante dell’esistenza interpretata con l’aspetto
fisico dei luoghi e le sfumature commoventi degli affetti, però in una località
letteraria idealizzata, di stampo visionario. In tale piano descrittivo agiscono,
nell’esperienza e nella memoria indelebile, i componenti della famiglia,
solidali e, per disgrazia, di colpo allontanati dalla genuina unione maturata
negli anni.
L’andante narrativo in atto è nondimeno immerso nell’iter semantico di
un inquietante, trascendente ed eterno interrogativo sul nodo cruciale del
vivere, incentivato dal rapporto di successione tra principio e fine, dal
bagliore della luce al buio oscuro. Benché il divenire si svolga in virtù di un
tocco semiotico assolutamente polivalente e denso di significati ulteriori, il plot del brano è sviluppato
nell’area complessa della coscienza umana, artefice e succube di uno spazio popolato
di fenomeni antitetici e di senso, con opposte direttive morali e logiche.
L’anziano padre, nel suo mosaico dal timbro emblematico e di
congiunzione all’input del ricordo, lamenta la scomparsa della moglie
annientata da una malattia, e dei due figli, ciascuno vittima di una differente
“guerra”. Seppure assecondando un’aura sconosciuta e arcana, quasi di integra
spiritualità, celebra una giovinezza serena e forte trascorsa in campagna,
malgrado il rammarico di non aver avuto i mezzi economici per studiare (come «i
figli dei ricchi»), associando, chissà, questi lutti a un ambito collettivo
legato all’archetipo-urbanesimo e alle città odierne.
Il paesaggio rievocato e
la bellezza corporea della gioventù indirizzano, dunque, verso una lettura
simbolica sorretta da un rituale di linguaggio cadenzato, con pause curate ed efficaci.
Trapela un quadro reale o verosimile, relativo a quanto osservato o percepito:
di frequente, nella norma, invece diffuso e proiettato in un sistema di
riferimenti intimi. La pena straziante e l’angoscia acquisiscono un alone di
dignità suprema, sospendendo, nella rete misteriosa di significanti
dell’autrice, la natura di un “materiale”, di un hic et nunc incidentale,
terribile e deteriore.
Ecco l’habitat bucolico, con «le pecore al pascolo», tra cui anche «due caprette, una
delle quali candida come la neve»: un quadro accompagnato in un’elegante
tensione temporale da «un campanellino appeso al collo che suonava ad ogni
passo della bestia». L’insigne Giacomo De Benedetti, riguardo a un contesto in
versi dal contenuto parallelo, ha sottolineato lo scaturire di «una visione
ancora naturalistica in pura immagine, immagine in pura analogia, con tutta la
sua pregnanza di suggerimenti e di associazioni molteplici e simultanee».
Metafore e metonimie del racconto evolvono e diventano ospiti di
patrimoni comuni, quelli identificati da Mallarmé in unità di vocabolo e
pertinenza dove «le parole della tribù, del gregge» sostengono la rottura del
diaframma tra l’arte e la storia. Atteggiamento coraggioso, se valutato nei
confronti del conflitto bellico in sé, di cui, non a caso, il filosofo tedesco
del XX secolo Ernst Jünger, in Der Kampf als
inneres Erlebnis (La lotta come esperienza interiore, 1922), ha scritto: «La guerra non è solamente nostra madre, è anche
nostro figlio. Se essa ci ha creati, noi l'abbiamo generata. Noi siamo dei
pezzi forgiati, cesellati, ma siamo ugualmente quelli che brandiscono il
martello e maneggiano lo scalpello, insieme fabbri e acciaio scintillante,
operai della nostra sofferenza, martiri della nostra fede».
Nelle righe conclusive del racconto di Mapi, siamo coinvolti nel
pianto dell’anziano, disperato per i dolori subiti e presenti, in attesa che
Thánatos (Θάνατος, nel pantheon greco, dio della Morte, discendente dalla
divinità Nύξ- Nýx, Notte, con il gemello di Ὕπνος-Ipnos, nume del Sonno) lo
raggiunga: infatti, «non dovrebbe tardare!».
Tuttavia, quando l’autrice precisa che le lacrime «poggiano sui baffi
come gocce di rugiada», il messaggio risulta chiaro e persuasivo. Ebbene, sì, proprio
sulla «rugiada». Allora è spontaneo riflettere: quale migliore e più autentico
simbolo di rinascita,
còlta negli albori preziosi e ricchi di aspettative future? (c.b.)