Cinzia BALDAZZI – Il “prima” e il “dopo”
di Medea
Grazie
al suggerimento dell’amico Salvatore Armando Santoro, a distanza di due anni e
mezzo pubblico sul blog la mia recensione alla Medea di Franco
Branciaroli recensita nel maggio 2017 sulla rivista online “Scenario”. Nella
nuova versione del sito, infatti, il link non è più attivo. Buona lettura.
In
effetti, no. Aspettando di entrare al Quirino di Roma per assistere al debutto
della Medea di Euripide, nella
versione del ’96 ideata da Luca Ronconi e riallestita in matrice dialettica da
Daniele Salvo, le associazioni pertinenti,
assidue nella mente non sono legate alla celebre Maria Callas epica, drammatica, fantastica del famoso film di Pier Paolo Pasolini
(1969); né alla maestosa e sconvolgente mise-en-scène
diretta poco dopo da Franco Enriquez al Teatro Greco di Siracusa con Valeria
Moriconi. Ragiono, piuttosto, sulla figura mitologica in sé, quando da studentessa,
traducendo la tragedia omonima, ero tormentata dal significato non solo dell’eclatante
gesto compiuto, il figlicidio, ma, nello specifico, dal ruolo morale e poetico
intrecciato, intorno a lei, dalla sua indole.
Del resto
la saggia Melpomene, Musa dei teatranti allora invocata in aiuto - sempre in
senso utopico - per la prima volta in molti anni aveva riservato per me un
posto in platea accanto a Maricla Boggio, caposcuola italiana delle cronache sulla
scena. In un’atmosfera tanto impegnata e solenne, dunque, cosa inserirò nel mio
rapport de journaliste relativo alla controversa
ed eminente personalità del dramma? È
lì, modello di una psiche antica, selvaggia, vendicativa? Come si esercita però
una vendetta, ovunque, colpendo i bambini? È votata con ogni mezzo
all’emancipazione? Ma quale profilo dell’emanciparsi - di natura anticipatrice
o meno del femminismo - coinciderebbe con un omicidio esecrando? Infatti una Corinzia,
essendo prossimo l’assassinio finale dei piccoli Mermero e Fere, spezza il
cuore lamentando: «Misera, sei davvero pietra o ferro / tu che la messe di
figli, che partoristi, / ucciderai con morte inflitta dalla tua stessa mano».
Conoscendo
abbastanza Ronconi, e la Weltanschauung
della teatralità di Salvo, incline ad un continuum
reso immediato, suppongo di trovare, nella Μήδεια (Mèdeia) animata da Franco Branciaroli, tracce di una risposta, pur
teorica, senza precedenti. Leggendo alcuni commenti del protagonista nei panni moderni
di una donna, e prendendo parte con l’immaginario alla ben nota epopea di una moglie
secoli orsono rinnegata, individuo la conferma di poter rielaborare la storia tramite
una differente angolatura intima, analitica e sociale. «Se le letture in chiave
psicologica di Medea», ha dichiarato l’attore, «portano a considerare questo
personaggio come il prototipo dell'eroina combattuta tra il rancore per il
proprio uomo e l'amore per i propri figli, e le analisi sociologiche tendono a
trasformare la principessa della Colchide in una sorta di precorritrice del
movimento femminista, in realtà Medea è il prototipo della minaccia impersonata
da uno straniero, che approda in una terra che si vanta di avere il primato
della civiltà». E concordo con le riflessioni di Luca Ronconi: «Medea è una minaccia, che incombe imminente anche
sul pubblico». Nelle note di regia si conclude: «Per questo essere una creatura
misteriosa e mostruosa, può anche essere interpretata da un uomo».
Nell’ellenica
Iolco, spodestato il fratellastro Esone, governava con crudeltà il monarca Pelia,
cercando di eliminare l'erede al trono Giasone, allontanato presso il mentore,
il centauro Chirone. Intanto, nella Scizia, era conservata una prestigiosa
reliquia chiamata Vello d'oro, posseduta da Frisso. Il tessuto della lana dorata apparteneva a Crisomallo,
un montone sacro inviato da Era, sposa di Zeus, per salvare dalla sciagura il fanciullo
e la sorella Elle; l’ariete aveva quindi sorvolato con i protetti l'Ellesponto,
distesa marina con il nome della sventurata affogata nei flutti avendo lasciato
nel sonno la presa sulla groppa dell’animale. Rifugiato nella Colchide, una
comunità brutale con usanze spietate e grottesche, Frisso sarà ucciso, il
caprone scuoiato e la pelle donata ad Ares, dio della lotta alimentata dalla
sete di sangue.
Chirone,
illustrando la vicenda ed evocando Medea, l’ambiziosa principessa (imparentata
alla nostra maga Circe) di quell’arcana regione, si rivolge al suo protetto: ormai
adulto, ha l’eventualità di sfidare lo zio Pelia e recuperare il regno. Costui pretende
in cambio l’eccellente manto, obbligandolo a imprese rischiose per acquisirlo.
Un giorno, mentre prega al cospetto del prezioso reperto custodito nel tempio, Medea,
nipote del Sole, incontra l'eroe greco, sbarcato da una zattera; se ne
invaghisce perdutamente e chiede aiuto al fratellino Apsirto per rubare il
Vello e fuggire con Giasone nell’Ellade animando la leggendaria spedizione
degli Argonauti.
Il regale Eeta,
disperato, insegue la figlia la quale, per rallentarlo, sopprime addirittura l’ingenuo
e piccolo complice gettandone i pezzi in acqua per costringere il compassionevole
padre a fermarsi e a raccoglierli. L’impeto amoroso della pasionaria avant-lettre, considerata “barbara” dai
Greci, la spinge già in giovanissima età a crimini cruenti: è risaputo che, dopo
la raccolta delle membra sparse di Apsirto, il re tornasse nel villaggio a
restituirli alla madre straziata affinché avessero degna sepoltura. Intanto
l’ostinato Iásōn, i fedeli e l’impavida
compagna oltrepassano il mare e si accampano: distante dalla patria e dalle tradizioni
condivise, l’ex-principessa, irretita dal raggiungere i suoi traguardi, ha però
una crisi spirituale intensa, con impulsi di angoscia acuiti verificando quanto
le consuetudini di Giasone e sudditi siano opposte a quelle conosciute.
Consegnata
la mitica pelle a Pelia, quest'ultimo smentisce la parola data, negando il
trono al nipote: Medea allora sfrutta con lucidità le virtù infauste per favorire
l'amato: addormenta il sovrano con un nefasto φάρμακον (phàrmakon) e convince le eredi - allo scopo di ringiovanirlo per
magia - a ridurlo a brandelli. Le fanciulle, ingannate, provocano la morte
paterna con atroci sofferenze: il figlio Acasto, con immensa pietà, ne tumula i
resti massacrati e mette al bando la neo-coppia inducendola a stabilirsi a
Corinto, polis centrale nel meridione del Peloponneso, dove celebrano nozze
senz’altro “insanguinate”.
Assorta nell’incipit,
intonando una nenia dolorosa, sento lamentarsi la Nutrice (Elena Polic Greco) con
il capo coperto e una mise di stile orientale:
«Ah, se la nave Argo non avesse mai traversato veloce le cerulee Simplegadi
verso la terra dei Colchi… La mia padrona, Medea, non avrebbe navigato verso i baluardi
della terra di Iolco, scossa nel cuore dall’amore per Giasone; né avrebbe
persuaso le figlie di Pelia ad uccidere il padre». In parallelo a simili circostanze,
proseguiva Ronconi, per «questo suo essere una creatura misteriosa e mostruosa
può anche essere interpretata da un uomo. La sua non è una tragedia della
femminilità, ma della diversità». E precisa Branciaroli: «Io non interpreto una
donna, sono nei panni di un uomo che recita una parte femminile, è molto
diverso. Medea è un mito: rappresenta la ferocia della forza distruttrice.
Rimettiamoci nei panni del pubblico greco: vedendo la tragedia, saprà che
arriverà ad Atene una forza che si accanisce sulle nuove generazioni, i suoi
figli: “Medea dallo sguardo di toro”, come viene definita all'inizio. È
smisurata, dotata di un potere sinistro».
In tale
griglia narrativa, lo comprendo, la natura femminea assolve al ruolo di maschera «per commettere una serie
mostruosa di delitti», continua Branciaroli: «non è un caso che la prima a cadere sia una
donna, la regina, la nuova sposa di Giasone». Causando un repentino scompiglio,
ecco l’ingresso di un gruppo vestito in completo nero
(con gilet, guanti, cappello) capitanato dall’anziano, fosco e intimidatorio basileus Creonte (Antonio
Zanoletti): distraggono e bloccano l’identificazione
maturata; collocano sulla ribalta un pianoforte privo di coda (non verrà usato),
un tavolino e il talamo, una branda in ferro battuto con un materasso
arrotolato. Mi domando: dove siamo? Nel contesto dello squallore e del tradimento,
reciprocamente motivati in tanta malvagità?
Il monarca,
annunciando l’espulsione all’infelice abbandonata, asserisce: «Temo che tu -
per nulla bisogna mascherare le
parole - possa recare a mia figlia qualche male irreparabile». In sostanza, «la
saggia ed esperta di malefici» per la collettività è soprattutto una straniera,
una αλλοδαπη (allodàpe), accettata con
riluttanza da un sistema con obiettivi e senso dell’agire in via di cambiamento:
gli apriori sono modificati in
soggettività passibile di smentite. Medea tace, con
dignità, alle minacce formulate a danno suo e dei piccoli, quindi illustra i mezzi
per sconfiggere i nemici, gli aggressori. Ora decifro in Branciaroli un timbro
scuro, cavernoso, quasi fosse invasata da un dèmone, ma non riesco a evitare di
commiserarla, anche impaurita dalle conseguenze. Le Corinzie, però - ricavando
un ottimo effetto di straniamento - si entusiasmano, invitano alla ribellione «contro la stirpe dei maschi»:
tra grida, incitamenti e slogan, attestano l’utilizzo di regia, scene e costumi
di un habitat consono alle suffragette
inglesi del ‘900 impegnate nelle
riunioni a declamare vari discorsi tratti dalla tragedia.
Emblematica, in proposito, sembra l’occasione in cui Giasone (Alfonso
Veneroso), in canottiera, le offre una buonuscita in denaro per espatriare: «No,
non l’ho fatto per il motivo che ti punge, perché odii il tuo letto e sia stato
preso dal desiderio di una nuova sposa, né perché miri a competere per il
numero dei figli: quelli che ho mi bastano, non mi lamento. Tu che bisogno hai
di altri figli? Per me, invece, è opportuno aiutare i figli che ho con quelli
che nasceranno. Ho preso forse una decisione sbagliata?». E conclude:
«Bisognerebbe che gli uomini generassero figli in qualche altro modo e che non
esistesse la razza femminile; così per loro non ci sarebbe più alcun male». Nell’intenso
monologo trapela un’atmosfera disinvolta, assurda e
spregiudicata, da accogliere come affettuoso omaggio al Gassman
cinematografico, nella postura nobile e al contempo resa immediata da una prossemica
ampia e sfrontata. Si impongono, tra noi del pubblico, l’armonia senza musica
di versi dal trimetro giambico di Euripide, cantati da una corifea sulla
melodia de L’avventura di Lucio Battisti
e, successivamente, strofe sulla traccia di A
whiter shade of pale dei Procol Harum.
Ma
Corinto è situata pur sempre al centro di una
guerra tra mondi, e ancor oggi conflitti analoghi risultano subdoli e cruenti.
In un climax conforme, ulteriore
analisi sociologiche conducono ad attribuire alla tragodía un genuino significato 'politico', rendendo urgente una
sensazione condivisa a pieno: per gli Ateniesi dell’epoca, destinatari espliciti
dell’opera originaria, la vicenda avrebbe contenuto in sé il pericolo di sciagure
a venire a carico del loro stato - il maggiore dell’antica Grecia – a causa dei
rapporti poi intrecciati da Medea con Αιγαίο (Aigaio, cioè Egeo): la maga, infatti, per assicurare la sofferenza al
traditore Giasone e la mancanza di una discendenza, avendone annientato la
prole in un'angosciosa incertezza, sarebbe poi volata nell’Attica, a bordo del carro del Sole trainato da draghi
alati.
Per adesso,
scorgo camminare in silenzio figure con candide tuniche: sorretto da un
bastone, un attore (Livio Remuzzi) con barba canuta, calzando un singolare tipo
di kothornoi (o coturni), è reduce da
una visita votiva a Delfo, essendo tormentato dalla sterilità. Sì, è proprio Aigaio (il futuro genitore di Teseo, insigne
monarca di Atene) al quale la μάγισσα (maghissa)
somministra un elisir efficace a garantirgli la stirpe in cambio dell’ospitalità
dopo l’esilio inflitto dal re Creonte. Trascorsa una pausa, in taciturna
processione, il gruppo sfila nel corridoio della platea e scompare imboccando una
porta aperta al domani ignoto.
Citando la
mitologia, sappiamo che, in seguito, il sovrano aveva concepito con Etra
l’eccelso Teseo, legittimo erede al trono; poi però si era impegnato, come
promesso, ad accogliere Medea: l’esule ammaliatrice, divenuta la seconda moglie
(infine regina…), si dimostrò intenzionata a lasciare il potere al figlio in
comune Medo. Un giorno, però, la dèa Ananke - la necessità assoluta del destino
- accompagna Teseo nella loro città, e l’audace matrigna, vedendo andare in
frantumi il piano architettato per assicurare un orizzonte regale alla progenie,
consiglia ad Egeo (ignaro dell’identità dello straniero) di uccidere il
forestiero durante un banchetto. In un energico colpo di scena, tuttavia, all'ultimo
momento lo riconosce e comprende il crimine ordito dalla sposa: Medea è pertanto
costretta alla fuga per evitare la punizione.
Si respira,
dunque, un’aura distante da qualsiasi vaga suggestione introspettiva: non a
causa di una censura accettata, bensì in virtù della sua palese estraneità al paradigma,
nucleo ideale, delle dramatis personae
nella classicità. Scrutandola, quindi, da un’ottica utopica guidata a coglierne
le influenze convenienti, la protagonista non appare preda di ardore, frenesie
e impeti scellerati, né spronata da un femminismo ante litteram: quanto, piuttosto, metafora variegata di un incastro
semantico intessuto di iniquità, violenze, trofei illeciti, veicolo allargato
di minaccia imminente e incombente sugli spettatori, ciecamente fedeli al fato
ispiratore e artefice di ogni mitologia concretizzata. Nella suspence diffusa, dichiarando con
schiettezza «Io sono implacabile con i nemici, benigna con gli amici», Medea
informa il Coro dei propositi omicidi pianificati. Intorno a lei, cercano di
persuaderla a non commettere il delitto: «In me la passione», insiste purtroppo
la donna, «è più forte della ragione».
In tale ordine
di cose o status creativo, non è avvertito
il bisogno di rintracciare nella scenografia decori ingombranti: meglio, invece,
intercettare la gamma di indicatori materiali
offerta, segno limite di ciò che fu e
sarà in un divenire inquinato tappa
dopo tappa. Qua e là individuo, oltre al letto, gli elementi simbolici
polivalenti di un baule e vecchie sedie di legno da cinema old fashion, patrimonio di visioni, utopie, transfert di stampo quotidiano; non potrebbe mancare, sul lato destro,
una scalinata a più rampe, di memoria freudiana, di cui distinguiamo i primi
gradini, non quelli estremi. L’esordio della mise en scène ha esposto su due schermi alcune immagini di supporto
logico a una simile alterità sdoppiata: sulla parete, segnata da un ampio squarcio
in diagonale, sono state proiettate, parallele, le sequenze di un intervento a
cuore aperto sanguinolento e pulsante, e vedute desertiche (la Colchide
originaria), poi onde in tempesta.
Alla voce fuori campo dell’ancestrale mamma
snaturata, tutta di gola, cupa e terribile, dagli accenti bestiali, segue l’ingresso
del Coro, ossia le Corinzie: con abiti stile anni ’30, impersonano, di tanto in
tanto, una squadra di pulitrici provviste di aspirapolveri, pezze di stoffa e
secchi (tra esse, non a caso, avanza una giovane incinta); con loro è apparsa un’antiquata
cucina, munita di quattro fornelli. La Medea dell’estroso Branciaroli, capace
di stupire con una vocalità in falsetto alternata a frasi spietate o
strazianti, è in sottoveste nera con minute spalline su una maglia bianca a
maniche lunghe. Indossando stivaletti a mezzo tacco, incede con lentezza e
studiata solennità e guadagna il centro del palco: «Noi donne, siamo le più
sfortunate». Ora, è evidente, il timbro articolato suona diverso: rielabora in
libertà le fonie sincopate e nasali tipiche di Carmelo Bene e armonizza le
unità del lessico in un colloquiare lucido, ironico e sarcastico. Lo ascoltiamo
confessare: «Io preferirei cento volte combattere, che partorire!». Un terzo presunto
livello recitativo si coglie quando, con le Coreute, l’attore tributa un omaggio
importante, con razionalità complice, domestica, enfatizzata da sguardi
allusivi e gestualità “popolari”, alle grandi signore della scena italiana del
dopoguerra.
Dinanzi ai
nostri occhi, insomma, Branciaroli è un rappresentante del sesso forte
investito di un ruolo femminile: questa creatura del mito ha sempre suscitato
fascino nei teatranti, a dispetto degli ostacoli, per così dire, di parvenza
fisica, da superare cimentandosi con la fatale maga della Colchide. Ad
eccezione, ritengo giusto precisare - citandolo di nuovo - di Carmelo Bene: tra
i progetti rimasti nel cassetto, ne aveva uno relativo al confronto con Medea e
Cleopatra, entrambe archetipi della fantasia, al di sopra della sessualità
incarnata al completo. Tuttavia, è documentato, non era lecito recitare alle cittadine
elleniche (le parti da femmina erano affidate
a maschi); neanche è certo fossero libere
di compiacersi delle “gare drammatiche” attinenti alle feste periodiche. I gloriosi albori del teatro
occidentale non furono certo sotto l’egida del matriarcato, le cui virtuali
componenti erano prive di diritti politici e segregate nei ginecei.
Un elemento
isolato, raccontato da Ateneo, attesta però l’evento di un pubblico misto, con Alcibiade
adornato di indumenti rosso porpora, allorché, animando un Coreuta, sbalordì appunto
«uomini e donne». All’entrata di esseri tremendi, nel debutto delle Eumenidi eschilee, un anonimo ha narrato
di aver visto persino abortire gestanti e morire di paura alcuni bambini, mentre,
nella commedia Le Rane di Aristofane,
la figura di Eschilo attribuiva proprio a Euripide la responsabilità del
suicidio di «donne per bene» avvelenate con la cicuta, sentendosi colpevolizzate
dalla trama di Bellerofonte. Nondimeno,
metà dei titoli delle tragedie, campioni di un immenso repertorio, sono
occupati da nomi di genere femminile. Rassicurata, ecco una di loro (ancora
Elena Polic Greco) affermare: «Quante volte ormai mi sono addentrata / in
ragionamenti sottili / ho discusso questioni elevate / non destinate a donne. /
Ma anche con noi, vedi, si intrattiene la Musa / a parlare di sapienza; / non
con tutte, si capisce, / forse non ne trovi molte, / ma le donne non sono sorde
alla cultura».
Tuttavia,
pur restando avulse dalla vita urbana, nella letteratura siamo state spesso significative
e disinibite figure, scatenando - nei panni della bella Elena - un conflitto epocale
descritto nell’Iliade, o sfidando
sovrani sacrileghi secondo l’impresa della coraggiosa Antigone; altrimenti, opponendosi
con crudeltà ed audace ferocia a mariti improbi, come accaduto a Medea, nipote
del sommo e potente Helios. Catturata dalla vicenda, percepisco il taglio
deviato e solido dell’arma strategica prioritaria della “principessa barbara”,
ossia l’inganno: la sventurata genitrice, lo avverto con emotività, è all’altezza
non solo di raggirare Creonte, Giasone e, in futuro, Egeo, ma addirittura di abbagliare
i Coreuti (nel nostro caso Coreute, abitanti della polis), protagonisti eccelsi
del modello greco, pur registrando, nell’andare del tempo, la riduzione del
ruolo evidente nell’intreccio tramandato.
L’intelaiatura
di regole formali garantisce l’unità di lessico e messaggio della drammaturgia
classica, ad esempio lo scambio tra Coro ed eroe: sul palcoscenico, ospite di
uno dei celebri capolavori euripidei riallestito con successo espressivo e
scrupolo filologico da Daniele Salvo, esso si mostra, pertanto, sin dagli inizi
contaminato da un’inquietante arte simulatoria,
capace di diffondere l’ansia di varcare la soglia interdetta tra gesti infausti
o degni di attenuanti: Medea riesce così a ricavare, manipolandole, la complicità
delle “amiche” nel mantenere nascosti i reali piani omicidi dietro
magniloquenti apologie ed elogi del gentil sesso.
La scelta
di un interprete maschile, Franco Branciaroli, nei panni della controversa icona
tragica, elargisce ogni attendibile facoltà di approssimarsi all'oggettività
della pièce originaria. Slittando il baricentro
semantico del plot dal dialogo
propositivo con Giasone a quello con le Corinzie, sfuma di conseguenza il
rischio del dramma di transitare in decodifiche semplificatorie a carattere
sociale e intellettualmente “rivoluzionario”: nella simbologia evocata è
suggerita l’urgenza di appellarsi a un’autentica maschera-persona, cortina difensiva di un intimo inesplorato.
Ne scaturisce
l’emblema di una pervicace disparità, pronta a pietrificare sentimenti ed
equità, nelle sembianze ulteriori della Medusa, una delle tre pericolose
Gorgoni. Nel silenzio dubbioso della platea, ricostruendo il ricordo (arricchito
in anni di esperienza) dell’immagine maturata a scuola riguardo alla cultura
ellenica del V secolo a.C., forse intuisco quanto, in uno scorcio storico, la
fanciulla regale nata nella remota zona dello stato georgiano stimi il comportamento
umano in una chiave in prevalenza virile:
la “fama”, assillo perpetuo della focosa eroina, appartiene dunque a un
universo etico-significativo dell’ideologia maschile. Infatti, nel contesto meritocratico
e competitivo della civiltà spettacolare in cui nacque la tragedia, la
credibilità del contenuto trasmesso risultava connessa, nel profondo, all’essere
qualsiasi personaggio un attore-uomo.
Colgo,
insomma, l’ambiguità poetica e mitologica di Medea non in virtù di dati geografici,
al contrario grazie a una matrice strutturale alternativa, sia pure perversa: una
figura femminile di tale stampo creativo sortisce in un insieme di riferimento popolato
dall’autorità di certi dèi dove, prima di lei, afferma una Coreuta (Serena
Mattace Raso): «Una sola, una sola donna tra quelle di un tempo / conosco che
sui propri figli la mano avventò / Ino, dagli dèi resa folle, quando la sposa
di Zeus / la scacciò dalla casa, errabonda». Inoltre, questa oscura madre
snaturata si trova ai margini in un modus
vivendi adeguato a esiliarla in un’aura predominata da interessi e abitudini
idonee a decretare il tramonto di valori tradizionali, sino ad allora
indiscussi. Il lungo monologo antecedente l’atto criminale ha come background le sequenze di città affollate,
interni di banche, luoghi di partenza, scale mobili, fino al crollo di una
palazzina.
All’arrivo
del Nunzio (Tommaso Cardarelli), accomodata su un sedile - quasi fosse una
regista di fronte a un’audizione - la nefasta maga assiste muta al dettagliato
racconto dell’atroce supplizio di Glauce, bruciata viva, e del padre Creonte.
Appena dopo l’annuncio dello scempio dei figli ad opera della mamma ripudiata,
Giasone percorre sconvolto il palco: nel pathos preminente, a un tratto, lo
schermo cade scoprendo l’assassina con indumenti bianchi (antico colore del
lutto) e una maschera d’oro sul viso: è su un trono, e sotto di sé scorgiamo una
vasca d’antan con i corpi
insanguinati dei bambini. Un piccolo braccio telescopico verticale li innalza
da terra: Medea, richiamando l’immagine cultuale in una forma di ascensione,
parla con tonalità differenti, lanciando anatemi con voce stentorea e
volutamente retorica, eco dialettica degli speaker di regime degli anni
’30.
A sipario
chiuso, confusa tra la gente che lascia la sala, non sono più perplessa nel
giudicare se la vendetta sia peggiore per chi la esercita o per quanti la
subiscono.
Medea
di Euripide
traduzione Umberto Albini
regia Luca Ronconi ripresa da Daniele
Salvo
con Franco Branciaroli (Medea), Alfonso
Veneroso (Giasone), Antonio Zanoletti (Creonte), Tommaso Cardarelli (pedagogo,
nunzio), Elena Polic Greco (nutrice), Livio Remuzzi (Egeo), Raffaele Bisegna e Matteo
Bisegna (Mermero e Fere)
il Coro: Francesca Mària, Serena Mattace
Raso, Odette Piscitelli, Elena Polic Greco, Alessandra Salamida, Elisabetta
Scarano, Arianna Di Stefano
scene Francesco Calcagnini riprese da
Antonella Conte
costumi Jaques Reynaud ripresi da
Gianluca Sbicca
luci Sergio Rossi riprese da Cesare
Agoni
produzione CTB Centro Teatrale Bresciano,
Teatro de Gli Incamminati, Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa
Nessun commento:
Posta un commento