Mario TRAPLETTI – “A Roma i sogni non dormono mai”
(racconto breve)
Come tutte
le mattine ‘Stampa e regime’, la
rassegna stampa di Radio Radicale, mi prende per mano qual novello Virgilio e
mi cicerona fra i gironi e le bolge dell’infernale stampa quotidiana. Il mondo
è là dentro e là fuori che aspetta solo che io mi interessi di lui, e se non lo
faccio può anche succedere che si fermi. Certo, non c’è più l’ironia
spumeggiante di un Bordin, ma insomma, questo è.
E allora,
che la vita abbia inizio, si dia la stura alla tempesta di emozioni e avventure
che anche oggi stanno per scatenarsi sul mio capo. Inteso come testa, perché il
mio diretto superiore sta alle emozioni come un vegano sta a una fiorentina di
un chilo e due: indifferenza reciproca, quando non repulsione.
Doccia
Colazione
Spesa
Autobus
Redazione
Pausa
pranzo
Scansione
da agenda elettronica, con tempi e ritmi quasi scolpiti nel marmo. Pardon: nei
byte.
“I giorni miei son tutti uguali
come i granelli di un rosario”
(Rosalino
Cellamare, che in seguito si contrasse in Ron. E chissà se se ne è mai pentito
visto quanto rischia ogni volta che le menti più elevate e aperte del Paese
lanciano campagne di astio contro i Rom)
Passi per
la monotonia del vivere quotidiano, ma il pranzo in ufficio, mai! Finisce che
ti sgranocchi un panino con chissaché mentre continui a vangare nelle agenzie
di stampa o a fare il cretino su Twitter e
Facebook. E mentre ingurgiti news e fake news nemmeno ti accorgi di cosa transita per il tuo abomaso: mangiare
un paninazzo di McDonald's o un
salamino al barolo con formaggio di capra affinato alle more di bosco raccolte
da una capoverdiana vergine in una notte di plenilunio ti darebbe, a quel
punto, la stessa soddisfazione papillare. Vada per il paninazzo, artigianale
però, e centellinato sulle rive del Tevere, ammirando Castel S. Angelo e zone
limitrofe. Fa tanto turista bohemienne e aiuta a dimenticare che dove gli altri
fanno del turismo tu maceri sudore lavorativo. Seppure in senso metaforico.
Le prime gocce
cadono subito pesanti. La pelle di Roma assume un aspetto prima leopardato, poi
sempre più simile alla scorza di un puma. Non son cose da perderci il sonno, ma
è strano forte come la trasparente pioggia renda nere le pietre sulle quali si
abbatte. Ecco, proprio come se i goccioloni martellanti provocassero alle
pietre un susseguirsi di scuri lividi. È da queste piccole cose, dalla facilità
con cui colgo queste impalpabili sfumature che, a volte, intuisco le mie
potenzialità scrittorie, la vena del grande autore di grandi reportage. Poi però mi frega la
modestia, l’eccesso di umiltà.
Respiro
l’atmosfera dell’Urbe, di questo mostro proteiforme dalle mille stratificazioni
e dai mille volti. Vibro con essa e in essa; mi esalto, vado via di testa
allucinato dal caleidoscopio in cui mi muovo. Brandisco la tastiera e come un
rabdomante inseguo le pulsazioni di Goethe, di Stendhal, di Montaigne… Poi la
vita riprende il sopravvento, e mi tuffo nel lirismo dei lanci d’Agenzia e con
la tastiera faccio l’editing ai
colleghi. Il turpe destino di tutti i geni incompresi.
Largo di
Fontanella Borghese quando la pioggia si fa battente assume un aspetto
surreale: i chioschetti che la popolano - di libri usati, stampe, piccoli oggetti
d’antiquariato - sciolgono al vento vele cerate trasparenti, nel tentativo di
sottrarre all’assalto dei goccioloni i loro attempati tesori. Hai l’impressione
di navigare in una flotta di vascelli fantasma, come fantasmi sono quelli che
custodiscono al loro interno. La mitica Lolita, la decana dei venditori,
affronta impavida l’ennesima tempesta, resa edotta dalla lunga vita che anche
questa passerà, come passate sono le altre. Uno Strehler non saprebbe
immaginare scenografia più scenografica di questa, che magicamente muta la
piazza in un set cinematografico, proiezione onirica di un Fellini in vena di
epiche malinconie.
Gocce come
ciliegie: è subito scroscio e temporale fuori dal tempo. La gente, la poca che
transita a quest’ora, in preda a un comune moto centrifugo si ritrova
scaraventata nei bar della zona, già zuppi di folla intenta al sacro rito della
pausa pranzo. Non sono il solo a patire la claustrofobia detta ‘del panino da
ufficio’. È molto interessante anche su un piano antropologico (buon Dio, non
starò esagerando?) visitare in questa fascia oraria i bar, self-service, tavola
calda e affini che animano la zona: puoi fare interessanti scoperte sulla fauna
umana, tipo distinti signori giacca-cravattati che azzannano, in piedi,
qualsiasi genere di supporto farinaceo atto a contenere le più svariate forme
di salumi, formaggi, verdure e chi più ne ha più ne metta. Con mille
precauzioni per non macchiare le preziose (o sedicenti tali) cravatte, camicie,
giacche. Per quanto, non è poi tutto ‘sto problema: qui in giro ci son negozi
di abbigliamento che hanno costruito la loro fortuna proprio in virtù della
pausa pranzo. Se ti macchi (e succede, succede), che fai, te ne torni in
ufficio impataccato? A meno che non lavori da solo in uno sgabuzzino della
mansarda, vai dalla camiciaia o dal cravattaio e sostituisci, cercando di non
rimetterci la giornata, il pezzo oscenamente deturpato. Fortunati quelli che
lavorano con la tuta.
L’anziano
barbone si trascina a fatica dentro ‘Cialdini’,
a piazza S. Lorenzo in Lucina. Infagottato come un autentico clochard (poco importa che lo sappia),
emana un olezzo che certo non lo farà socio onorario del Dandy Club. La bella cassiera del bar, altera nella sua perenne
parvenza di puzza sotto il naso (ma è l’elevata statura, ci mancherebbe),
stavolta ha di che onorare l’apparenza. Le sardine intorno all’inconsapevole
malcapitato riescono a recuperare spazi impensati dove rintanarsi, per
degustare con minor fervore del solito squisiti croissant, baghette, pizze romane farcite con prelibatezze di prima
scelta. E sorbire estatici il rinomato caffè, che l’attempato ma sempre
agilissimo Diego distribuisce con la frequenza dei toc-toc di una pendola cocainomane.
Il barbone
(duole appellarlo così, ma i barboni si onorano di un nome solo quando muoiono,
e manco sempre), occhi quasi a terra, si è avvicinato alla cassa; soffia alla
cassiera un “Coffi” dagli accenti
gutturali e gotici. Dalla mano lascia scivolare davanti alla di lei nostalgia
di fiori di lavanda una moneta da due euro. Raccoglie e stringe in pugno le
monetine di resto; trascina i passi, il pastrano e la scia di pout-pourri di RSU fino al bancone,
lustro come se fossero sempre le sette del mattino. Quasi timoroso di
graffiarlo, deposita lo scontrino e ci lascia cadere sopra venti centesimi di
mancia; prende fiato e risoffia roco: “Coffi”.
Intorno a
lui fioccano le richieste dei camerieri, autentici sacerdoti-mediatori tra la
plebe e il Dio della macchina del caffè.
“Diego,
quattro caffè! due normali, uno
ristretto e uno lungo!”
“Altri due!
uno macchiato freddo e uno macchiato caldo!”
“Uno
ristretto con acqua calda in tazza a parte e uno al vetro!”
“Un
cappuccino con poca schiuma e una bella spolverata di cacao! Un altro senza
cacao e con la schiuma fino all’orlo della tazza!”
Il barbone,
capo chino come si conviene a uno del suo rango, aspetta paziente di essere
servito: sa stare al suo posto, quasi grato che ce lo lascino stare; e sa, in
fondo, di aver chiesto un banale caffè.
“Diego, un
orzo in tazza grande, uno in tazza piccola e uno con acqua bollente al seguito!”
“Per me un
marocchino con panna, uno senza, un macchiato caldo e un cappuccio decaffeinato
senza schiuma!”
“Aggiungi
un espresso un po’ alto e un ristretto corretto Strega!”
Dio-Diego
si muove come un automa, preciso, implacabile, ripetendo gesti di consumata
perizia, quasi officiante di un arcano rito propiziatorio. Parla poco, ma
quando apre la bocca è per apostrofare brusco i suoi giovani collaboratori-adepti,
come un anziano sacerdote con svagati chierichetti.
Fuori, il
diluvio non accenna a diminuire: i numerosi, piccoli e grandi, avvallamenti del
manto stradale romano fanno ormai concorrenza ai laghi della Finlandia (se
vogliamo escludere le betulle). Niente è perfettamente a livello, niente è
minimamente drenante: la Storia non è un rullo compressore. Chi è costretto a
uscire all’aperto, perché la pausa pranzo ha limiti che è meglio non
travalicare, rimpiange lo stadio in cui anche gli umani erano anfibi. Soppesano,
i tapini, il precario conforto offerto dagli ombrelli, e poi si gettano come
paracadutisti.
Nel bar chi
non vive la ghigliottina della pausa pranzo intreccia frasi e discorsi, che il
barbone cerca di seguire con movimenti lenti e continui degli occhi, mentre
ancora aspetta il suo turno. Non comprende molto, sia per la lingua che per i
contenuti dei dialoghi: nella sua mente affaticata suonano indecifrabili perché
troppo elevati, distanti. Giusto nella sua mente.
Ecco
arrivare il suo Coffi, buttato lì in
malo modo da un barman indispettito, schiavo della bella cassiera dalla puzza
sotto il naso. Un cliente ritira torvo la moneta da mezzo euro che aveva
depositato sullo scontrino come mancia. Si vede che è uno con il naso intasato.
Il coffi è stato sorbito con la lentezza
che gli compete: ha dello stile, l’ometto, nonostante tutto. Non l’ho perso
d’occhio un attimo: sono certo che è uno con una storia alle spalle… ma al mio
giornale non interesserebbe nemmeno per un pezzo di colore. Ora si scalda le mani con gli ultimi rimasugli
di calore appiccicati alla tazzina. Non dubito che quelli come lui sappiano cosa
vuol dire il freddo che ti entra nelle ossa e fa di tutto per restarci il più a
lungo possibile.
Gli
avventori, impiegati di vario livello, avvocati, politici, segretarie, P.R.,
gente di spettacolo, lobbysti, questuanti della politica; gli avventori,
dicevo, si son fatti carico via via della propria dose di acquazzone,
maldestramente rintuzzato con le parvenze di ombrelli elargite dagli gnomi umbrella-seller.
Quella strana fauna che si materializza per miracolo al cadere delle prime
gocce, come funghi miracolosi. Bisognerebbe studiare le loro abitudini per
elaborare delle previsioni del tempo azzeccatissime. Come sempre, il bisogno
aguzza l’ingegno.
‘Cialdini’ adesso è quasi vuoto; la
babele delle varietà di caffè si è per il momento assopita. Il barbone, sguardo
vuoto sulle punte delle scarpe, esce incontro alla pioggia. Punta contro Giove
pluvio o chi per lui il suo vecchio ombrello da pastore abruzzese, impreziosito
da ampi strappi e frange svolazzanti. Lo seguo mentre naviga verso il Tevere
detto il biondo, che sulle ali dell’entusiasmo, tronfio d’acqua e di antico
orgoglio, sale minaccioso verso il cielo. Gli occhi del vecchio (sempre che
vecchio sia) forse tradiscono un attimo di incertezza; poi riprende il lento
guado della strada. Sparisce. Di quelli come lui le retine benestanti perdono
subito anche il ricordo.
Notte. Roma
dorme; il diluvio no. Più che una bomba d’acqua ci troviamo sotto un autentico
bombardamento a tappeto, di quelli che riportano al luglio del ’43, per fortuna
senza analoghi danni. Là il fuoco, qui la pioggia.
Il Tevere,
ubriaco del suo stesso elemento, si sente emulo del Rio delle Amazzoni, ma non
può eguagliarne la portata e la vastità. E allora monta in collera, memore di
quando era un Dio e l’ira degli Dei aveva fior di cantori epici. Sotto Ponte
Umberto, davanti al Palazzaccio, un uomo cerca di difendersi dalle cateratte
celesti con un vecchio ombrello da pastore e con l’imballo di un faraonico TV
al plasma da 50”: gli scarti della
civiltà a volte valgono più dei prodotti che contengono. I suoi occhi fissano
senza partecipazione emotiva il livello delle acque che sale sale sale – quasi
a farsi beffe degli argini umani.
Sirene di
vigili del fuoco e polizia duettano a distanza sul binario dei Lungotevere,
deserti e silenziosi in modo surreale. Puoi percepire il respiro profondo della
città, il ritmo placido del battito cardiaco.
Un’auto di
grossa cilindrata si annuncia in lontananza come brontolio di tuono in
crescendo. Di pari passo l’aria si impregna della musica che esce a tutto
volume dal bolide, e verrebbe da chiedersi se quel pazzo stia guidando con i
finestrini abbassati. Per un attimo hai l’impressione che il temporale si sia
zittito per non interferire con la poesia di “Wish you were here”, la nostalgia dei Pink Floyd per Syd Barrett:
“… How I wish, how I wish you were here.
We're just two
lost souls swimming in a fish bowl,
year after year,
running over the
same old ground. What have we found?
The same old
fears,
wish you were here.”
L’uomo
solleva a fatica le palpebre, rotea lievemente gli occhi verso l’alto, forse a
cercare gli angeli folli che si esibiscono in queste condizioni drammatiche.
Una lacrima, forse due, agli angoli degli occhi. Ma non è detto, la pioggia
battente schizza ovunque le sue gocce. Anche lui vorrebbe essere là, ma purtroppo non sono più i tempi delle risate folli,
non si torna indietro e il rimpianto può solo affogarti nel pozzo senza fine
della tristezza cieca.
Come è
venuta, la nostalgia si allontana, assorbita da un cupo brontolio di tuono che
si intreccia sullo sfondo con le sirene lampeggianti. Brontola, il temporale,
come insoddisfatto dell’esiguità di questo inatteso concerto notturno.
Wish you were here…
Nutrie e
pantegane si stringono intorno al cumulo di stracci e cartone, scosso da fremiti,
certo di freddo. Cercano riparo dal Tevere in rimonta, da quelle acque fangose
e avide che paiono impazienti di inghiottire tutto.
“Buongiorno agli ascoltatori di Stampa e
regime”…: la radiosveglia, sempre lei, implacabile, butta all’aria il mio
lenzuolo fradicio di sonno e sogni. Stamattina mi sento di umore uggioso, mi sa
che non ho vissuto vicende esaltanti nell’ultima sessione onirica. Resta solo
la doccia per scrollarmi di dosso le sirene che mi vorrebbero incatenare al
letto.
Lo scroscio
dell’acqua sobilla il Proust che sonnecchia in me: il pensiero torna al diluvio
della notte, quella colonna sonora che ho ascoltato a sprazzi in sottofondo
punteggiata dagli ululati delle sirene, io avvolto nel mio candido piumoncino primaverile.
Un fugace pensiero va al barbone incontrato ieri da ‘Cialdini’: dove andranno lui e quelli come lui a ripararsi da ‘sta
valanga d’acqua?
… è mai
possibile che dalla doccia mi colino in testa le note, i versi di “Wish you were here”? Secoli, che non lo
ascolto più, quel disco.
Saranno i
vapori della doccia, mi perdo fra le nebbie dei ricordi, dei sogni, dei sogni
ricordati, dei ricordi sognati... D’istinto mi verrebbe da aprire l’ombrello
sotto la doccia.
… e la
radio da doccia si trasforma di colpo da pinguino in nutria, una nutria che mi
sorride. Mi sorride con l’ironico musetto di un Bordin.
Auto-biografia di Mario Trapletti
Coetaneo di Miguel
Bosé e di Gerry Scotti (nessuno è perfetto, ma c’è di peggio), Trap è un GIP
(Grigio Impiegato Pubblico). Anonimo per nascita e per vocazione. Consuma vita
e suole delle scarpe nell’Urbe, dopo aver guadato non poche nebbie in terra
orobica. Venti concorsi vinti in prosa e due in rima; nove secondi posti; una
quarantina tra altri piazzamenti, segnalazioni e menzioni varie. Nel 2019 vince
il Premio ‘Il Litorale’ (Comune di Massa), che prevede la pubblicazione di una
raccolta di suoi racconti, dal titolo “Vacanze, che passione” (Ed. Helicon).
Troppo poco per il Nobel, ma anche per definirsi scrittore. Scarabocchiatore,
se proprio.
Commento di Cinzia Baldazzi
Ambientata nella Roma più bella - nel triangolo tra Fontanella Borghese, S. Lorenzo in
Lucina e Ponte Umberto - la short story
di Mario Trapletti affida il ruolo informativo del contesto al giornalista di
un’agenzia stampa, ed espone come durata
le vicende incluse da un risveglio mattutino al successivo. Una simile unità di
tempo, nella misura di canone
drammaturgico, viene per la prima volta esaminata nella Poetica aristotelica (anche se frutto di una rilettura approfondita
dovuta all’Umanesimo cinquecentesco): essa è affiancata dalla scoperta di
un’energica compattezza d’azione,
questa originalmente riconducibile alla Περὶ ποιητικῆς (Perì poietikès) del IV secolo a.C.
In
che senso, unità d’azione? Alludo a
un plot comprendente l’aura semantica sviluppata intorno a una sola, specifica azione,
con esclusione di trame indipendenti secondarie o di sviluppi altrettanto autonomi
della vicenda stessa. Ma, soprattutto, mi riferisco, tentando di interpretare
da vicino il pensiero dello Stagirita, a una coesione intrinseca all’opera
d’arte - nel nostro caso, l’intreccio di A
Roma i sogni non dormono mai - capace di riflettere la sua generalità con
la soppressione dei dati contingenti, in modo che gli accadimenti nelle fasi e
nelle pagine progressive appartengano ai fatti della vita comune o della storia
in sé.
Una
simile unità d’azione, sulle tracce di un tragitto in ampia chiave utopica,
sarebbe - nello schema narrativo di Trapletti - la psiche dell’autore, la
relativa misura di concepire il tempo-spazio della vita, della morte. Leggiamo
nella Poetica una sorta di riepilogo:
Per racconto qui
intendo la composizione dei fatti; per caratteri, ciò secondo cui diciamo che
chi agisce ha una propria qualità; per pensiero, tutto ciò con cui, parlando,
si dimostra qualcosa o si esprime un giudizio.
Il
protagonista, durante la pausa-pranzo, dal lavoro si sposta presso un bar proprio
nel momento in cui, improvvisamente, comincia a piovere. Nello schema
aristotelico delle scienze, la poetica
appartiene a quelle produttive, il cui fine è, appunto, di “costruire” un
oggetto attraverso una imitazione della natura.
Entrati
dunque nell’affollato bistrot “Cialdini” in piazza di San Lorenzo in Lucina, condividiamo
il coinvolgente complesso mimetico (dalla μίμησις, la mìmesis greca) di un ricco panorama di personaggi, di avventori
abitudinari o occasionali, serviti e seguiti da uno staff molto caratterizzato;
ma non è una cronaca, comunque dettagliata, quella offerta da Trapletti, il
quale sembra seguire le nobilissime istruzioni della Poetica aristotelica:
Compito del poeta è
di dire non le cose accadute ma quelle che potrebbero accadere e le possibili
secondo verosimiglianza e necessità. Ed infatti lo storico e il poeta non
differiscono per il fatto di scrivere l’uno in prosa e l’altro in versi […], ma
differiscono in questo, che l’uno dice le cose accadute e l’altro quelle che
potrebbero accadere.
Un
point of view del genere riesce ad
animare, nel racconto di Trapletti, l’illustrazione reale o possibile dei
clienti del locale, ovvero le persone effettivamente incontrate e quelle che si
potrebbero, in altra occasione, incontrare:
È molto interessante
anche su un piano antropologico (buon Dio, non starò esagerando?) visitare in
questa fascia oraria i bar, self-service, tavola calda e affini che animano la
zona: puoi fare interessanti scoperte sulla fauna umana, tipo distinti signori
giacca-cravattati che azzannano, in piedi, qualsiasi genere di supporto
farinaceo atto a contenere le più svariate forme di salumi, formaggi, verdure e
chi più ne ha più ne metta.
Ciò
a cui assistiamo, mentre al bancone l’agilissimo Diego distribuisce coffi («con la frequenza dei toc-toc di
una pendola cocainomane»), coincide con il panorama registrato e creato dall’interiorità,
dall’anima, dalla psiche, con particolare riguardo all’anziano barbone che a un
certo momento si fa largo a fatica dentro il locale affollato:
Infagottato come un
autentico clochard (poco importa che
lo sappia), emana un olezzo che certo non lo farà socio onorario del Dandy Club. […] Le sardine intorno
all’inconsapevole malcapitato riescono a recuperare spazi impensati dove
rintanarsi, per degustare con minor fervore del solito squisiti croissant, baghette, pizze romane
farcite con prelibatezze di prima scelta.
L’anima,
secondo Aristotele, era in grado di conoscere tutte le cose, in quanto partecipe
degli stessi elementi conosciuti o giudicati: analogamente, in ogni personaggio
illustrato da Trapletti troviamo qualcosa di presente (o di assente) nell’effettivo
narratore. Il quadro disegnato non è però astratto, esponendo invece caratteristiche
di indubbia concretezza nei dialoghi, nei gesti, negli scorci, nei dettagli
minimi, nel tracciato urbanistico.
Di
nuovo, il fondamento aristotelico chiarisce un simile aspetto. Nell’Eudemo o Sull’anima leggiamo:
Necessariamente
l’anima è sostanza, intesa come corpo naturale che ha la vita in potenza. Ma la
sostanza è un atto. L’anima quindi è atto perfetto di un corpo del genere
specificato.
Là
fuori, intanto, la pioggia aumenta, e il locale si riempie:
Quella strana fauna
che si materializza per miracolo al cadere delle prime gocce, come funghi
miracolosi. Bisognerebbe studiare le loro abitudini per elaborare delle
previsioni del tempo azzeccatissime. Come sempre, il bisogno aguzza l’ingegno.
Quando
“Cialdini” si svuota, anche noi usciamo accompagnati dalla voce narrante,
seguendo il clochard nella sua
andatura incerta sino a vederlo sparire all’orizzonte oscurato:
Notte. Roma dorme;
il diluvio no. Più che una bomba d’acqua ci troviamo sotto un autentico
bombardamento a tappeto, di quelli che riportano al luglio del ’43, per fortuna
senza analoghi danni […]. Un’auto di grossa cilindrata si annuncia in
lontananza come brontolio di tuono in crescendo. Di pari passo l’aria si
impregna della musica che esce a tutto volume dal bolide, e verrebbe da
chiedersi se quel pazzo stia guidando con i finestrini abbassati. Per un attimo
hai l’impressione che il temporale si sia zittito per non interferire con la
poesia di “Wish you were here”, la nostalgia dei Pink Floyd per Syd Barrett.
Trapletti cita il refrain della mitica Wish You Were Here (1975) dei Pink Floyd,
scritta da David Gilmour e Roger Waters: la ricordo eseguita nell’evento A Tribute To Heroes in onore delle
vittime dell’attentato alle Torri Gemelle di New York l’11 settembre del 2001 (a
interpretarla era Fred Durst dei Limp Bizkit con John Rzeznik dei Goo Goo Dolls).
Nell’ultima strofa ascoltiamo:
How I wish, how I wish you were here
We're just two lost souls
Swimming in a fish bowl
Year after year
Running over the same old ground
And how we found
The same old fears
Wish you were here
Le
“anime smarrite”, le “stesse paure di una volta”, il “vecchio terreno”… Ed ecco
il nostro senzatetto:
L’uomo solleva a
fatica le palpebre, rotea lievemente gli occhi verso l’alto, forse a cercare
gli angeli folli che si esibiscono in queste condizioni drammatiche. Una
lacrima, forse due, agli angoli degli occhi. Ma non è detto, la pioggia
battente schizza ovunque le sue gocce. Anche lui vorrebbe essere là, ma purtroppo non sono più i tempi delle risate folli,
non si torna indietro e il rimpianto può solo affogarti nel pozzo senza fine
della tristezza cieca.
Anche
la musica, ovviamente, nei testi aristotelici compie - con i mezzi opportuni,
rappresentati dalla voce, dal ritmo, dal linguaggio della melodia - una resa
mimetica del reale, del vissuto, un rispecchiamento del legame intercorrente
tra l’ambito immanente e quello intelligibile, non idealizzati, anzi concreti, fattuali,
composti di «caratteri, casi e azioni», pertanto istituzioni morali: in altre
parole, riguardo a quanto accade agli uomini e quanto essi stessi percepiscono delle
vicende proprie e degli altri.
In Aristotele, la κάϑαρσις equivale al distanziamento dalla pietà assoluta o dal terrore accecante per acquisire la natura del piacere estetico. Nel
racconto di Trapletti subentra una sorta di purificazione o catarsi,
rivolta non al lettore-spettatore ma al narratore in atto:
il pensiero torna al
diluvio della notte, quella colonna sonora che ho ascoltato a sprazzi in
sottofondo punteggiata dagli ululati delle sirene, io avvolto nel mio candido
piumoncino primaverile. Un fugace pensiero va al barbone incontrato ieri da
‘Cialdini’: dove andranno lui e quelli come lui a ripararsi da ‘sta valanga
d’acqua?
… è mai possibile
che dalla doccia mi colino in testa le note, i versi di “Wish you were here”?
Secoli, che non lo ascolto più, quel disco.
Saranno i vapori
della doccia, mi perdo fra le nebbie dei ricordi, dei sogni, dei sogni
ricordati, dei ricordi sognati...
Cosa
aggiungere? Il mondo ellenico credeva che il sogno disponesse della prerogativa
di preannunciare il futuro, ma tale opinione aveva la necessità di conciliarsi con
il punto di vista empirico, in quanto solo in una ridotta parte degli spazi
onirici si realizzava il presagio in essi contenuto. A ognuno di noi, dunque,
il compito di stabilire se i sogni affrontati dal giornalista nelle pagine di A Roma i sogni non dormono mai saranno o
potrebbero essere veritieri, senza chiamare in causa una meccanica coincidenza,
né il calcolo delle probabilità, tantomeno un intervento divino: semmai ricorrendo
alla sorte, alla mitica τύχη (tiùke),
o - in forma ancora più laica - al caso,
indisturbato viaggiatore in continuo transito nell’universo dei messaggi
letterari. (ci.ba.)
Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione durante la stesura del testo.