Al Teatro Ramarini di Monterotondo, serata unica per Progetti di delirio, testo di Alberto
Patelli con liriche di Angelo Mancini. Un viaggio tra alienazione e poesia,
memoria e violenza, cronaca e avanguardia.
Sulle
strade di Monterotondo, dopo un brevissimo tragitto da Roma, pensando allo
spettacolo al quale sono in attesa di assistere nel Teatro Ramarini, intravedo
dal finestrino dell’automobile il paesaggio in
corsa inserito in una specie di quadro metafisico in bianco e nero: color inchiostro
della carta, delle pagine, dove sono ospitate parole scritte della letteratura,
in prosa e poesia, copioni drammaturgici e filmici. Giunta nell’ampia sala,
circondata da un pubblico ben assortito, amando da sempre intensamente la
poesia sono incuriosita e attratta dall’idea di assistere a Progetti di delirio, composto dal testo
di Alberto Patelli e dalle liriche dell’amico poeta Angelo Mancini.
Organizzato
dall’Associazione Culturale “Camera 23” in collaborazione con il Comune di
Monterotondo e la Fondazione ICM, nasce da un’idea di impianto tecnico-narrativo
di chiara matrice semantica intertestuale,
incentrato com’è sul processo di trasformazione meta-linguistica di alcune liriche
di Mancini (tratte dall’antologia omonima di Sovera Edizioni) in una
performance tra le quinte, con la musica di Davide Di Francescantonio. Leggendo
la locandina, ed essendo anche una critica letteraria particolarmente impegnata
nel mondo dei versi, suppongo così di trascorrere una serata densa di emozioni abbastanza
singolari per essere vissute a ridosso di una ribalta.
Dinanzi
alla platea assorta nelle luci ancora accese, l’uomo di strada (Tony Fusaro) accede
dal foyer all’ampio palcoscenico: con passi silenziosi, ha percorso il
corridoio di destra accanto alle poltrone, quasi fosse una pirandelliana
creatura-personaggio proveniente da quel microcosmo di false apparenze, salendo
le scalette del proscenio quando il pesante sipario è chiuso. Dunque, per
adesso, sono tranquilla e rassicurata: ma, non appena, tra i fogli sistemati
sul leggio, l’attenzione è richiamata sulla fotografia sbiadita di un vecchio
paese, avverto l’impressione inquietante e insolita di aprire e scorrere le
pagine di un libro di figure, in grado, però, non di mostrarsi per noi (règle
du théâtre); al contrario, in un’atmosfera di sospensione abbastanza
impegnativa, sono in attesa che le nostre impressioni le esortino a
manifestarsi evocandole. Ed ecco il carretto, il somaro, le donne, il campanile,
la chiesetta.
Mi
chiedo subito fino a quale punto la scena mostrata voglia apparire pertanto
reale, pur nell’evidente matrice immaginaria, e se per tutta la durata del
viaggio utopico costruito - in procinto di inaugurarsi tra una battuta, un
verso, un accordo di note, una proiezione sul fondo - l’intenzione strutturale
sia quella di animare un’insistente visione dove proprio la domanda se guardare-ascoltare, o rivolgersi al vero
o falso, sia anacronistica. In un ciclo dialettico di essere e volere, sento
anch’io l’impulso di vivere “dentro” quella foto, e non in una metropoli caotica.
Il problema, conferma il viaggiatore, non è comunque l’ossessionante ordinario traffico,
piuttosto il non trovare «parcheggi per il mio disorientamento».
Il
personaggio, il non-eroe trascinato dal voler divenire, poco dopo se ne va nella
direzione di provenienza: benché lo sguardo, mentre si allontana da noi, sia
presto ricondotto lì, sul pesante tendaggio rosso, da dove sbuca una ragazza in
vestaglia bianca. È una giovane insolitamente florida per le scene, ma il
realismo del corpo tonico e delle curve morbide, invece di stupire perché fuori
luogo, cattura lo sguardo con realistica ed elegante naturalezza. L’abilissima,
però non istrionica Francesca Cama, si muove perciò flessuosa e acrobatica sulla
ristretta striscia della ribalta, nel silenzio generale, consumando un
intervallo spazio-temporale difficile da misurare.
Non si sa da dove venga, né dove vada, e sorride quasi confrontandosi con un
gioco di specchi all’altezza di rifletterne mille volte il profilo: in poche
linee, tra i margini della fantasia e del concreto, sorride danzando con lo
sguardo rivolto lontano, non tradendo alcun segreto prima di scomparire di
nuovo dietro il panneggio.
Una
volta spalancato il palcoscenico alla nostra vista, ho già compreso che l’impianto
ideativo della mise-en-scène, e delle
poesie suoi veicoli d’eccezione, è basato su quanto i costumi-valori
predominanti oggi nelle società consumistiche occidentali siano diametralmente
opposti all’immaginaria comunità dell’immediato. Nel lato sinistro estremo, la
figura di un ragazzino chino sul banco a scrivere cede il posto a un Uomo in
trench, quasi fosse gettato a forza al centro del palco, accompagnato da una musica
divenuta incalzante, nevrotica, mescolata a rumori di traffico, sirene di
ambulanze, squilli di cellulari: ne nasce un confronto incline a violare i
limiti imposti dai media al poeta,
all’artista, all’attore nel dichiarare la loro presenza, nel far conoscere i
bisogni che hanno l’uno dell’altro, poiché gli effetti di tutte le arti
contribuiscono urgenti a colmare le voragini minacciose, a volte adeguati a
tormentare noi e chi abbiamo accanto.
«Automobilisti
imbottigliati nel traffico della città (e senza televisione) la nevrosi esplode
inevitabile con le teste fuori dai finestrini fissano gli specchietti
retrovisori nell’aria uno strano odore di oscuri prodotti chimici enormi
cartelli pubblicitari e striscioni vistosamente colorati affollano le vie mille
ristoranti e negozi cozzano l’uno contro l’altro i volti della gente sono
smarriti preoccupati carichi di tensione sirene assordanti inquietanti di
ambulanze e polizia spaccano cuore e cervello per terra al margine della strada
accanto a dei cassonetti colmi di rifiuti cominciano ad accendersi tutt’intorno
le prime luci artificiali».
Il
monologo dell’attore Corrado Bega è fuori dubbio di alta dignità attoriale, con
una tecnica esperta, addestrato a sostenere apnee di respiro per lunghi periodi
allo scopo di mantenere la drammaticità serrata del testo: ne intercetto un
flusso ininterrotto di avanguardistica memoria, proposto con una metodologia
identificativa e naturalista primaria, seppure idonea a conservare quanto di
alienante e di impersonale giunge dai messaggi in corso. Una vita umana tra le
invadenze delle réclame,
l’inquinamento dei motori, il traffico bloccato e impazzito, le sonorità dei
clacson e il trillo dei telefonini. Tuttavia, nella storia delle percezioni
umane, sono stati sempre molto rari i cambiamenti di rotta radicali. Se così
non fosse, è chiaro, non potremmo tradurre nel codice prescelto, sia pure in
misura imperfetta, e con il sospetto di grande approssimazione, le forme
immaginative intellettuali anteriori alla società di massa: citiamo, ad
esempio, i miti, le poetiche, le fonti ispirative precedenti il XX secolo, come
fossero una parte perpetua integrante delle costellazioni
che formano in ognuno la coscienza.
Ed
è stata proprio la scrittura a stabilizzare quella che era solo un’ipotesi di
continuità: di conseguenza, in Progetti
di delirio appare attualissima una riscrittura originale dei continuum testuali e iconografici lasciati
in eredità dal Gruppo 63 (da Manganelli a Celati, da Balestrini a Giuliani) fino
ai fautori della scomposizione del linguaggio pubblicitario (uno su tutti: Lamberto
Pignotti). Forse, l’icona più inquietante appartiene a un padre alla guida, attaccato
allo smartphone e impegnato a suonare ritmicamente il clacson mentre urla al
figlioletto, nel sedile posteriore, di smettere di recitare a memoria la poesia
di Giovanni Pascoli imparata a scuola. In platea è ormai diffusa, lo sento, la certezza
di quanto la nostra civiltà e comunità di appartenenza siano soprattutto civiltà della parola, trascritta,
recitata, azionata, cantata. Negli intervalli in cui è stato disponibile un
itinerario oltre il ricordo
personale, allora è emerso il discorso poetico, sia esteriore che interiore. In
proposito, lo studioso e saggista francese George Steiner affermava: «Bisogna
ancora scrivere la storia affascinante, e forse decisiva, delle diverse
retoriche e dei vari livelli idiomatici di linguaggio usati dagli uomini e
dalle donne quando parlano a se stessi in quel flusso incessante di discorso
non pronunciato ma organizzato, che sottende e avviluppa la comunicazione con
l’esterno».
Qui
potrebbe precisarsi e trovare conferma il fil
rouge di Progetti di delirio, nel
copione di Patelli intrecciato alle liriche di Mancini. Nell’inferno di cemento
e lamiera, nel girone impazzito delle sonorità assordanti e sgradevoli, l’unico
rumore “molesto” sarebbe quindi quello dei versi poetici: inascoltabile, capace
di far saltare i nervi al genitore alienato, e tuttavia, per salvaguardarlo, custodito
dall’esponente di una gioventù non condizionata, sempre presente in questo lavoro.
«Vittime e nello stesso tempo complici di una società che appare impazzita», è spiegato
nelle note di regia, quasi «generatrice di paure, appesantita da pensieri
deliranti, da tristi illusioni singole e da vanità contingenti ed effimere,
schiava di velocità idiote, ci scopriamo desiderosi di qualcosa di diverso, di
umano. Forse lo troviamo nei ricordi del nostro passato, nei tormenti interiori
che nascondono in noi qualcosa che ci sembra, adesso, profondamente e
paradossalmente fuori tempo… la poesia, l’epica umana».
D’improvviso,
nello spazio del Teatro Ramarini di Monterotondo, dove una serie di quinte nere
delimita un secondo sipario “a sacco” a far da terza parete, torna il silenzio,
e le luci rischiarano la scena: l’Uomo si avvicina lentamente al tavolino su
cui l’oste (lo stesso Alberto Patelli) ha appena disteso un’allegra tovaglia
colorata, mentre lo schermo sullo sfondo rimanda il rumore dolce del mare e il
lieve sciabordio della risacca. Si snodano i versi magici e ricchi della semantica
coinvolgente di Angelo Mancini: «Poesia / libertà / follia / liberazione / (rivoluzione
?) / fuggire fuggire», declama l’uomo, un po’ rinfrancato, «e penso nuovi
progetti / e sono sfacciato / farò come sempre / quei pochi lettori / in fondo
son buoni”. Spiagge pulite, cielo limpido e sole prepotente, una trattoria
solitaria, simile a un miraggio: «Di getto di getto / dovrei lavorare / scorrendo
flusso dell’ansia / dei nervi / dei sensi / con dolorosa impazienza / caos di
parole / rischio? / (oh severi critici letterari / eque giurie togate / candidi
professoroni) / prezzo non hanno / poesia / libertà / follia».
La
pièce, ne sono ora convinta, vive
oltre i margini di un campo denotativo della parola dove ogni unità di vocabolo
e contenuto è necessariamente traducibile con un altro genere di parola: «Entrare, uscire, salire,
giacere, pendere sono, per esempio, porzioni di contenuto molto bene segmentate»,
spiegava Umberto Eco, «le quali riguardano il comportamento corporale».
Inoltre, precisava: «Questi “segmenti di comportamento” sono culturalmente catalogati
e hanno anche un nome. Tuttavia, le esperienze recenti in cinetica dicono che
un gesto può essere descritto molto meglio attraverso una stenografia non
verbale per quanto riguarda il piano dell’espressione, e attraverso le
registrazioni cinematografiche o risposte comportamentali per quanto pertiene alla
descrizione del suo contenuto».
Adottato
un simile punto di vista critico ed esegetico, è agevole comprendere a pieno la
prospettiva narrativa della trattoria decifrata nell’essenza di episodio dal
sapore autobiografico, reso alla massima potenza attraverso il “nome-nomi” di
cui dispone, còlto all’interno di tutta la serie di influenze operative e
fantasiose citate da Eco. Emergono i confini semantici dell’allestimento di un
ricordo, collocato nel segno dello
svanire del vincolo coniugale: in una fuga forse gioiosa, di certo nutrita di
libertà, nell’ebbrezza di una vita da riconquistare abbandonando il dolore al
passato.
L’ordinazione
all’oste è volutamente esagerata: «Mi porti antipasto di mare, risotto alla
pescatora, linguine all’astice, crema di scampi, spaghetti con le vongole
veraci, timballo di mare, branzino al caviale, insalata al salmone, scampi alla
graticola, cotolette di merluzzo, orata al cartoccio, baccalà coi capperi». Nel
primo ‘900, Massimo Bontempelli, scrittore e giornalista, suppongo gradito ad
Angelo Mancini, sottolineava: «Il poeta lirico, o poeta puro che dir si voglia,
si nutre esclusivamente di insalata, frutta crude, e la domenica formaggio».
Poi, nel dettaglio, precisava: «Il poeta impuro, cioè il romanziere, può anche
mangiare cose cotte, pur che se le faccia cuocere da sé».
Insomma,
la poësis sembrerebbe coltivare «un’idea
del cibo felicemente povera e frugale», osserva Maurizio Cucchi, ricordando Arthur
Rimbaud in Au cabaret vert, dove il simbolista
francese si “accontenta” di prosciutto profumato all’aglio, crostini imburrati
e un boccale di birra. Nella trattoria marina di Progetti di delirio siamo invece nei pressi del microcosmo di Carlo
Porta, incontenibile estimatore della cucina, e ancor più nell’orbita di
Pierpaolo Pasolini: con lui è agevole lasciarsi trasportare nella mente,
nell’anima, sul litorale tra Ostia e Torvaianica. Ma come? Quando? Semmai in
compagnia di un tavolino su cui sortisca la visione di uno degli “accattoni”
accomodati, in un banchetto pantagruelico immateriale, sognante, infinito, di
pura immaginazione.
«Dunque
lei… è un poeta…», chiede l’oste: «Diciamo che sono l’amico di un poeta…», è la
risposta dell’avventore. Si alza, lascia il tavolino, conquista il centro del
palco e “porge” i versi di Mancini, enigmatici e con segnali in sospeso, su colui che crede di essere, in alternativa,
un guerriero, un profeta, un eroe, un leone, un gorilla, per trovarsi infine -
ospite di un manicomio - imprigionato nella camicia di forza: «Solo un poeta /
che troppo sente. / Solo un poeta, / forse, son io». Associo al brano alcune
note di Umberto Eco, dove è possibile reperire una testimonianza di teoria
semiotica del complesso di forze poetiche complementari e antagoniste, le
stesse animate nell’opera teatrale in oggetto: «Più un testo è complesso, più
complessa appare la relazione tra espressione e contenuto. Ci possono essere
semplici unità espressive che veicolano nebulose di contenuto, galassie
espressive che veicolano precise unità di contenuto, precise espressioni
grammaticali composte di unità combinatorie, che in certe circostanze veicolano
drammatiche nebulose di contenuto eccetera».
Come
incastrata in un affine flusso di elementarità e complessità sensibili, di unità significative e galassie significanti, mentali e
poetiche, recitate o incagliate nel ritmo di versi, scorgo di nuovo la scena avvolta
dalla penombra. Il fondale è ora invaso da una luce rossa su cui si agitano silhouette di persone e oggetti: sulla
sinistra, una vettura parcheggiata, con il portellone posteriore alzato. Dal
background ossessivo dei riff di chitarra elettrica si staglia la voce
metallica di uno speaker radiofonico (Edgardo Prosperi): «La luce era rossa
radiosa e illuminava la città i bambini giocavano festanti nel bel giardino
pubblico gli spettatori si erano abituati ad immaginare il sublime l’auto con
il cadavere nel portabagagli fu abbandonata in fretta in una via già ben
stabilita». Rivive così, in forma cronachistica d’antan e ben rimodulata nell’involucro scenografico, lo
psicodramma più grande del nostro dopoguerra: il ritrovamento del cadavere di
Aldo Moro in una stradina del centro storico di Roma.
Di
nuovo luce sul palco, e ancora il leggio, davanti al quale l’Uomo recita Il caos e la Piramide, tragica
rievocazione della morte di Pasolini trasfigurata in metafore “eccessive”,
disturbanti, truculente: il poeta, «vestito con una minigonna color lilla»,
viene accerchiato e mutilato «da donne seminude con stivali anfibi muscoli
d’acciaio e folti peli sul petto», quindi lasciato sanguinante sul selciato,
esposto ai flash dei turisti giapponesi e alla vigilanza conformista di giovani
invasati usciti da una discoteca. Di lato, nel chiaroscuro, la danzatrice in
tuta nera attillata segue i versi con movenze stilizzate, fino all’ultima
terzina, quando sul palco resta solo un cono di luce.
In
omaggio alla società dei testimonial,
il brano di Mancini riproduce quel vicino/lontano passato: «Uno psicologo
psicopatico insieme ad un / sessuologo sessuofobico / erano stati indicati
quali possibili mediatori / in seguito cambiata idea venivano scelti / altri
tre mediatori / un prete televisivo omosessuale / un critico letterario di
tendenza (incerta) / e un cameriere calvo e storpio di una pizzeria / vicino
alla stazione laureato in antropologia culturale / presso la facoltà di
sociologia ed esperto / di teorie e tecniche delle comunicazioni di massa».
Trapela
qua e là, nella simbologia fitta di tale trama di lessico e messaggio, un
tentativo di ricognizione interpretativa di un Logos salvifico, per quanto, a scelta, pagano o spirituale. Ancora
George Steiner una volta ha confessato: «È possibile che la nostra civiltà,
così imbevuta di rappresentazione nei costumi linguistici e nelle forme estetiche,
non sarebbe potuta evolvere, se non avesse violato, magari inconsciamente, il
comandamento che vietava la fabbricazione di immagini. È proprio la funzione
purificatrice della decostruzione a dimostrare questa trasgressione»: cioè, è
qui il caso di suggerire, lo “strappo”, l’inosservanza - ad onta del consentito
- della norma di costruire a ruota immagine su immagine per sopravvivere nel
vacuo e nell’orrore.
Dal
maggio ’78 dello choc di Moro al novembre ’75 del massacro di Pasolini, si
continua di nuovo a ritroso, nei primi anni ’70, quando il giovane Mancini animava
seminari e corsi specifici all’interno di quella squadra accademica sui mezzi
di comunicazione di massa radunato al Magistero di Roma intorno alle cattedre
di Ivano Cipriani ed Evelina Tarroni, con la presenza prestigiosa
dell’enciclopedico Mario Verdone a dirigere il primo insegnamento di Storia del
Cinema (al cui interno, dice la leggenda, riuscisse a bocciare il figlio Carlo
presentatosi impreparato…). E quel garçon
ferratissimo sui mass media, nella pizza a taglio «vicino alla stazione»,
richiama la storica sede del Magistero, ai piani alti di un essenziale e moderno
palazzo in via dei Mille.
Di
nuovo rivolto al ristoratore, l’uomo commenta: «Eeeh, quel mio amico poeta! Non
deve essere facile sentirsi così… come dire?… inseguiti su un asse di
equilibrio e incerti sull’esito dell’eventuale caduta: ci si schianterà su un
incubo, su una farneticazione o su che altro? ma poi, secondo lei, oggi come
oggi, un poeta ha un senso?». Quando dalle quinte fa capolino un’ammiccante
ragazza in bikini rosa, l’avventore dimentica per un attimo i dubbi che lo
assalgono («Il delirio è l’unica possibilità, di questi tempi, per sentirsi liberi
da tutto, compresi noi stessi?») e si lancia con lei in un balletto arroventato
(«Fuoco, fuoco / nei capelli / nel cervello / nelle mani. / Fuoco, fuoco / nelle
braccia / nelle gambe / nelle vene»). Subito dopo, con un rapido cambio di abito, la
giovane rientra fasciata di lamè e orlata di tulle vaporoso, a intrecciare
passi di danza con l’oste il quale, chaplinianamente, tiene in precario
equilibrio un piatto di cozze.
«Ecco,
basterebbe questo», commenta l’Uomo, «basterebbe insomma che ognuno di noi
riuscisse a tirar fuori quel poco di poesia che nasconde con paura dentro di
sé, per dare al poeta la forza di scrivere ancora, nonostante tutta l’assurdità
della vita che percepisce…». Risuonano, in complessi semantici così
organizzati, alcuni concetti espressi dal professor Emilio Garroni: «Vuol dire
anche che la consapevolezza delle condizioni del parlare e del conoscere, non
semplicemente passa attraverso il
linguaggio, così come passa attraverso
l’operazione [di lingua-codice] ma, per così dire, si ferma in esso, si istituzionalizza
in linguaggio, si proietta e si specifica insomma in “strutture forti”».
Ebbene, forti e robusti, benché aperti e polisensi, sono dunque gli intrecci di
regole formali e logiche, di stile e contenuto attualizzate e animate
nell’intero spettacolo di Patelli, dotati di un’intensa stabilità diacronica
(vale a dire: del “mentre si racconta”), veicolata dalla sincronia (in un
insieme di associazioni suggerite del versificare dei brani di Angelo Mancini).
Adesso
rinfrancato dal cibo, dal vino, dalla sensuale bellezza, dalla compagnia dell’interlocutore,
cullato dall’eco del mare, l’avventore si lancia in un’appassionata interpretazione
del brano Funerale a Carnevale (tra i
miei preferiti del repertorio manciniano): «Che spettacolo stupendo / ci
propone questa vita! / Non ci si capisce
niente: / tutto è assurdo, incoerente… / È un teatro straordinario / che
incomincio ad apprezzare; / or ne son certo, sicuro… / e vi prego, vi
scongiuro, / non calatemi il sipario… / non calatemi… il sipario…».
Ora
cresce la luce sul fondale: il ragazzino (Alessandro Stufera), tornato in
scena, abbandona il banco e con l’uomo si incammina lentamente verso il
proscenio, nella direzione del pubblico. Nel foglio tenuto in mano, il testo
della poesia Un graffio al cuore, con
le ultime righe: «Com’è difficile, / amore, / fare poesia / oggi / tra finti / gretti
/ untuosi commerci / che stancano / e graffiano il cuore…». Ma la volontà di
resistere (per orgoglio? vocazione? follia?) ha il sopravvento: «Anche se il
sole, / ormai, / è dietro le spalle / e la penna, / che scorre sul bianco
quaderno, / è già spuntata… da un pezzo…».
Con
queste battute finali, i due invertono il cammino e scompaiono sul fondo. Il
finale di Progetti di delirio di
Patelli e Mancini conduce in un tramonto, naturale e umanissimo, nel momento
stesso in cui auspica e promuove un’alba a venire, una rinascita. Nel doppio
senso della parola “spuntata” che accomuna l’illuminazione immensa dell’aurora
alla pratica di scrittura fisica, concreta, materiale, di ogni scrittore. Purtroppo,
quando esco dalla sala, è notte, e dovrò aspettare ancora qualche ora per
cercare di vivere quel genere di aurora.
Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla
stesura del pezzo.
Progetti di delirio
testo di Alberto
Patelli
liriche di Angelo
Mancini
con Corrado Bega
(l’Uomo), Alberto Patelli (l’oste),
Francesca Cama (la danzatrice), Alessandro Stufera (il ragazzino), Tony
Fusaro (l’uomo di strada), Edgardo Prosperi (voice over)
organizzazione
generale Alessandro Cialli, musiche Davide Di Francescantonio, direttore di
scena Primo Mancini, fonia e luci Saverio de Iorio, animazione video Rocco
Lotito, fotografie Officine Visuali - Wedding Photos & Films
regia di Alberto
Patelli
Organizzato dall’Ass.ne
Culturale “Camera 23” in collaborazione con il Comune di Monterotondo e la
Fondazione ICM.
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