venerdì 1 dicembre 2017

Claudio Camerini - L’olio e l’olivo tra letteratura, arte e produzione





Con un incontro dedicato all’olio e all’olivo, tra letteratura e storia, arte e tecniche produttive, l’Associazione Culturale “Euterpe” ha concluso il ciclo di incontri “Sapori tra le righe”. Sull’evento del 12 novembre scorso a Jesi (Galleria degli Stucchi della Pinacoteca Civica, Palazzo Pianetti), riproponiamo l’articolo di Claudio Camerini.





Claudio CAMERINI - L'olio e l'olivo tra letteratura, arte e produzione





 
 



Nel Vangelo di Matteo (25,1-13), Gesù narra la parabola delle vergini stolte e delle vergini savie. Rispettando l'uso dell'epoca, a dieci ragazze illibate viene affidato il compito di andare incontro allo sposo nel giorno nuziale: ciascuna ha condotto con sé una lampada accesa, ma solamente cinque, le più avvedute, portano una riserva di olio. Il festeggiato tarda ad arrivare e, a un certo punto, le fanciulle, affaticate dall’attesa, si addormentano. Le lampade si spengono: allora le cinque malaccorte, prive di olio, ne chiedono alle sagge. La risposta coincide con un rifiuto dettato dall’indispensabile buon senso pratico: in tal modo, verrebbe a mancare alle une e alle altre. Mentre sono al negozio a far provvista, ecco giungere lo sposo. Alla cerimonia, di conseguenza, partecipano solo le prime, e le altre restano escluse a causa di un irrimediabile ritardo. Le prudenti rappresentano chi rettamente ha fede e vive con laboriosità, le stolte quanti, pur credendo, non si preparano con opere buone a raggiungere il Cielo.
Prima della cospirazione del Sinedrio e dell’ultima cena, è questo uno degli ultimi racconti di Gesù riportati da Matteo: lo sposo sarebbe Cristo, le vergini i fedeli, le lampade la fede. L’olio, infine, è la carità operosa, di cui non si dovrebbe mai lamentare l’assenza per essere ammessi alla festa dei Cieli. Il Nuovo Testamento elenca numerosi riferimenti in tal senso: basterebbe ricordare, nel Vangelo di Luca (10, 30-35), l’episodio del buon Samaritano, pronto a curare le ferite del giudeo in conformità all’uso dell’epoca: lavare le piaghe con il vino, quindi calmare l’irritazione con un unguento oleoso.
 



La Bibbia, letteratura sacra ed ebraica, abbracciando una temporalità di circa 1500 anni, è sviluppata attraverso numerose, comprensibili mutazioni: differenti sono, infatti, la lingua ebraica da Mosè fino al regno di Saul (1500-1000 a.C.), il codice adottato dalla fondazione del regno all’esilio babilonese (1000-586 a.C.), e quello del  terzo periodo, dall’esilio all’età cristiana (586-1 a.C.). Comunque, tra le molte edizioni formulate della βιβλία (biblìa, in greco: i libri), la traduzione in lingua ellenica possiede la massima autorità, mentre quella in latino - tradotta nel IV secolo da S. Girolamo e nota sotto il nome di Vulgata - dal Concilio di Trento (1545-1563) in poi è stata dichiarata autentica ai testi originali. Nel nostro caso, le innumerevoli citazioni bibliche sull’olio e l’olivo non vanno assegnate a diversi contributi creativi: piuttosto, strumentalmente vanno presupposte e considerate appartenenti ad un unico autore principale, ossia Dio: il quale, senza alcun dubbio teologico né filologico, si serve sempre degli agiografi nella qualità di autentico strumento, libero e intelligente, di cui ha elevato in via soprannaturale le facoltà. Argomento e idee rimangono, perciò, di un autore sui generis, il Padre Eterno, mentre umani sono il repertorio, l’ordine logico, il genere letterario, lo stile della lingua storica.

L’Associazione Culturale “Euterpe” riserva al prezioso elemento, l’elaion (ἔλαιον) dei Greci e l’oleum dei Latini, il posto centrale del convegno di domenica 12 novembre a Jesi, seconda tappa degli incontri compresi nel titolo “Sapori tra le righe”. Dopo l’argomento miele (trattato lo scorso 15 ottobre presso la Chiesa di San Bernardo e l’annesso Museo della Stampa), tocca ora a “L’olio tra letteratura e produzione”, con interventi di genere letterario, artistico e storico-tecnico, preceduti da una ouverture poetica dell’artista e performer recanatese Amneris Ulderigi.
Al prof. Giampaolo Vincenzi dell’Università degli Studi di Macerata è affidato l’esordio, con una prolusione intitolata “Per la bocca: parole e olio”. «Possiede la doppia natura di alimento e condimento», spiega il professore, «e accompagna lo sviluppo dell'umanità fin dalla preistoria. L’essere liquido e contemporaneamente insolubile in acqua lo fa partecipe di un’esistenza ambigua e mitica».
 
 


Il sistema testuale della letteratura italiana e straniera contiene innumerevoli simboli e cenni rappresentativi: citazione d’obbligo è il francese Frédéric Mistral, premio Nobel nel 1904. Ne riportiamo alcuni famosi versi: «Il tempo che si rinfresca ed il mare che si increspa, / Tutto mi dice che l’inverno è arrivato per me / E che bisogna, senza indugio, raccogliere le mie olive, / E offrirne l’olio vergine all’altare del buon Dio».
Anche i nostri poeti hanno deciso di rendere omaggio al prezioso elemento: Gabriele D’Annunzio ne rilevò, da par suo, le caratteristiche estetiche, immaginifiche, di puro piacere dei sensi, definendolo «chiaro assai più liquido cristallo, fragrante quale oriental unguento». Pascoli, per proprio conto, volle metterne da parte la natura di alimento vitale per sottolineare invece l’importanza rivestita in una vita quotidiana rimasta ancora refrattaria al vicino trionfo dell’èra elettrica: «Tu, placido, pallido ulivo, / non dare a noi nulla; ma resta! / ma cresci, sicuro e tardivo, / nel tempo che tace! / ma nutri il lumino soletto / che, dopo, ci brilli sul letto / dell’ultima pace!».
L’andaluso Federico Garcia Lorca, pochi decenni dopo, fu autore di un singolare componimento animistico, quasi un quadro di Van Gogh composto da due soli colori: «Cielo azzurro / Campo giallo / Monte azzurro / Campo giallo / Per la pianura deserta / Sta camminando un ulivo / Un solo / Ulivo».
Toccherà, però, al cileno Pablo Neruda donare uno splendido inno all’ulivo «dal volume argentato, stirpe austera», e ai suoi frutti «verdi, innumerevoli, purissimi picciuoli della natura». Dopo aver evocato le piantagioni di Chacabuco in Cile, di Anacapri, della Spagna, cambia registro costruendo una micro-epica di natura gastronomica: «Olio, / recondita e suprema / condizione della pentola, / piedistallo di pernici, / chiave celeste della maionese, / delicato e saporito / sulle lattughe / e soprannaturale nell’inferno / degli arcivescovili pesciprete».
A riguardo, spiega il prof. Vincenzi: l’olio è «esattamente come le parole che, attraversando la bocca, accompagnano lo sviluppo della civiltà umana, rendono lubriche le asperità della storia, ne accarezzano la bellezza». In una ideale consonanza con le strofe di chiusura di Neruda: «Ci sono sillabe di olio, / ci sono parole / utili e profumate / come la tua fragrante materia».
 

 

Il progetto “Sapori tra le righe”, dell’Associazione Culturale Euterpe, gode del sostegno morale del Comune di Jesi, della Provincia di Ancona, delle Università degli Studi di Perugia e della Politecnica delle Marche. L’appuntamento di domenica 12 novembre sarà alle 17.30 presso la Galleria degli Stucchi della Pinacoteca Civica di Jesi (Palazzo Pianetti).
L’intervento di Cinzia Baldazzi, scrittrice e critico letterario, è intitolata “L’olio e l’ulivo nella letteratura”: sviluppa un excursus «nel mondo antico, religioso e letterario, con ampio ricorso alle fonti epico-mitologiche», introduce la Baldazzi, «poiché da lì nascono le connotazioni collegate a simboli e immagini di pace, lavoro, nutrimento, ingegno, vittoria, onore».
La panoramica si estende a quasi tremila anni di storia, dal 1500 a.C., nell’epopea di Mosè, al 1300 inoltrato, tra le metafore dantesche della Divina Commedia, con un breve intermezzo nel medioevo maomettano e coranico delle Mille e una notte di Ali Babà e Aladino.
Nell’antico Libro dell’Esodo, séguito della Genesi, il Signore istruisce Mosè sui modi per preparare una miscela profumata con cui ungere la tenda, l'arca, la tavola, il candelabro e l'altare: «Questo sarà il mio olio di consacrazione per tutte le generazioni future». Spiega la Baldazzi: «La classica durezza e intransigenza del linguaggio cui Mosè ci ha abituati quando si rivolge al popolo eletto, è il riflesso dei comandi inappellabili di Dio». E nel logos divino si trovano accenti in grado di sorprendere il lettore moderno: «Nessuno dovrà adoperare quest’olio per il suo corpo. Non ne farete un altro uguale, della stessa composizione. Chiunque ne produrrà uno uguale, o ne darà a un estraneo, sarà sterminato dal suo popolo». Ecco una sorta di rivendicazione di paternità, una minacciosa e terribile attestazione di copyright ante litteram, un diritto d’autore capace di mettere in guardia eventuali versioni falsificate o utilizzi apocrifi.
Con un salto temporale di oltre tre millenni, assistiamo ai riti attuali della cattedrale greco-ortodossa di Santa Sofia a Washington, dove il battesimo con olio di oliva e acqua significa salvezza. L’accostamento tra l’alba della vita e il tramonto della morte non è solo uno scongiuro metaforico di buon augurio: è dettato anche dalla necessità pratica di rendere il neonato così scivoloso al diavolo da potergli sgusciare dagli artigli nel malaugurato caso dovesse tentare di afferrarlo: «L’olio permette al bimbo di sfuggire alle mani del demonio», spiega padre John Tavlarides. E alle sue? «Finora non me n’è caduto nessuno…».
 



Il saggio della Baldazzi, prendendo l’avvìo dalla colomba di Noè dopo il diluvio, viaggia pertanto nell’antica Grecia, con la mitica fondazione di Atene nel 2000 a.C. sotto il segno di un albero di ulivo fatto scaturire da Minerva; racconta il mito di Aristeo, figura archetipica di agronomo, scopritore delle tecniche di innesto e autore del primo torchio per la spremitura; descrive il letto nuziale di Odisseo e Penelope, costruito sul tronco di un possente esemplare della famiglia delle Oleacee, tagliandone la chioma ma senza sradicarlo; riporta passi di Omero, Eschilo, Polibio, riconduce in chiave utopica a rivivere Polifemo e Agamennone, Ercole e Cecrope.

Riguardo all’antica Roma, vengono ricordati i trattati di Cicerone, Diodoro Siculo, Varrone, Columella, nonché la descrizione delle principali varietà di oleum nell’ordine gerarchico stilato da Plinio: ex albis ulivis (il nostro extra-vergine), viride (ricavato da frutti maturi), maturum (da olive nere), caducum (mediocre, estratto dai frutti caduti a terra), cibarium (di pessima qualità, tratto da olive aggredite da parassiti e destinato in parte all’alimentazione degli schiavi).
Di Virgilio, infine, è sottolineata la funzione densa di sacralità esaltata nell’Eneide (29-19 a.C.), nel funerale di Miseno, con l’olio usato per lavare la salma e alimentare la pira, e un rametto d’ulivo a spruzzare acqua lustrale (libro VI, 212-235). Nel fluire prosaico, quotidiano, è invece notevole il bozzetto delle Georgiche (36-29 a.C.) dedicato all’asinello caricato di un pesante bagaglio: «Sulle schiene gl’impon pesante soma /d’olio o di vil frutta» (libro I, 272).
 

 
Nella cornice appropriata delle sculture in legno d’ulivo esposte dall’artista jesino Leonardo Longhi, a Martina Donadoni è affidata la relazione sull’arte pittorica: un viaggio ideale a partire da Vincent Van Gogh, passando per gli impressionisti sino all’opera Olivestone di Joseph Beuys.
«Qui ci sono dei campi bellissimi con ulivi dalle foglie grigio argento, come salici cimati», scrive Vincent Van Gogh alla madre il 2 luglio 1889, dopo aver appena terminato il primo di una quindicina di quadri a essi dedicati. All’ennesimo deliquio, comprendendo di essere malato fisicamente e spiritualmente, Vincent era entrato volontariamente nel mese di maggio alla Maison de Santé di Saint-Paul-de-Mausole: un vecchio convento adibito a ospedale psichiatrico a Saint-Rémy-de-Provence, vicino ad Arles. Alloggia in una stanza con un tappeto grigio-verde, un divano logoro e una finestra sbarrata sul giardino della clinica: oltre, il panorama si spinge ai campi e alle montagne delle Alpilles, l'ultima catena delle Alpi francesi. Avendo a disposizione un'altra camera vuota per lavorare, può andare a dipingere anche fuori dal manicomio, accompagnato da un sorvegliante: sono nate così, la maggior parte in autunno, le straordinarie pitture delle distese arboree grigio-verdi circostanti, un soggetto fino a quel momento da lui evitato.
Dei suoi «venerabili ulivi nodosi», ha scritto: «L’effetto della luce diurna e del cielo significa che ci sono argomenti infiniti che si trovano negli alberi di ulivo. Per quanto mi riguarda cerco gli effetti contrastanti del fogliame, che cambia con i toni del cielo».
 

 
Trova le radici in una matura coscienza ecologista l’opera del tedesco Joseph Beuys, tra i fondatori dei Verdi in Germania. Alle Seychelles, impegnato a piantare palme, conosce Lucrezia De Domizio e il marito, il barone Buby Durini: i due nobili italiani diventano suoi mecenati e Beuys si trasferisce in Abruzzo, a Bolognano, nel pescarese, dove concepisce il progetto della Piantagione Paradise, dedicato a far rivivere settemila arbusti e alberi in via di estinzione. Nel 1984 cerca di ripetere il tentativo a Kassel, nell’Assia tedesca, invitando ad “adottare” un arboscello di quercia fino a comporre un intero bosco. Inizialmente i cittadini si oppongono, in quanto la selva, una volta cresciuta, avrebbe occupato terre destinate a un parcheggio. Beuys risponde però che le piante, in dialogo col vento, sono molto più intelligenti degli uomini, aggiungendo con sagacia: «Non siamo noi a piantare gli alberi, ma sono gli alberi a piantare noi».
A Bolognano, pochi mesi dopo, concepisce e realizza Olivestone con le vasche di decantazione per l’olio dei Durini: cinque distinti elementi, al pari dei continenti e delle dita della mano. Le sculture sono costituite da pesanti parallelepipedi pietrosi chiusi da una lastra di arenaria immersa nell’olio d’oliva. Secondo le intenzioni di Beuys, l’olio nutre la pietra, in un bagno rituale la lucida a specchio. La gravità del materiale è alleggerita dalle varianti superficiali delle facce, colpite dalla luce e mosse da cangianti cromatismi. Non si tratta di un contrasto, bensì di un dialogo, tra la durezza della ragione, dell’ordine e della morte, e il disordine dell’olio vitale, il cui calore rianima la geometria dei sarcofagi.
 

 
Infine, il prof. Enrico Maria Lodolini presenterà lo stato dell’arte sulle produzioni olivicole-olearie. Dopo aver descritto le caratteristiche peculiari della specie, illustrerà le tecniche colturali più idonee ai diversi modelli d’impianto, in coerenza con le specifiche condizioni climatiche. A ideale corredo, avrà luogo una degustazione finale a cura dell’Oleificio “Oro Antico” dei Fratelli Mosci di San Marcello (Ancona).
Lo sguardo si rivolge, allora, di nuovo all’antichità, spesso travisata da un’aura certamente mitica, benché espressione verosimile di realtà storiche. Sebbene si abbiano notizie di noccioli di seimila anni fa, portati alla luce dagli scavi nell’attuale territorio di Israele e Libano, è la figura mitologica di Aristeo a personificare il ruolo di proto-coltivatore: qualcosa di paragonabile, nel Nord America del primo Ottocento, a John Chapman, il noto ambientalista statunitense Johnny Appleseed, Giovannino Seme di Mela, piantatore instancabile di decine di migliaia di meli dalla costa Atlantica a quella Pacifica. Aristeo, nell’antichità, sembra comunque sia stato il primo a innestare l’olivo con l’olivastro, originando così il vegetale ancor oggi conosciuto, e a realizzando poi una forma seppure rudimentale di torchio. 
Quanto alla Roma imperiale, un cittadino consumava circa due litri di olio al mese: il frutto della prima spremitura costava ottanta denari a litro, molto più di un ottimo vino. A parere di Plinio, il migliore giungeva dalla zona sannitica di Venafro, nell’attuale Molise: il primato spettava però alla miscela dell’Istria, al punto di divenire ben presto oggetto di adulterazioni. Gaio Apicio, nel suo De re Coquinaria, forse il più antico, sistematico e conosciuto “talismano della felicità”, riporta una ricetta grazie alla quale è possibile la contraffazione dell’olio spagnolo della Betica (apprezzabile, ma non di qualità eccellente) così da poterlo spacciare per istriano.
 

Nulla di nuovo, quindi, dopo due millenni, nemmeno sul versante delle battaglie per aggiudicarsi la palma del più buono. Greco? Italiano? Spagnolo? «Le olive e l’olio greci sono i migliori», non ha dubbi Konstantinos Kokkalis, contadino ateniese: fin dalla mitica nascita come dono di Atena, la pianta è stata onorata nella penisola ellenica, dove si registra il più alto consumo pro capite di olio di oliva: «L’ulivo è benedetto da Dio», conclude Kokkalis. A tutt’oggi, il novantanove per cento proviene dalle rive del Mediterraneo: Spagna, Italia, Grecia, Turchia, Tunisia, Siria. Nonostante si collochino solo al terzo posto per quantità di tonnellate prodotte, sono i greci (forse in virtù dell’antenato Aristeo) ad attribuirsi il primato sul versante della qualità.
Anni fa, durante un reportage in terra ellenica, la giornalista Erla Zwingle intervistava per “National Geographic” un agricoltore. «Mi dica», la interruppe l’uomo bruscamente, «da dove pensa che venga l’olio migliore?». La donna sapeva quale risposta si aspettasse l’interlocutore, ma non lo accontentò: «Facile», replicò, «l’olio migliore viene dal Paese che ha le donne più belle».
 
 
Info:
Tel. 327 5914963
 
 




 I RELATORI
 
Giampaolo Vincenzi, professore di discipline letterarie presso l’Università di Macerata, ha pubblicato in riviste e antologie e partecipato a numerosi convegni e dibattiti accademici. Relatore in seminari, incontri tematici e laboratori, tra suoi interessi figurano le letterature comparate, la linguistica generale, gli studi di genere e la didattica dell’italiano. È anche poeta e socio fondatore di alcune associazioni culturali tra cui “Licenze Poetiche” di Macerata e “Vacuna” di Rieti.
Cinzia Baldazzi è nata e vive a Roma. Laureata in storia della critica letteraria presso la facoltà di Lettere e Filosofia alla “Sapienza” di Roma, scrive da sempre di teatro, dapprima su quotidiani e riviste, ora sulla testata “Scenario” di cui è vice-direttore. Nel 2011 ha commentato le poesie di Maurizio Minniti in Passi nel tempo, nel  2015 ha curato il lungo saggio introduttivo di Orme poetiche rintracciando una seconda generazione leopardiana, l’anno dopo è stata co-autrice di EraTre, con il poeta Concezio Salvi e il pittore Gianpaolo Berto. Ha curato numerose note e prefazioni ad autori contemporanei e partecipato come giurata e presidente a vari concorsi letterari.
Martina Donadoni è laureata in Italianistica, Culture Letterarie Europee, Scienze Linguistiche presso l’università degli Studi Bologna. Si occupa di didattica museale, organizzazione di eventi e visite guidate presso la Pinacoteca Civica di Jesi. In passato ha tenuto lezioni di Storia dell’Arte dal titolo “L’amore tra arte e poesia”.
Enrico Maria Lodolini ha svolto un dottorato in Arboricoltura nel 2006 presso l’Università Politecnica delle Marche di cui è docente a contratto dall’a.a. 2010/2011. È ricercatore del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (CREA OFA) di Roma, nonché docente di corsi di Arboricoltura e Olivicoltura, di corsi tecnico-professionali a livello nazionale e internazionale con istituzioni pubbliche e associazioni di produttori su tutte le tematiche della tecnica colturale dell’olivo. Ha partecipato a numerosi convegni e seminari nazionali e internazionali, e ha pubblicato un’ingente quantità di articoli su riviste straniere, atti di convegni, capitoli di libri in monografie, volumi divulgativi.  



















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