Cinzia BALDAZZI - “Fantasmi sotto sfratto”,
tre atti di Andrea Lepone
tre atti di Andrea Lepone
Tra suggestioni
epico-didascaliche e divertimento puro, l’autore Andrea Lepone ha messo in
scena, con la regia di Maurizio Spoliti, la pièce
in tre atti “Fantasmi sotto sfratto” (Roma, Teatro dei Frassini).
Il
londinese William Blake, illustratore della Divina
Commedia, dunque esperto, come dire, della vita ultraterrena, un tempo
scriveva:
Un secolo dopo nel fiorente, verde stato del Maine, Stephen King, maestro dell’horror letterario e ispiratore del suo doppio filmico - quindi visivo - egli pure, pertanto, erudito nella tematica, precisava:
I mostri sono reali
e anche i fantasmi sono reali. Vivono dentro di noi e, a volte, vincono.
Quest’ultima
ipotesi potrebbe essere la sigla della pièce
in tre atti Fantasmi sotto sfratto di
Andrea Lepone, giovane poeta e drammaturgo (la commedia risale ai suoi ventun anni),
a conferma utopica di quanto accadde nel plot
del film Fantasmi a Roma (1961) di Antonio
Pietrangeli, con la sceneggiatura di Ennio Flaiano.
La
Compagnia del Grillo ha creato un piacevole esempio di teatro epico-didascalico alla Bertolt Brecht, fondatore
nel Novecento di un simile genere in riscontro, ma non in concorrenza, al cliché tradizionale drammatico. Appena si apre il sipario del Teatro dei Frassini, scorgiamo
sul fondale la fotografia di un casolare: alle diapositive proiettate sarà così
affidato lo scopo di sostituire il cambio-scena. Tutto ciò in assonanza al repertorio brechtiano
dove, nelle performance dedicate alle
contraddizioni alla base della società, l’opera è pensata in ugual misura in
funzione dell’attore come dello spettatore: attraverso una semplice, nonché “trasparente”
mise-en-scène (lontana da ogni scontato
e pronto immedesimarsi) - alla quale il pubblico in platea contribuisce con l’immaginazione
a completarne funzionalità ed energia espressiva - ogni spettatore è invitato a
partecipare attivamente all’esecuzione del messaggio. In tale ambito, durante
il finale con la compagnia a ricevere gli applausi, l’attore Gianni Minotti si
avvicina alla ribalta chiedendo: «Vi siete divertiti? Spero di sì, perché noi
tanto…».
Tutto
ciò era comunque presente sin dall’esordio. Irrompono dalle quinte gli spettri Marta
e Luca, scalzi, coperti da veli bianchi: ancora giovanili, morti
prematuramente, sono lì da quattrocento anni, padroni indisturbati della villa
abbandonata. Lei era una regina, da defunta ha sposato l’inserviente con un
“matrimonio postumo”. La donna appare intraprendente, sempre attenta, lui
pigro, goloso di pizza e panini al prosciutto, alienato dalla tv (fan accanito dei
cartoon di Casper), rimproverato di
continuo dalla consorte a causa della carenza di iniziativa («Non sai neanche
passare attraverso una parete…»). Nel giro di un paio di giorni l’uomo d’affari
Colombo (Gianni Minotti), privo di scrupoli, imbroglione, corruttore seriale,
farà radere al suolo l’edificio per costruire un vasto centro commerciale.
L’importante è chiudere i contratti con i clienti prima che gli organi
competenti si accorgano della mancanza di autorizzazione: è urgente, allora, la
nomina di un direttore generale, un “fantoccio”, capro espiatorio degli inevitabili,
successivi reati finanziari. Lo ha scovato nel signor Corsi (il convincente Francesco
Bonadies), uomo dabbene, servile quanto basta.
La
trama di Lepone sembra consona al leitmotiv
di quella epico-brechtiana, dove troviamo un pubblico rilassato, ossia all’altezza di percepire il gesto senza
preoccuparsi di sottoporlo al nesso vero-falso (del tipo: «Esistono i fantasmi?»);
inoltre, in grado di ragionare con distacco su ciò che osserva, godendo dei
contenuti informativi - forse semplicemente ludici - secondo una libera decisione,
il meno possibile condizionata a priori dal copione scritto e allestito. In sala,
quindi, siamo divertiti, relativamente tranquilli, un po’ come quando leggiamo la
celebre Guida ai fantasmi inglesi di
Lord Halifax, magari sdraiati su un divano, oppure seduti nel vagone di un
treno, assistendo al “narrato”, però, in una collettività unitaria non isolata,
in modo favorevole influenzata dai vicini di sala.
Ecco
Marta predisporre con Luca un piano con l’obiettivo di evitare la demolizione,
boicottando la cena in casa Corsi durante la quale verranno firmati i documenti.
Conosciamo così la consorte di Colombo (Angela Maria Garozzo), una petulante giovane vanitosa, affetta
da shopping compulsivo ad alto
livello (gioielli, abbigliamento à la
page): nell’hic et nunc della serata
le molteplici, esagerate vanterie vengono ribattute dal sarcasmo della signora
Corsi, assennata e realista. A quest’ultima, animata dall’assai efficace Maria
Grazia Carianni, attribuiamo il compito del “saggio” nell’epos di Bertolt Brecht: di colui o colei incline a parlare per noi, vedendo rappresentati dal
nostro punto di vista gli eventi in
progress (ossia riflettendo con criterio, pur senza essere coinvolta
nell’intreccio del quale è protagonista). Di conseguenza - ma, a dire il vero,
è l’atteggiamento, di tanto in tanto, di tutti i characters - si rivolge spesso alla platea comunicando “fuori
scena” il suo pensiero, invitando noi destinatari a condividerne l’interpretazione.
Del resto, già nel teatro classico francese erano situate tra gli attori alcune
persone di rango, accomodate nelle poltrone sul palcoscenico, consentendo, in
via figurata, di collaborare utopicamente con loro alle scelte principali
dell’opera.
Sopraggiunge la cameriera Barbara (Maria
Gabriella Corbo): in stretto rapporto con la discoletta Matilde (Claudia Di
Ruscio), assolve al ruolo fondamentale del fool
shakespeariano al quale Brecht aveva conferito la matrice clou di eroe non-tragico. A Barbara e alla figliola, Fantasmi sotto sfratto appunto assegna l’incarico
di generare svariate interruzioni nelle aspettative logico-sequenziali, “drammatiche”,
della storia: tra esse, le più “stranianti” riguardano le movenze della
bambina, con le trecce, il cerone sul viso e una candida calzamaglia da clown, impegnata
e divertita a lanciare bambole e pupazzi in aria, in analogia al costume circense.
Nel suo comportamento ludico, potrebbe ricondurre alla memoria il giocoliere brechtiano
nella ripresa eccezionale del suo maggiore epigono, il polacco Tadeusz Kantor
(1915-1990). Infine, la giovanissima Matilde è l’unica a dialogare con gli
ectoplasmi Marta e Luca: non diversamente, ricordiamo il piccolo Cole, paladino
del film Il sesto senso, capace di vedere
la gente dall’aldilà («I see dead people»).
Ma
la ragazzina non è l’unica a poterli osservare. Al suo ingresso in scena,
all’inizio, Luca aveva guardato preoccupato in sala:
LUCA - Credi che ci
vedano?
MARTA - Impossibile,
nessuno può vederci, lo sai benissimo, siamo dei fantasmi!
LUCA - Ti dico che
ci vedono, guarda le loro facce!
MARTA - Sai, con il
passare dei secoli stai diventando sempre più paranoico, mio caro.
La
serata in casa Corsi è un crescendo di disastri: gli spettri infastidiscono con
pizzicotti gli uomini distraendo il pubblico, alterano il vino provocando
l’affollamento della toilette, modificano gli ingredienti degli antipasti causando
una crisi a Colombo, allergico al formaggio, scompaiono lasagna, tacchino e bevande.
La domestica cerca di rendersi utile, ma non può far altro - in ossequio al
ruolo di “disturbatrice” - conversando di volta in volta con i padroni accanto
ai commensali ospiti, se non interromperne gli auspici segnalando la sparizione
sistematica delle pietanze. Sul tavolo, alla fine, solo bottiglie di acqua
minerale, provenienti dal domicilio della governante, in cambio di denaro in
virtù delle prestazioni effettuate: gli ordini ricevuti sono infatti intervallati
da persistenti richieste di compenso da parte di Barbara, che pretende (e
ottiene) alcuni extra.
Con
l’ausilio di una squadra di trapassati, il boicottaggio è completo. Luca riferisce
alla sposa di aver domandato aiuto a diversi amici spiriti: li ha chiamati con
il cellulare («Ho i minuti illimitati per i prossimi cinque anni»). At last but not least, svanisce il
portafoglio dell’imprenditore, gettando nell’angoscia la moglie. Da ultimo si
dissolve il contratto, la cena fallisce, l’accordo non viene siglato, crolla il
progetto del mall. Marta con il
marito (i bravissimi, agili, “stranianti” Maria Laura Notarnicola e Carlo
Zaupa) potranno risiedere ancora sereni nella vecchia dimora.
Complimenti,
in definitiva, allo scrittore Andrea Lepone e al regista Maurizio Spoliti per aver
evocato, a modo loro, l’ideologia parallela a Bertolt Brecht quando il famoso drammaturgo
asseriva:
L’attore deve
mostrare la cosa e deve mostrare se stesso. Naturalmente mostra la cosa in
quanto mostra se stesso; e mostra se stesso in quanto mostra la cosa. Nonostante
le due cose coincidano, non devono tuttavia coincidere in modo tale che venga
cancellata la differenza tra i due compiti.
L’artista
dovrebbe uscire con sapienza dalla propria “maschera” insieme a noi, per
rientrarvi arricchito della nostra Weltanschauung.
Nello
spazio rappresentativo voluto da Andrea Lepone, l’abisso adeguato a separare
l’attore dal pubblico - come i morti dai vivi - il divario il cui silenzio nel
teatro di prosa sottolinea il sacrale, il sublime, ebbene tale significativo varco
ha perso sempre più importanza: il palcoscenico dei Frassini è comunque rialzato
(non un podio, né un ring), sebbene non sia sospeso in una insondabile
profondità.
Non
solo perché entrambi i fantasmi sono scesi, a un certo momento, davanti alle
prime file, ma anche grazie all’interesse riscontrato dagli spettatori: ovvero
la sorpresa, da parte dei destinatari del messaggio, di imparare a stupirsi - chissà, con risate calorose -
mentre eravamo collocati tra il giusto e l’illusorio, resi compartecipi da
un’energica verità-storico sociale collettiva: ad esempio, la lottizzazione
selvaggia nella quale, fuori dal bell’ambiente dello spettacolo, tornando a
casa, forse non pochi si saranno di nuovo trovati immersi.
Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla
stesura del testo.
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