Piero SESIA - "Gigli spezzati" (racconto
breve)
Era un
pomeriggio di un giorno di settembre ancora caldo, anzi direi proprio afoso,
quello nel quale, sotto un noccioleto giovane e fresco, vidi per la prima volta
quell’uomo.
Da due
giorni appena io, nato nel 1933, XI anno dell’èra fascista, ero entrato nel mio
dodicesimo anno di età.
Mia madre
era stata per settimane sdraiata in un letto, preda di una malattia che ancora
oggi non saprei se definire incurabile oppure eravamo noi troppo poveri per
curarla. Poi, quasi improvvisamente, una mattina di pochi giorni prima di
questo mio strano incontro, era andata via per sempre.
Mio padre,
chiuso in un silenzio ostinato, provava a strappare la vita con i denti per
tutti noi.
Poi c’era
mia sorella. Mia sorella piccola. A quasi dieci anni ancora incapace di
parlare, mangiare da sola, vestirsi.
E infine
mio fratello. 19 anni. Chiamato a fare il soldato per la Repubblica di Salò
aveva preferito, sin dalla primavera precedente, scappare con i partigiani. O
con i banditi, a seconda dei punti di vista.
Io, da
parte mia, trascorrevo le giornate aiutando mio padre in campagna e badando a
mia sorella ma, soprattutto, vagavo senza meta e cercavo uva e pesche e prugne
da rubare e a cui demandare il difficile compito di combattere una fame che,
sia pur di derivazione secolare, risultava però ferocemente incattivita dalla
guerra e dalle conseguenti ulteriori privazioni.
Vidi
quell’uomo, stavo dicendo, e mi spaventai decisamente.
Un giovane
uomo con l’incedere così stanco e sofferente da apparire come un vecchio.
Indossava, sopra una maglietta che nemmeno più ricordava di essere stata
bianca, giacca e pantaloni invernali vistosamente rappezzati. Trascinava, con
fatica e con aria smarrita, un enorme zaino gonfio oltremisura.
Ci
arrestammo di colpo e all’unisono. Entrambi governati dalla paura e dalla
diffidenza.
Per la
verità io non compresi che timore potesse avere un ventenne alto quasi due
metri e con muscoli vivi e vivaci nei confronti di un undicenne che, debbo
ammettere, dimostrava financo meno della sua età.
E infatti
fui io ad arretrare e a pensare di scappare il più velocemente possibile.
«Non
scappare, ti prego. Non voglio farti del male. Fermati. Ti prego…».
Queste
parole furono pronunciate in italiano, anche se condite da un accento che
allora mi suonò semplicemente strano senza che riuscissi a comprenderlo.
Ma fu
soprattutto quel «Ti prego…», ripetuto due volte, che mi bloccò, impedendomi di
principiare a correre.
Ci
avvicinammo l’un l’altro a minuscoli passi e con le braccia tese in avanti,
come se il terreno fosse ricoperto di ghiaccio e noi volessimo evitare di
scivolare e cadere.
Le nostre
mani arrivarono così vicine da avvertire il reciproco tremolio, tanto accostate
da respingersi robustamente come i poli opposti di due calamite, per poi riavvicinarsi
cautamente.
«Io, John
Lo Cicero» disse l’uomo indicando se stesso con una delle due mani.
«Mi chiamo
Giovanni Lo Cicero, mio padre era italiano» aggiunse, pensando che
italianizzando quel “John” avrebbe favorito la mia comprensione.
Seppi così
che suo padre Tommaso era partito, poco più che ventenne, da Salerno a inizio
secolo, che aveva venduto pizze per strada per venti anni a Filadelfia prima di
aprire un ristorante italiano divenuto con il tempo molto famoso in città e che
tutto questo daffare non gli aveva impedito di generare cinque figli, i tre
maschi dei quali erano tutti in qualche parte del mondo a guerreggiare, mentre
le figlie, rimaste nella cucina di un ristorante di Filadelfia, facevano quello per cui erano state generate:
pizze e spaghetti al pomodoro.
Ma un
particolare colpì in maniera grande la mia fantasia di ragazzo.
«Paracadutista?
Sei un paracadutista?».
«Sì. Sono
un paracadutista. Sono stato lanciato a inizio giugno in Normandia, Francia».
Persino mio
padre, pur nella sua impermeabilità ai fatti del mondo, aveva un giorno
farfugliato qualcosa circa lo sbarco degli americani in Francia, notizia
arrivata dribblando le censure e le retoriche ufficiali di una guerra che, pur
odorando già abbondantemente di sconfitta, era stata immaginata come
obbligatoriamente vittoriosa.
Poi furono
due ore di chiacchiere e discussioni e anche confidenze.
L’essere un
undicenne di campagna fece sì che la mia bocca si spalancò oltremisura
allorquando John, armeggiando nel suo immenso zaino, mi mostrò, nell’ordine, il
telo bianco del suo paracadute, il fucile mitragliatore, la pistola, misteriose
bustine per rendere potabile l’acqua, un coltello multiuso.
John mi
raccontò che dal giorno nel quale aveva toccato terra in Normandia aveva
camminato pressoché ininterrottamente e del tutto a caso. Aveva attraversato la
Francia evitando accuratamente le città, sorvolato montagne con slancio e
percorso pianure con fatica, era stato aiutato da alcuni contadini e, due
giorni prima, aveva compreso di esser giunto in Italia.
A quel
punto aveva rallentato la sua corsa, piangendo mezza giornata. Al pensiero dei
suoi genitori, ma non solo.
Poi chiese
a me se Sanremo, che dal punto in cui eravamo seduti vedevamo vagamente
assopita giù attigua al mare, era vicina a Salerno.
Io risposi
di no, ma non ne ero certo.
«Cosa si
prova», gli domandai spezzando un momento di pausa della chiacchierata, «a
lanciarsi dall’aereo nel vuoto? a volare giù verso la terra?».
«Vedi
Giovanni» (adesso ve lo posso confessare, anche io mi chiamo Giovanni!) «le
sensazioni sono molte. Paura, soprattutto. Un terrore freddo e buio e nero. Ma
anche emozione, eccitazione, cuore che batte. Poi, quando il paracadute si
apre, una dolce commozione ti pervade. Come quando, da piccolo, la mamma ti
cullava».
John si
arrestò nella narrazione e fece un gesto come se stesse fumando una sigaretta
che non aveva. Poi proseguì.
«Non
scorderò mai la notte del lancio nel cielo della Normandia. Mai. Migliaia e
migliaia di paracadute dondolanti nella notte. Pallide macchie nel cielo scuro.
Lampi rossi e secchi rumori metallici a fare da lontano sfondo ad un silenzio
pressoché totale. La scena era interamente occupata dai paracadute, quasi come
se gli uomini appesi non vi fossero, relegati al ruolo di propaggini scure di
quei grandi fiocchi chiari. Migliaia di fiori bianchi in un campo nero.
Migliaia di gigli fluttuanti nel vuoto. Gigli fragili ed eleganti».
I ragazzini
stentano a comprendere la commozione degli adulti. Ed io non facevo eccezione.
Pertanto vedere John stropicciarsi gli occhi alla fine del suo breve racconto
mi suonò strano e mi imbarazzò. Anche se
comprendo adesso che lì, proprio lì ed in quel momento, diventai un poco più
grande.
Ma, sorprendentemente,
John continuò a parlare.
«Sai,
Giovanni, ho 20 anni. Sono il figlio di un salernitano analfabeta. Io stesso ho
fatto solo tre anni di scuola. Però non sono stupido. E, soprattutto, “non
voglio” essere stupido. Pertanto so benissimo che fare il paracadutista
equivale a morire. E morire presto. Per primi. E, di conseguenza, so
altrettanto bene quale è stata la fine delle migliaia di gigli caduti con me
dal cielo. Sopravvissuto. Sono un sopravvissuto».
E di nuovo
John parve commuoversi.
Poi, quasi
d’improvviso, si addormentò, come sfatto e distrutto dalle sue stesse parole.
Lo voltai
addossandolo contro il muro del casotto nel quale ci eravamo riparati con
l’arrivare della sera, provai a coprirlo con la sua giacca e, non prima di aver
frugato ben bene nel suo gigantesco zaino, me ne tornai a casa.
Era
praticamente ancora notte quando tornai nella piccola costruzione in muratura
situata nella vigna sulla collina. John dormiva ancora, quasi nella stessa
identica posizione nella quale lo avevo lasciato poche ore prima.
La rugiada
era ancora regina incontrastata della natura e solamente il sole, forse e più
tardi, l’avrebbe detronizzata.
Rovesciai
addosso al giovane uomo il contenuto della borsa che avevo portato con me e
provocai il suo subitaneo entusiasmo.
Pane,
anzitutto. John affrontò una delle due pagnotte di pane come se si trattasse di
un capitano dell’esercito germanico. Poi il formaggio. Un pezzo di toma che il
giovane, prima ancora di addentare, annusò con evidente voluttà. E infine un
piccolo salame che lo esaltò oltremisura.
«Sai», mi
disse tra un boccone e l’altro, «in realtà sia in Francia che negli ultimi
giorni sono riuscito abbastanza a procurarmi da mangiare. Per fortuna è estate
e la frutta non manca. Però, caro Giovanni, quanto mi manca il salato. Pane,
formaggio, salame. Ah, che meraviglia! Una pizza. Darei non so cosa per una
pizza!».
Io allora
non sapevo cosa era una pizza, però in quel momento, pur immaginando si
trattasse di una prelibatezza, non ebbi alcuna voglia di chiederglielo.
Ma il
massimo della gioia lo raggiunse quando vide un piccolo pacchetto di colore
verde con stampato in nero il profilo di un bastimento. Sigarette.
Fosse
dipeso da lui, in quel preciso momento, credo mi avrebbe fatto santo.
Poi valutò
e salutò con soddisfazione, nell’ordine, una camicia blu, un paio di pantaloni
neri, due mutande, calzini, una canottiera, un paio di scarpe che,
miracolosamente, si avvicinavano molto al suo numero. Infatti, oltre alla
dispensa, avevo anche saccheggiato l’ormai inutile armadio di mio fratello. Mio
padre se ne sarebbe certo accorto entro brevissimo tempo, ma non avrebbe avuto
alcun modo di redarguirmi per l’azione commessa.
John mangiò
lentamente e, tutto sommato, poco. Con adulta saggezza. Poi prese a sistemare
cibo e vestiario nelle millanta tasche di quell’enorme zaino.
«Giovanni,
piccolo stronzo italiano, cosa ti è preso? Sei diventato scemo?».
Solo in
quell’istante John si era accorto che la pistola non era più nello zaino e che
la stessa ostentava la sua grande mole nelle mie piccole mani. Ero arrivato da
quasi mezz’ora e John, distratto da cibo e regalie varie, non se n’era accorto
punto.
Me la
strappò di mano con decisione borbottando qualcosa che non intesi
compiutamente, anche se immaginai che si trattasse di giudizi sugli italiani
non esattamente lusinghieri.
«Merda!»,
gridò John balbettando e quasi scosso da tremiti, «è tiepida. La pistola è
ancora calda. L’hai usata, imbecille. Hai sparato. Cosa hai combinato? Mancano
due colpi. Raccontami subito!».
E allora
gli dissi tutto. Vuotai il sacco, come si dice nei libri. Non trascurando
nulla, nemmeno di piangere nei passaggi più importanti.
Cominciai
da mia mamma ammalata. Grave. Praticamente immobile nel letto da settimane, se
non addirittura da mesi. La settimana precedente mia mamma si era fortemente
aggravata e il dottore (mio padre vendette un bosco per pagare il dottore a mia
mamma) ci informò che ne aveva per poco. Stava per morire.
Il mio papà
non pianse, non era da contadini piangere. Salutato il dottore uscì di casa e
bussò alla porta di un vicino di casa. Dopo poco tempo vennero entrambi e mi
chiamarono.
Raccontai a
John che, rompendo il suo silenzio di acciaio, mio padre mi prese da parte e,
con aria solenne, mi parlò.
«Giovanni,
devi fare una cosa. Per me, per la mamma, per tutti noi. Questa sera alle sette
sali alla collina Buttelli, vai nel bosco di faggi dietro la vigna. E aspetti.
A chiunque ti si presenti chiamandoti per nome e cognome tu consegni questa».
Così
dicendo mio padre mi consegnò una busta su cui c’era scritto un nome: Aurelio.
Mio fratello.
Arrancai
sulla collina Buttelli ben prima delle sette. Con il cuore in gola e la
solennità di una spia internazionale, allungai tremando la busta a due giovani
dall’aria piuttosto truce che mi si erano presentati dinnanzi con fazzoletti
rossi e mitra in mano. Che, per tutta risposta, mi liquidarono con uno scortese
«Aspettaci. Non muoverti da qui». Ciò detto scomparvero in un baleno.
Riapparvero
sorprendentemente alle mie spalle facendomi sussultare.
«Riferisci
a tuo padre che Aurelio verrà la prossima notte. A mezzanotte. Ciao ragazzo»,
disse, guardandomi negli occhi, quello che, tra i due, pareva avere facoltà di
decidere.
A questo
punto John represse, con grande ed encomiabile sforzo, un moto di insofferenza
per la lentezza della mia narrazione che pareva non venire mai al dunque. Prese
una sigaretta dal pacchetto verde con la nave e la accese.
Da questo
punto in avanti il mio racconto accelerò progressivamente, come in un film di
Charlie Chaplin.
E allora
narrai a John del mio ritorno, della risposta riferita a mio padre, della
nostra attesa.
Dell’ulteriore
peggioramento di mia mamma e della nostra angoscia.
Gli parlai
del mio stato d’animo e del prete con l’estrema unzione. Della processione dei
vicini e del silenzio di mio padre. Della malata indifferenza di mia sorella e
della mia adolescenziale impreparazione.
Dell’arrivo
di mio fratello poco dopo mezzanotte.
O meglio
del “mancato” arrivo di mio fratello.
Già, perché
Aurelio, appena entrato nel cortile, fu intercettato da due miliziani della RSI
e da due soldati tedeschi che lo aspettavano. Venne malmenato e portato
via.
Qui John
accese un’altra sigaretta e, ben sapendo di intaccare una scorta già di per sé
minuscola, mi chiese se ne volevo una. Risposi di no, chiedendomi se stavo
rinunciando ad un’altra occasione per diventare grande.
«Glielo ho
detto, John!», gridai nel vuoto pneumatico di una notte lucida non ancora
trasformatasi in mattino. «Glielo ho detto», insistetti non riuscendo a
trattenere i singhiozzi.
«John,
quando il prete mi aggredì apostrofandomi con “Tuo fratello per stare dietro ai
comunisti è lontano e si è dimenticato di sua madre”, io digrignai i denti e,
parimenti, lo assalii: “Aurelio non ha certo scordato sua mamma e verrà da lei
questa notte”.
«Capisci
John? L’ho detto al prete. Nessun altro lo sapeva», ribadii piangendo ancora.
Tra John e
me calò il silenzio, si direbbe nel libro di prima, mentre in lontananza cani
troppo mattutini presero a latrare.
John accese
ancora una sigaretta prima di spegnere quella precedente.
Qualche
voce astrusamente metallica attraversò lo spazio giungendo sino a noi dalla
pianura sottostante. Rumore di fronde spostate ci colpirono e dei cani (tanti
cani) sentivamo ormai, oltre all’abbaiare, financo l’ansimare.
«Ti ho
messo nei guai vero John? Ho ucciso un uomo. Anzi no. Ho ucciso un prete. L’ho
fatto con la tua pistola».
«Giovanni,
non è colpa tua. Io nei guai ci sono entrato quando sono partito da Filadelfia».
Presero a
giungere ordini secchi, suoni gutturali, parole incomprensibili. Mi venne paura
e freddo. Ero uscito con la sola canottiera ed avevo tanto freddo. John mi
coprì con il telo del suo paracadute. Poi accese due sigarette e senza
attendere il mio assenso me ne infilò una in bocca.
I cani,
prima lontani e ora vicinissimi, continuavano ad abbaiare sempre più
rabbiosamente.
Malamente
trattenuto il primo cane entrò nel casotto ringhiando e sbavando.
E non
compresi perché un cane odiasse così tanto due gigli spezzati che non conosceva
nemmeno.
Piero Sesia (Torino, 1954) dopo il diploma al Liceo
Scientifico Galileo Ferraris si è laureato in Lettere (indirizzo storico)
all’Università di Torino. Ex gestore di imprese, attualmente in pensione,
collabora con un’agenzia letteraria, partecipando inoltre a gruppi di lettura
nell’ambito dei quali si occupa anche della redazione di schede libro e di
recensioni. Da numerosi anni scrive racconti, soprattutto di origine o
ambientazione storica. A partire dal 2018 ha partecipato a diversi Concorsi
Letterari per racconti inediti, conseguendo sinora una trentina di
riconoscimenti. Nell’ottobre 2019 ha pubblicato il suo primo libro, una
raccolta di racconti dal titolo Una valigia di perplessità (Edizioni Tecniche), dove figura tra
gli altri Gigli spezzati che si è
classificato al 2° posto nel concorso “I colori delle parole”.
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commento di Cinzia Baldazzi
Ogni
opera d’arte è una pregiata forma di provocazione: non potendo spiegarla al
completo, è preferibile piuttosto misurarsi con essa. Leggendo il racconto Gigli spezzati di Piero Sesia, ripenso a
un celebre brano del filosofo-critico Walter Benjamin:
C’è un quadro di
Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi
si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa
lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo
della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci
appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza
tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben
trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal
paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può
più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui
volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò
che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.
Per
il progresso, appunto, per un possibile futuro, si spezzano i gigli di questa
narrazione. Uno dei protagonisti, l’italo-americano John Lo Cicero, paracadutato
nel cielo della Normandia il 6 giugno del 1944, ricorda:
Non scorderò mai la
notte del lancio nel cielo della Normandia. Mai. Migliaia e migliaia di
paracadute dondolanti nella notte. Pallide macchie nel cielo scuro. […]
Migliaia di fiori bianchi in un campo nero. Migliaia di gigli fluttuanti nel
vuoto. Gigli fragili ed eleganti.
Sono
le parole di un soldato ventenne proveniente da Filadelfia, figlio di un
salernitano immigrato, rivolte ad un ragazzo di dodici anni (la voce narrante),
mentre paragona se stesso, i commilitoni, a «gigli» sparsi su un «campo nero».
In un altro campo, lontano nello spazio-tempo da quello percorso dall’intreccio
di Sesia, ma in via utopica ad esso vicino, il candido fiore compare in una
lirica della statunitense Emily Dickinson del 1863:
Attraverso la Buia
Zolla - per Istruirsi -
Il Giglio passa
sicuro -
Non avverte il suo
Candido piede - trepidazione -
Né la sua fede - ha
paura -
Dopo - nel Prato -
Oscilla la sua
Corolla di Berillio -
La Culla primigenia
- del tutto dimenticata - ora -
Nell'Estasi - e
nella Fossa –
Il
traduttore Giuseppe Ierolli annota:
Il giglio passa
attraverso il buio della zolla in cui è posato il seme che lo farà nascere, si
fa largo senza paura in quegli oscuri meandri, e quando sboccia imperioso nel
prato e sfoggia la sua "corona di berillio" l'estasi di vivere gli fa
dimenticare la fatica di nascere.
E
tuttavia,
è, nello stesso
tempo in estasi e con un piede nella tomba (ovvero nella fossa) […] una sorta
di "memento mori".
Anche
i personaggi principali della short story
di Sesia, candidi nella bellezza e nella forza della loro giovinezza ma già del
tutto disillusi, provano paura osservando un recentissimo e tragico vissuto:
sono spinti da una tempesta benjaminiana verso un domani non progressivo,
avvolto però dalla violenza del passato ancora in fieri.
La
vicenda narrata in queste pagine espone un episodio di fantasia legato al
periodo storico della Resistenza: con un linguaggio indirizzato al reale e lo
sguardo doppiamente nuovo - quello dei due giovani nella trama, e di una immaginaria
gioventù autobiografica dello scrittore nei confronti delle circostanze
illustrate - viene anticipata e prolungata una prospettiva di amore filiale,
fraterno, mai spezzato. È notevole l’accenno
formulato dall’Io narrante di “raccontare”
quasi stesse “scrivendo” un libro, con l’obiettivo di potenziare la cultura nella
sua funzione di proteggere la società in una battaglia ininterrotta: da una
parte, difendendosi dal realismo calcolato e pianificato (nel brano è evitata
la descrizione diretta, in atto, degli eventi drammatici e brutali), dall’altra
contro parzialità e soggettività limitative (al di là dell’inesperienza, il
piccolo Giovanni riesce infatti, comunicando, a condividere fenomeni concreti a
lui estranei).
Il
tessuto tecnico-semantico del plot,
articolato secondo l’ampia e preziosa capacità di attirare l’interesse sugli
oggetti e sui sentimenti - in un presente all’altezza di divenire però, per
noi, urgente da verificare - evoca un istituto semiotico abbastanza singolare,
coincidente con il nostro ruolo di pubblico-interlocutore. Negli anni ’70, il
sociologo francese Robert Escarpit notava come ognuno, «al momento di scrivere,
ha presente alla coscienza un pubblico, non foss’altri che lui stesso. Una cosa
non è completamente detta, se non ha un destinatario». Poi precisa: «Si può
anche asserire che una cosa non può essere detta “a” qualcuno se non sia stata detta “per” qualcuno. Non sempre i due “qualcuno” coincidono».
Ma
quando accade - ed è il caso di Gigli
spezzati - la struttura logico-intuitiva si proietta in un terreno di
destinatari troppo molteplici e contradditori per risultare unificati. Il
risultato coincide con uno schema semiotico inquietante, carico di suggestioni
avvincenti: tanto stretto sembra il rapporto tra chi parla per sé e per gli
altri personaggi del racconto, da condurre il lettore a uno spaesamento, a non trovarsi
a proprio agio, suscitando tuttavia in lui - cosciente di un simile status - un
alto grado di apprezzamento.
Il
panorama delineato da Sesia emerge tanto intimo e universale (il sacrificio di
innocenti per stroncare il Nazismo) da tramutare il lettore-destinatario in un
essere invisibile in grado di essere dappertutto, di vedere e sentire ogni
cosa, di percepire e comprendere le situazioni, senza riuscire né tentare (perché
limiterebbe il fascino dei segni-segnali) di possedere una reale esistenza di
voce, un point of view in campo nel
quale riconoscersi in linea diretta. Nonostante egli assista a un dialogo alla
sua portata, quando sembra essere sul punto di esaurirne il contenuto in una
interpretazione univoca, qualcosa immancabilmente sfugge, spalancando le porte
a una pluralità di voci e di possibilità:
Mia madre era stata
per settimane in un letto, preda di una malattia che ancora oggi non saprei se
definire incurabile oppure eravamo noi troppo poveri per curarla.
E
in un altro passo:
E infine mio
fratello. 19 anni. Chiamato a fare il soldato per la Repubblica di Salò, aveva
preferito, sin dalla primavera precedente, scappare con i partigiani. O con i
banditi, a seconda dei punti di vista.
Ne
deriva un rilevante piacere estetico, provato per risonanza a lasciarsi
trasportare dagli affetti, dalle idee, dallo stile, senza dover sostenere la
fatica della responsabilità morale e la conseguenza della sciagura: piuttosto, Gigli spezzati enfatizza il male, gli
errori, la cattiveria, accanto alla speranza di costruire un avvenire ormai
sgombro dalle zone atroci del passato. Non alludo, però, a un atteggiamento del
destinatario nel ricevere in solitudine forma-contenuto del testo: penso invece
a un nucleo di personalità coltivato non attraverso l’obbedienza o la replica
meccanica di comportamenti socialmente riconosciuti (ad esempio, il rispetto
totale per l’ambito di “bontà” e “giustizia” gestito dalla Chiesa). Mi
riferisco a processi dinamici profondi dell’individuo in rapporto all’interagire
costante tra gli ostacoli causati dalla violenza e la forza della solidarietà:
«Glielo ho detto,
John!», gridai nel vuoto pneumatico di una notte lucida non ancora
trasformatasi in mattino. «Glielo ho detto», insistetti non riuscendo a
trattenere i singhiozzi. […] «Capisci John? L’ho detto al prete. Nessun altro
lo sapeva», ribadii piangendo ancora.
In
questo passo, l’espressione e l’impressione procedono in piena
indipendenza generando, da uno spietato, vile tradimento, l’icona indistruttibile
della libertà, del libero arbitrio del giudizio critico, in esperienze vissute
o immaginate ma verosimili.
Nell’epilogo
ascoltiamo «i cani, prima lontani ed ora vicinissimi», continuare «ad abbaiare sempre più rabbiosamente», con il coraggioso
protagonista, imperterrito, a dichiarare:
Non compresi perché
un cane odiasse così tanti due gigli spezzati che non conosceva nemmeno.
Noi
dedichiamo a lui e al ventenne soldato statunitense un brano dall’Eneide di Virgilio, composto per la
morte precoce del nipote di Augusto, il diciannovenne Marco Claudio Marcello.
Il verso «Manibus date lilia plenis» è talvolta inciso su lapidi funebri di
bambini, recisi nella primavera della vita:
Manibus date lilia plenis
Purpureos spargam flores animamque nepotis
His saltem adcumulem donis et fungar inani
Munere.
A piene mani, oh!,
mi date
gigli, ch’io sparga
fiori purpurei, che l’anima colmi
di doni, e faccia,
almeno, al nipote questo inutile onore.
emozionante
RispondiEliminaGrazie, Elio. Sono proprio d'accordo con te.
EliminaUna short story che unisce in un tutt'uno cuore e memoria. Storia e fantasia. Il dettato della tragedia drammatizzata, foriera di futuro per un'Europa che poteva solo risorgere, e di quella non detta, sorgente di sensazioni contraddittorie. Mi si permetta di aggiungere ai sapienti e circostanziati aspetti critici alcune considerazioni più viscerali. L'angelo benjaminiano è un pagano dio che, dall'alto del colle che porta il suo nome, vedeva passato e futuro dei destini di Roma. Giano bifronte volge una faccia al passato doloroso di una Repubblica sofferente per la Guerra Sociale e l'altra al radioso futuro dell'Impero. L'olocausto dei gigli spezzati nel cielo di Normandia fa pensare ai destini di Roma, che conobbe la decadenza dopo il sogno imperiale di Traiano, e ad una consapevolezza di Europa che in definitiva non ha mai conosciuto le certezze dell'Unione di fatto dopo le celebrazioni delle speranze di non autodistruggersi in altri sanguinosi conflitti. Convivono due tragedie, nessuna delle due consumate invano. E qui soccorrono i versi di Piero Fabrizi: Li abbiamo visti con gli occhi \ e un silenzio nel cuore arrivare
RispondiEliminaLi abbiamo visti dal nulla, apparire di notte
Dal nulla del mare
Li abbiamo visti cadere in silenzio
In un volo irreale
Erano tanti e scendevano lenti come neve sul mare
Ed era pioggia battente, era fuoco, era grandine e sale
Era estate, era inverno; era un attimo eterno
Eran figli all'altare
Li abbiamo visti che pena cadere come gigli sul mare
Li abbiamo visti spezzati cadere come agnelli all'altare.
La voce di Fiorella Mannoia accompagna con la sua ossimorica amara dolcezza il latrato dei cani nella domanda finale: Perché un cane odia così tanto due gigli spezzati che non conosceva nemmeno? Grazie per l'ospitalità. Massimo Moraldi.
Grazie, Massimo: grazie soprattutto per aver citato il mio angelo preferito e, come non bastasse, il Giano bifronte, la maschera nuda del grande Pirandello.
EliminaCommovente la ricostruzione storica e la poesia di Piero Fabrizi.
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