Diego RIA – “Note
a margine” (racconto breve)
Con
il racconto di Diego Ria prosegue la pubblicazione dei racconti premiati e
menzionati all’edizione 2018 del concorso “Incrociamo le penne”.
Mario si sedette sulla sua poltrona
preferita, sistemò con cura il piede ingessato nella posizione più comoda e
avvicinò a sé il tavolinetto vuoto. Poi guardò l'uomo in piedi davanti a lui.
«Che
ti porto, Mario?»
«Tè
verde. E qualcosa di Hemingway.»
Osservò
l'uomo dirigersi verso il bancone di quella grande libreria. Lo vide armeggiare
con il bollitore e poi disperdersi nei meandri della sezione narrativa.
Annusò l'aria: era asettica come quella
del suo sportello alla banca. Non c'era odore di stampa, di polvere o di carta
vissuta come nelle altre librerie della città. Pensò di essere molto fortunato
a averla sotto casa, specialmente ora che, con quel piede, gli era impossibile
stare al suo posto di impiegato e, fuori, un gelido antipasto d'inverno
pizzicava la pelle.
«Maledetti
scalini» sussurrò tra i denti, riposizionando il gesso. Alzò lo sguardo verso
l'uomo che stava tornando da lui con un volume in mano e vide la ragazza, sullo
sfondo, seminascosta da uno scaffale. Era sicuro di averla vista altre volte
perché quell'ampio basco e quella lunga sciarpa di lana fantasia arcobaleno,
erano così appariscenti da essere inconfondibili. Si rese conto che da venti
giorni ormai aveva un ferro a tenere insieme il malleolo, e che di quei venti giorni
ne aveva passati almeno quindici in quella libreria, leggendo e osservando le
persone. Quella ragazza, per esempio, si fermava ogni giorno lunghi minuti
davanti alla vetrina e allargava le narici, come volesse respirarne l'essenza,
per poi sparire e tornare ancora.
L'uomo
della libreria adagiò l'edizione economica di Festa mobile sul
tavolinetto e ripartì verso il banco. Mario vide che la ragazza stava scrivendo
su di un libro. Se l'era portato in grembo, per nascondersi, ma lui vedeva
chiaramente la mano fluttuare sulla pagina e il calcio di una penna svolazzarle
tra le dita. La vide rimettere il libro al suo posto e rimanere un attimo
imbambolata, assorta nei propri pensieri, per poi uscire, in fretta, coprendosi
la bocca con la sciarpa. Per un'ora Mario combatté una battaglia persa con il
suo falso, educato pudore, come quando, davanti al suo terminale, si
riprometteva di non guardare il saldo delle persone che serviva allo sportello,
finendo inevitabilmente per sbirciarlo e trarne ogni tipo di conclusione, le
più ciniche e catastrofiche di solito. Alla fine posò il suo Hemingway, ancora
aperto sull'introduzione, inforcò le stampelle e si diresse allo scaffale della
ragazza. Frugò freneticamente nella fila dove l'aveva vista riporre il libro:
Sartre, Scott Fitzgerald, Steinbeck. Trovò la scritta sul frontespizio di Furore.
Era un corsivo tremolante ma leggibile: “Domani passerai di qui, io lo so. E
inevitabilmente aprirai questo libro perché, anche se ne hai già una vecchia
copia, è il tuo preferito e non resisterai. E troverai me, che tu lo voglia o
meno, perché io sono tua e so tutto di te. E se domani chiuderai questo libro e
lo rimetterai su questo scaffale, avrai chiuso fuori per sempre la mia
colpevole anima.” Mario digerì quella frase per qualche secondo: “Stupidaggini
melensi nella testa di una ragazzina” si disse alla fine, rimettendo il libro
al suo posto.
«Festa
mobile non andava bene?» gli chiese il commesso, sorpassandolo con uno
scatolone in mano.
«Va
benissimo. Dovevo controllare una cosa, togliermi una curiosità.»
E
la curiosità, mista a un vago sentore di disprezzo per la patetica modalità di
quella sciocca ragazza, lo portò alla libreria ancora prima, la mattina
seguente. Controllò che il libro marchiato fosse al suo posto, si sedette sulla
stessa poltrona, ordinò il solito tè e si fece riconsegnare la sua copia di
Hemingway con il segnalibro buttato nel mezzo, a caso. Dopo un paio d'ore,
l'uomo comparve. Era alto e elegante nel suo cappotto grigio. Era il
proprietario del tabacchi in fondo alla via. Si fermò da Mario per salutarlo e
chiedergli del piede, poi fu inghiottito dal negozio. Mario aveva sempre
ammirato quell'uomo. Sembrava sempre sereno, aveva un conto in banca di tutto
rispetto e sua moglie, che lo aiutava nel tabacchi, era sempre stata la donna
più bella del quartiere, e forse lo era ancora, nonostante avesse passato i
cinquanta.
Così, quando lo vide prendere Furore
tra le mani, rimase sbigottito. Mentre l'uomo sfogliava svogliatamente
qualche pagina, Mario li immaginò insieme. La ragazza doveva avere trent'anni
meno di lui e non era per niente elegante. Portava vestiti larghi e colorati.
La moglie invece era sempre precisa e raffinata, con occhi profondi e qualche
merletto nei punti giusti che la rendeva sobriamente piccante. Come poteva un
uomo simile commettere una tale sciocchezza a cinquanta metri dal proprio
negozio, Mario non lo capiva.
Si passò le dita della mano sulla gobba
del naso, sugli zigomi alti e affilati. Nessuna donna avrebbe mai scritto una
frase simile per lui, non sarebbe mai riuscito a evocare un sentimento talmente
cieco e potente, mentre quell'uomo, che stava ora uscendo dalla libreria con
una rivista in mano, poteva scegliere quale amore godersi, e tradirli entrambi,
impunito. Pensò che se una ragazza era tanto ingenua da farsi usare a qual modo
non meritava pietà e, ora che l'uomo l'aveva abbandonata su quello scaffale,
forse anche lui avrebbe potuto approfittare di lei. Soppesò i pro e i contro,
come stesse trattando un derivato. D'altronde lui, dopo vari tentativi andati
male, era single. Aveva trentacinque anni e un buon lavoro, una casa di
proprietà e il letto freddo. La ragazza non era bella, ma era giovane e
manipolabile.
Zoppicò nuovamente verso lo scaffale
con il risolino di chi è più furbo appiccicato in faccia. Ma, a tu per tu con
le frasi di lei, si rese conto di essere tanto abile coi numeri, quanto inetto
con le parole. Prese la sua penna dal taschino e la tamburellò sulle labbra.
Migliaia e migliaia di frasi dei più grandi scrittori lette e nemmeno un'idea
su come impressionare una piccola sciocca. Poi un fulmine: “Domani sarà l'alba
di un nuovo amore.” Carino e banale. “L'uomo dal gesso” una firma
inequivocabile per lei che tutti i giorni si appiattiva alla vetrina. Si
assicurò di essere fuori dalla vista del commesso e scrisse quelle cose. E una
volta scritte, assunsero una profondità nuova, diversa e amplificata e lui,
riguardandole, fu costretto a riflettere. Amore. Perché aveva usato quella
parola per una situazione del genere? Cos'era l'amore?
Sui manuali operativi della banca non
c'era niente del genere. Nelle sue dispense del codice di comportamento,
marchiate con riservato, c'era tutto su come giustificare a un cliente il
crollo dei titoli consigliati, ma niente sull'amore. D'amore si nutrivano però
le pagine di quel posto e lui capì finalmente perché gli piacesse tanto
passarvi le giornate. Non era il tè, o il fatto che fosse sotto casa. Non era
l'odore, non solo. Improvvisamente si sentì pesante e triste, di una tristezza
buona che non aveva mai provato ma che riconobbe appena si posò sul suo petto.
Guardò la sua frase e pensò al domani. Pensò al calore a alla gioia. Pensò a
come sarebbe stato sciogliersi una volta, una sola vola nella vita, dopo aver
appeso il cappotto nel guardaroba di casa e chiuso la banca fuori e si chiese
come mai a lui, a lui che amava così tanto i libri, tutto questo fosse stato
sempre negato.
E
così, con il libro in una mano e la penna nell'altra, sospeso tra la paura di
cancellare tutto e il desiderio di sottolineare “domani”, la vide alla
vetrina. Aveva le mani incrociate in grembo e lo guardava con occhi talmente
grandi e sbarrati da cancellarle il viso. Entrò a passi lenti nella libreria e
lui la osservò, pietrificato. Quando gli fu davanti, l'unica cosa che pensò fu
che quel cappello arcobaleno le calzava male sulla testa. Tutti gli altri
pensieri erano congelati dal terrore che lei potesse aprire bocca e distruggere
l'ultimo briciolo di dignità che lui aveva in tasca. La ragazza gli sfilò il
libro di mano, sempre guardandolo fisso, poi poggiò lo sguardo sulla frase.
Alzò di nuovo gli occhi, e questa volta erano due fessure opache, mentre la
bocca le si arricciò talmente che, Mario, pensò volesse sputargli addosso. Ma
lei si voltò. Quasi vacillando, raggiunse la cassa e pagò il libro. Uscì.
Passando davanti alla vetrina ebbe l'istinto di guardare dentro ma, con un
gesto dell'avambraccio, ricacciò indietro quel pensiero e sparì lungo la
strada.
Il sangue tornò a scorrere nel corpo di
Mario, ma era gelido e duro. Non ci sarebbe stato domani. Ci sarebbero stati
altri tè, altri libri e poi altri conti correnti, altri titoli e nessun domani.
Tornò al suo posto. Per tentare di cancellare dalla testa l'accaduto, aprì il
suo libro: “E poi c'era il brutto tempo. Arrivava da un giorno all'altro una
volta passato l'autunno.” Andò avanti un'ora, senza assorbire niente di ciò che
leggeva, poi la donna entrò. Poteva avere sessant'anni, era leggermente
sovrappeso e indossava un cappotto dai colori sgargianti. Scrollò le spalle
come se avesse freddo e si tolse i guanti di lana color arcobaleno. Si mosse
per il locale con gli occhi di Mario incollati addosso e inevitabilmente, come
teleguidata, si fermò alla S. Prese una copia di Furore e si lasciò
scorrere qualche pagina tra le dita, con un benevolo sorriso stampato sulla
faccia, poi la posò e proseguì il suo giro. Mario la vide scegliere due volumi,
pagarli alla cassa e muoversi verso l'uscita, allora la richiamò con un gesto
della mano. La donna si avvicinò, guardò il gesso: «Mi dica.»
Mario
le indicò cortesemente la poltrona accanto alla sua, ma la donna lo fermò
allungando il palmo della mano. «No guardi, ho fretta. Che vuole?»
«Se
avessi una figlia» disse lui, «non aspetterei una vita per perdonarla.»
La
donna schioccò la lingua con un gesto di stizza: «Ma lei non ce l'ha, vero?
Sapesse...»
«No»
rispose Mario. «Non ho niente di così prezioso, ma so per certo cosa vorrà
dire, domani, pentirsi della stupidità di oggi.»
Lei
aggrottò le sopracciglia. Le sue labbra si mossero alla ricerca di qualcosa da
dire.
«E
lei chi diavolo sarebbe?» sibilò.
«L'uomo
dal gesso» rispose Mario. «Un uomo solo.»
La
donna sbuffò e uscì a passo svelto. Passando davanti alla vetrina guardò dentro
con una smorfia di rabbia stampata sul volto. Lui, da dentro, la salutò con la
mano ma lei trottò via senza un gesto. Poi fece qualche passo indietro, si
fermò. Rimase un minuto immobile. La sua faccia sembrava sofferente ora. Mario
la vide frugare nella borsa e estrarre il cellulare. La vide sospirare e, con
l'apparecchio all'orecchio, sparire alla sua vista. Lui si guardò la gamba.
Pensò che era mercoledì. L'indomani aveva una visita e forse gli avrebbero
tolto il gesso. Forse avrebbe imparato a camminare di nuovo, domani.
Diego
Ria è un operaio metalmeccanico livornese di 49 anni con una grandissima
passione per la letteratura. Quattro anni fa ha seguito un corso di scrittura
creativa nella sua Livorno e ha iniziato a scrivere racconti brevi. È stato
finalista del premio “Città di Livorno” del 2016 col racconto L'ultimo sciopero della mia vita e del
premio “Terra di Guido Cavani” 2017 con E
Nunzia, che dice? Il racconto Ezio e
il campanile è arrivato terzo nel concorso letterario “Incrociamo le penne”
2017, mentre nell’edizione 2018 ha conseguito una Menzione di Merito con Note a margine.
Bel racconto!
RispondiEliminaGrazie, Rosanna, anche da parte mia.
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