domenica 2 giugno 2024

Cinzia BALDAZZI - “Le rose novembrine”, poesia di Isabella Sordi

  

Care amiche e cari amici, in un recente incontro di poetesse e poeti da me organizzato a Roma, molte partecipanti hanno dedicato i loro componimenti al tema della violenza e del femminicidio. In quell’occasione, trovandomi a parlare con l’amico Sorin, ribadivo a lui la mia completa solidarietà alle donne. Lui ha risposto: «Cinzia, tu non sei dalla parte delle donne. Tu sei dalla parte della poesia».

Perché ho raccontato questo episodio? Come sapete, in questi anni ho scelto e analizzato singole poesie dedicate alla violenza contro le donne e alla loro morte violenta, sia per uccisione sia per tossicodipendenza. Ma erano tutti componimenti di autori uomini.

Oggi, finalmente, propongo la poesia di una donna, la brava autrice Isabella Sordi con i suoi versi dal titolo Le rose novembrine. Spero che i luminosi spazi della vostra mente possano ospitarli entrambi. 

 

Le rose novembrine

di Isabella Sordi

 

Mi fanno tenerezza

le rose novembrine,

serrano le corolle,

affilano le spine.

 

Sfidano il vento e il gelo

crudele, dell'inverno,

quello che, poco dopo,

le porterà all'inferno.

 

Vestono di rubino

e d'un rosso magenta,

è sangue che scolora

in una morte lenta.

 

Così come le rose

che perdono il colore

sono le donne sole

uccise dall'amore.

 

Le rose novembrine

mi fanno tenerezza,

non sanno che si può

morire di bellezza. 

 

 

Il nome delle rose

Bellezza e morte nei versi di Isabella Sordi

 

di Cinzia Baldazzi 

 

 

La violenza contro le donne

non è un problema esclusivamente femminile

e deve essere aggiunta

alla lista dei reati sancita dai trattati.

Ursula von der Leyen

  

   Anche a voi sarà accaduto di incontrare poesie associate nell’immediato all’esclamazione, scontata e poco esplicativa, di “incantevole”. Quando entro in uno stato d’animo analogo, il risultato consiste nell’approdare subito a uno stato di angoscia, di inquietudine, sebbene il componimento - come invece questa volta - non lo suggerisca. In breve, il dialogo interiore è il seguente: «Ma quale incanto… I poeti non hanno la bacchetta magica!». Sono infatti trascorsi svariati secoli dall’epoca in cui la ποίησις (pòiesis) ha iniziato a vivere svincolata dal rito cultuale-religioso, suo promotore nella notte dei tempi.

   Ho potuto “cogliere” le rose novembrine nell’autunno del 2023, incontrando Isabella Sordi in un premio letterario da me gestito nella veste di Presidente di Giuria: quel giorno, l’associazione I Percorsi delle Muse, tra gli organizzatori del concorso, assegnò al testo un riconoscimento speciale.

Perché lo racconto? Per condividere il fatto di averlo apprezzato in un equo asse referenziale meritocratico, criticamente documentato, non incline tout-court a una gerarchia di valori dove trovasse posto un giudizio perlopiù legato all’“incanto” ineffabile della beltà dei versi. Vari decenni sono stati impegnati nel dibattito sull’esistenza o sulla qualità della “bellezza in sé”, decisiva o ingannevole rispetto a un approccio di metodologia critica: ciononostante, ritengo l’argomento abbastanza d’antan, dunque nelle mie riflessioni chiamerò in causa il concetto di una “bellezza poetica” autonoma, nondimeno attinente a un messaggio, a una fonte significativa, umana, quindi concreta.

   In un ambito affine ho considerato pregevole Le rose novembrine, peraltro distratta dall’approfondimento specifico a causa di diverse attività in corso; il giorno dopo, comunque, ospitando l’autrice al Dima Book Festival, chissà perché le chiesi, fuori scaletta, di recitare per noi la poesia vincitrice.

   Forse, però, ho insistito troppo: non siamo davanti a un mistero, in quanto, alla sola lettura dell’incipit, suppongo parteciperete senza difficoltà a un incantevole “fuori programma” di tale natura: «Mi fanno tenerezza / le rose novembrine, / serrano le corolle, / affilano le spine».

   Una simile opinione la coltivo poiché, alcuni minuti dopo aver letto il componimento, scoprirete la misura in cui gli ammalianti fiori autunnali, emblemi di «tenerezza», siano il simbolo persuasivo e immaginifico acquisito dall’ars poëtica della Sordi, propedeutico ad annunciare il tragico destino delle vittime di femminicidio. Altro che le «spine» sotto le «corolle»! Il sostantivo «tenerezza», forse obietterete, essendo rivolto a una commozione provata nei riguardi di persone in termini di pietà amorosa e compassione, può apparire un segnale appropriato nei confronti di donne forti, generose, sebbene alla fine abbattute: esse soffrono per sfidare, in sintonia alle rose, «il vento e il gelo / crudele» non dell’inverno, bensì dell’inferno della violenza assoluta e, in seguito a una morte lenta (nonostante in botanica, per la famiglia delle Rosacee, il mese di novembre sia assai propizio), smettono di vivere.

   Eppure, una tenderness parallela, più che associata alla disperata, ineffabile propensione ad accogliere il martirio di una brutalità estrema, coincide con l’icona epifanica di qualche tipo di riscatto ottenuto nel rifugio offerto dall’amore materno indissolubile. Quasi Isabella Sordi, in un “incantesimo” fondato su una precisa tecnica semantico-semiotica - in settenari ritmici cadenzati in cinque quartine - e non su un vago, unspeakable filo dal colore rubino, invitasse il lettore a “scrutare” le righe successive con gli unici occhi posseduti, obbiettivamente carichi di bellezza, quella vera, sempre salvifica, peculiare dell’affetto energico di una genitrice, di una μήτηρ (mèter) capace di interrompere con il suo sentimento totalitario il cammino del male. Come, vi chiederete? Di recente, lo scrittore statunitense Chuck Palahniuk ha dichiarato: «Dimenticare il dolore è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancora di più. La felicità non ci lascia cicatrici da mostrare». La grazia e il fascino degli ammalianti campioni floreali viaggiano oltre le profonde cicatrici della furia e degli abusi.

   Nel tentativo di verificare l’ipotesi formulata all’inizio, vale a dire che nell’opera della Sordi l’intento creativo sia di risarcire utopicamente, per mezzo di una testimonianza a carattere lirico, un danno irreparabile, enfatizzo l’importanza di almeno due τόποι (tòpoi) retorici tali da poter confermare una lettura del genere, di certo correlata all’unione implicita, definitiva di forma-contenuto: piuttosto interessata, però, percorrendo l’alto sentiero allegorico del testo, a metterne in luce la prospettiva di allontanarsi, tramite scelte di un καλόν (kalòn) estetico, dalle abiette circostanze reali, non per ignorarle o sminuirle, piuttosto per sublimarne in alternativa la virgiliana pietas basata su rispetto, solidarietà e coraggio.

   Nel macrocosmo omerico, presentando le protagoniste dell’epos, l’aedo ne proclamava l’avvenenza, il κάλλος (kàllos) adeguato a renderle eterne: «E quando è pari a quella di Elena», afferma la grecista Eva Cantarella, «questa bellezza fa perdonare tutto: per Elena, bella come una dea immortale, dicono i vecchi troiani seduti presso le Porte Scee a guardare la battaglia, “non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti… soffrano a lungo dolori”». Allora, dunque, a morire per la bellezza (femminile) erano gli uomini.

   Sopra ogni cosa, sottolineerei come, nella terza quartina, il rosso rubino (o magenta), colore per antonomasia del sangue, costituisca in qualsiasi scala di valore archetipica un segno di vita prima che di morte, evocando inoltre, nell’universo di riferimento orientale, la nuance per eccellenza di gioia e sensualità della coppia, oltre a significare vittoria nella novità, nella conferma di quanto l’arco del vissuto sia di continuo custodito, difeso a qualunque costo.

   In secondo luogo, allorché assistiamo al tormento subìto mentre esso «scolora» - oltre a tutto, a prezzo di una «morte lenta» - anche qui possiamo tornare a uno schema modellare consono a quello della madre (meglio: della Grande Madre), all’altezza di dissolvere in un’indistruttibile, coraggiosa utopia, contrassegno di lotta, non di vuota fantasia, il bisogno di compensare un’immane iniquità, poiché la legge giusta del divenire umano naturale lo consente.

   Ricordo le parole utilizzate nel 1947 da Max Horkheimer e Theodor Adorno nella chiusura del saggio sull’Odissea per illustrare la crudele uccisione delle ancelle di Penelope (regina “madre”) impiccate da Telemaco. Nel finale del Canto XXII si assiste agli spasmi di queste creature («coi piedi scalciavano; per poco, però, non a lungo»), dove Omero consola se stesso insieme agli ascoltatori (scrivono i filosofi: «sono in realtà lettori») con «l’affermazione provata che non è durato a lungo, un attimo e tutto era finito. Ma dopo quelle tre parole l’intimo flusso della narrazione si arresta». Interrompendo il corso del racconto, «esso impedisce di scordare le vittime, e scopre l’indicibile, eterno tormento di quel secondo in cui le ancelle lottano con la morte».

   Nei versi della Sordi, le martiri di femminicidio sono sciaguratamente decedute «essendo donne sole / uccise dall’amore». Tuttavia, «sole» in senso di “isolate”, “accessorie”, per fortuna nella storia del progresso le donne non sono mai state, poiché il loro ruolo ha sempre comportato grandi vantaggi generali per l’intera gens humana. L’archeologa inglese Margaret Ehrenberg ha rilevato: «Bisogna riconoscere il ruolo delle femmine, sia nel favorire una maggiore socializzazione della specie umana sia come prime insegnanti di innovazioni tecnologiche durante il lungo periodo infantile».

   In sostanza, risulta infondato l’archetipo endemico della donna indifesa, “domestica”, e dell’uomo, potente per le armi, intento a procurare, in misura esclusiva, il cibo per la sopravvivenza della famiglia. Di nuovo la Ehrenberg esemplifica: «L’evoluzione umana è stata sempre letta attraverso il ruolo dell’“uomo cacciatore”, con la creazione di armi ed utensili per catturare e macellare le prede. E che cosa faceva la donna nel frattempo? Rimaneva forse seduta in casa a girarsi i pollici, aspettando che l’uomo procacciasse il cibo e diventasse così più abile fino a trasformarsi in Homo sapiens-sapiens?». Niente affatto, perché il nostro genere, provvisto di cellule con doppio cromosoma X, sin dalle origini ha espresso propensioni operative altissime accanto a opzioni di natura sessuale autonome nello scegliere maschi amichevoli, inclini a spartire.

   Ancora oggi, nel componimento di Isabella Sordi, le incantevoli rose celebrate durante il mese dedicato ai defunti (prendendo il posto dei rituali crisantemi) acquisiscono sembianze muliebri per sostare qui con noi, mentre le scorgiamo continuare ad amare chi come loro ama, non solo grazie a un ininterrotto «diritto materno» della specie umana, nondimeno in virtù della costante fiducia, della fede nel rapporto erotico fondato sul preferire l’unione con uomini libera da vincoli aberranti di sottomissione. Non dimentichiamolo: per ottenerlo, le nostre paladine hanno affrontato «il vento e il gelo».

   Nella narrazione mitica, le figlie di Προτος (Pròitos, Preto) rifiutarono di prendere marito pur essendo state chieste in moglie, senza il loro consenso, da tutti i Greci: per aver disprezzato Ηρα (Èra, sorella-sposa di Zeus), dea protettrice del matrimonio, e Διόνυσος (Diòniusos), dio iniziatore, furono aggredite da una malattia in grado di causare la perdita dei capelli e lo scolorire della pelle in chiazze bianche («Così come le rose /che perdono il colore», scrive Isabella Sordi). Per disgrazia, queste sorelle annientate, lasciate sole, nella poesia identificano ancora l’atto di amare con il “bello” della vita, del Creato: di conseguenza, allo scopo di difenderlo, di far sì che continui a sussistere, sono rassegnate ad abbandonare l’esistenza per amore, a «morire di bellezza». Purtroppo, il sentimento dellρως (èros) per cui sono cadute, dalla parte opposta si era manifestato unicamente in termini di ferocia, di perversione, frutto di disuguaglianza, magari di sfruttamento, il tutto mascherato da formalità retoriche, ambigue, contraddittorie.

   Vorrei concludere rispondendo all’appello dell’incantevole poesia (ricordate?) nella speranza che, nell’atroce dolore sofferto lungo l’intervallo del θάνατος (thànatos) - lungo? breve? - le rose della Sordi, sbocciate in autunno, abbiano rammentato quanto, nella notte dei tempi, per fare del male a un individuo si ricorresse al gesto di colpire un suo modello, ad esempio romperlo per imitarne la morte, o infilzarlo di spilli per provocarne ferite profonde. Tuttavia - le nostre rose lo sanno bene - il modello così costruito serviva anche per azioni buone, ideate per guarire o guadagnare prosperità. Il sacrificio delle donne-rosa equivale proprio a questo: al tentativo, come hanno potuto, di opporsi agli assassini per impedire che essi seguitassero a uccidere. Un sincero “grazie” quindi a loro, e a Isabella Sordi che non ha voluto dimenticarle per condurle a noi in un illuminante “incanto”. 

 

Si ringrazia Adriano Camerini per l’assistenza nel corso della stesura del testo. 

 

 


 

Isabella Sordi, nata a Udine, residente a Mestre, è stata per vent’anni docente di Letteratura Inglese nelle scuole superiori. Si è dedicata alla poesia fin dall’età di otto anni: «Ho ancora il ritaglio della rivista “Amica” su cui pubblicarono alcuni frammenti di mie poesie con giudizio positivo. Ero quindicenne e tra i giurati c’era Dino Buzzati».

Ha pubblicato le sillogi poetiche Un Dio felice (Vitale, 2002), Sopra i cieli di Berlino (Arezzo, 2013) e In un vorticoso tango (2022), questi ultimi editi da Helicon. «Mi piace sperimentare la scrittura in altre lingue: ho scritto poesie in inglese, spagnolo, friulano e nei dialetti veneto e romanesco».

Collabora attivamente con vari gruppi culturali di Mestre e di Venezia attraverso letture, incontri e conferenze. Con l’associazione La Torre di Mestre, dal 2018 in poi, ha contribuito ai reading poetici “Attorno a una panchina rossa”, contro la violenza sulle donne.

È membro della Writers Capital Foundation e della International Academy of Ethics. Ha organizzato il Premio Letterario Intercontinentale “Le Nove Muse” a Mestre, nel 2022, del quale è stata Presidente di Giuria.

Ha conseguito numerosi primi posti in concorsi nazionali e internazionali tra cui “Dino Boscarato” (2008), “Città di Acqui Terme” (2009), “San Marco” (2010) e “Certamen Apollinare Poeticum” (2023), nonché vari premi speciali tra cui “Scrittore dell’anno” alla Rassegna Letteraria Olympus e “Writer of the Year 2023” alla Writers Capital Foundation.

La poesia Le rose novembrine ha ottenuto il Premio Speciale “I Percorsi delle Muse” nel 2023 a Roma al concorso “I colori delle parole”.

 

 

 

 


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