Lauro ZUFFOLINI - “Per Cattolica binario 5” (racconto
breve)
Da molto tempo
Michele non metteva piede alla stazione ferroviaria di Carpi, dove viveva.
Ritrovò i soliti tre
binari, sempre uguali fin dal tempo in cui suo padre lo caricava bambino sulla
canna della sua bicicletta e lo portava a vedere il treno che arrivava. Quello
con la locomotiva tutta nera che faceva ciuff ciuff e faceva fuoriuscire
le nuvolette di fumo bianco che si innalzavano lentamente verso il cielo.
Pensò a quando era
capitato lì l'ultima volta e ricordò che fu per accogliere sua figlia Laura nei
suoi rientri periodici da Milano, dove studiava all'Accademia della
Comunicazione.
Lei non si era
bloccata davanti alla prospettiva di andare a vivere da sola, pur di sviluppare
la grande passione che aveva per internet e per la grafica. Aveva solo
diciannove anni, e l'idea chiara in testa di voler lavorare in quei settori.
Michele portava
impressa in sé l'emozione dell'attesa dell'arrivo del treno da cui sarebbe
scesa sua figlia, che amava intensamente. Aveva anche il rammarico, che a volte
gli cresceva dentro fino a diventare un senso di colpa, di non averle
assicurato una famiglia unita, ma spezzata dalla separazione dei suoi genitori.
Provò ancora quello stato d'animo misto. Da una parte l'orgoglio per
l'autonomia e l'indipendenza che sua figlia dimostrava nel voler affrontare da
sola la vita di una metropoli e dall'altra l'apprensione per i pericoli che le
potevano incombere a seguito di quella scelta. Soffriva per il disagio della
lontananza da lei che la separazione gli aveva lasciato in eredità da quando
era uscito per sempre di casa e che lo accompagnava stabilmente, come un basso
continuo, nonostante gli sforzi da lui compiuti per esserle vicino in tanti
modi e in tante occasioni, nonostante tutto.
In quel sabato
d'estate di un week end prossimo a ferragosto c'era poca gente in stazione e
non ce ne poteva essere di più. Non si trattava della Gare de Lyon, né della
stazione Termini, ma solo di quella di Carpi.
Il treno poi era
diventato un mezzo di trasporto desueto. Non dava la libertà d'azione e di
orario delle automobili, mezzi alla portata di tutti, né copriva le distanze
degli aerei. Gli utenti andavano così cercati tra coloro che dovevano
economizzare nelle spese di trasferimento.
Vide due ragazze
dalla pelle scurissima che chiedevano informazioni a tre signori anziani seduti
su una panchina. Non si capiva bene se quei signori stessero aspettando un
treno o fossero lì per passare il tempo in compagnia. L'abbondanza di parole
che quei tre, a turno e accavallandosi, usarono nel fornire indicazioni alle
giovinette, il tono di voce affettato e la quantità di sorrisi esibita, davano
l'impressione che i panchinari cercassero di andare oltre le domande ricevute.
Pareva che tentassero di fare i galletti, in realtà molto spennacchiati e
bolliti. Ma si sa che l'abitudine di certi uomini all'abbordaggio non dipende
dall'età e si perpetua finché c'è il respiro.
Michele non poté
osservare più a lungo la scenetta, perché il suo treno si era già presentato al
binario 3.
Sua sorella Daniela
l'aveva invitato a passare il fine settimana da lei a Cattolica, dove aveva da
poco comprato un appartamento, coronando il sogno suo e di suo marito per
quanto riguardava le vacanze. Cattolica forever. Seguendo le scelte dei
genitori, Michele c'era stato tante volte da ragazzo nel mese di agosto con
tutta la famiglia e per sua sorella non esisteva località migliore di quella.
Le carrozze erano semivuote
e i passeggeri potevano così collocarsi ben lontani gli uni dagli altri, come
lui stesso fece. Le poltrone erano ben più che ordinari sedili, decisamente
comode, di un vivace colore blu elettrico e piazzate alla giusta distanza tra
loro. Si stupì, gli sembrava di viaggiare in aereo, anche se lui non aveva mai
provato cosa fosse la prima classe perché i suoi voli erano stati molto
economici. Quella rimaneva comunque la seconda classe di un treno regionale,
decisamente migliorata di livello dai tempi della sua giovinezza.
All'arrivo a Modena
era previsto un cambio.
Prima dell'ingresso
in stazione si sentì una voce nell'etere… abbiamo maturato sei minuti di
ritardo, ce ne scusiamo con i viaggiatori...
Il proverbiale vizio
italico del ritardo sulle strade ferrate non era quindi stato abbandonato. Vi
era così stato aggiunto un tocco di gentilezza e di precisione unitamente alla
confessione esplicita dell'errore commesso. Michele si meravigliò anche di
quella parola usata, 'maturato', che riteneva più adatta a descrivere
frutta che un ritardo nella percorrenza di un convoglio.
Sull'orario esposto
al pubblico era indicato il binario 4 per il cambio del treno, ma una voce
avvertì che bisognava invece dirigersi al binario 5. Così si assistette a
repentini spostamenti di direzione da parte di gente con valigie in mano e
borse a tracolla e con la tipica frenesia di chi teme di perdere il treno
giusto.
Michele già lo sapeva
e rimase calmo. Sua sorella viaggiava spesso su quel treno e lo aveva avvisato
di tale variazione.
Ora i posti liberi si
erano ridotti di numero e la scelta si era ristretta. Occorreva così valutare
dopo un veloce colpo d'occhio anche i vicini per decidere dove sedersi. Michele
si sistemò davanti a un signore col doppio mento che stava dormendo. Gli
sembrava più vecchio di lui, ma non ne era sicuro. Forse Michele stesso era il
più vecchio dei due. Superati da un po' i cinquant'anni, non riusciva più ad
attribuire l'età alle persone. I giovani gli sembravano tutti giovanissimi,
quasi ragazzini. Gli adulti facevano parte di una massa in cui non ci capiva
molto. Poteva sbagliare anche di dieci anni e più. Gli anziani si distinguevano
per un qualche segno di visibile decadimento nell'aspetto fisico.
Michele quel
pomeriggio aveva voluto viaggiare in treno. Avrebbe potuto usare la macchina,
ma intravide in quella scelta l'opportunità di riposarsi di più e di poter
riflettere con calma. Voleva cogliere qualcosa, uno spunto, un'idea, un
bagliore di luce che lo aiutasse a sbrogliare in parte la matassa aggrovigliata
della sua vita.
Era il primo week end
che trascorreva da solo, da tanto tempo, senza la presenza della sua compagna
Stefania, che si era recata a fare una vacanza in Tunisia con sua figlia.
Con Stefania viveva
da alcuni anni una sorta di convivenza part- time, limitata ai fine settimana,
alle feste comandate e poco più. Quella condizione andava bene a lei, ma non a
lui. E gli era piaciuto poco che avesse preferito passare una vacanza con la
figlia senza di lui, dietro richiesta della ragazza stessa, appena adolescente.
Stefania non gliene aveva parlato abbastanza e gli sembrò di dover accettare
senza discussione quella cosa. Cioè di subire. Per lui era un indizio serio
dello scarso amore di Stefania nei suoi confronti. Questo ci poteva anche stare,
alla fine. I sentimenti non si impongono, né a se stessi né agli altri. Ma era
necessario capire che tipo di sentimenti provasse la persona che lui amava, per
non dover accorgersi troppo tardi di aver imboccato una strada che non portava
da nessuna parte. Quanto meno non dove lui desiderava arrivare. E lui voleva
unire la sua vita a quella di una donna, o almeno a riprovarci, dopo il
fallimento del suo matrimonio. Era innamorato della dolcezza di lei, ma sentiva
che c'era ancora un po' di distanza tra loro, che lei non colmava affatto, anzi
sembrava voler mantenere. Questo gli occupava la mente, in viaggio per
Cattolica. E mentre era in attesa di una illuminazione interiore vide il treno
giungere alla stazione di Bologna.
Qui salì il resto del
mondo.
Ma Bologna era
Bologna, una bella città, popolosa ma non troppo. Gente simpatica, ironica,
piena di buon senso e sorprendentemente saggia. Qui i ricordi aggredirono
Michele con più veemenza.
Erano gli anni
dell'università e riaffiorò un altro rimpianto. Dopo il primo anno da
matricola, quando frequentava le lezioni ogni giorno e faceva avanti e indietro
sui treni da Carpi e per Carpi, Michele smise di presentarsi nelle aule se non
per gli esami.
Scelse di lavorare
per pagarsi gli studi, perché suo padre disapprovò la sua decisione di studiare
pedagogia. Voleva che diventasse, medico, ingegnere o bancario, insomma che
perseguisse una professione che gli procurasse denaro e prestigio. Cos'era la
pedagogia? Gli chiedeva con feroce
sarcasmo suo padre. Di sicuro una cosa che dava poco da mangiare, secondo il
suo genitore.
Per amor proprio,
Michele si fece assumere come insegnante di musica comunale e rifiutò
quell'aiuto economico che suo padre non gli aveva comunque mai negato né messo
in discussione. Per amor proprio o per orgoglio, ma soprattutto per coerenza
sembrò a Michele di dover compiere quel gesto. Ognuno doveva pagare per le
scelte che faceva. Così era fatto lui.
Più avanti nella vita
si chiese alcune volte cosa sarebbe stato di lui se fosse andato avanti per la
strada che preferiva, quella che portava all'insegnamento, partecipando
assiduamente alla vita universitaria senza deragliamenti.
La laurea che
conseguì alla prima sessione di esami, senza aver perso un solo giorno utile,
non gli bastò per imboccare quella via. Fu un giorno più di mestizia che di
gioia, quando salì sulla vecchia Fiat 1100 di famiglia e tutto solo si avviò
verso Bologna per discutere la tesi, ottenendo anche il massimo dei voti. Il conflitto col padre si accentuò in
seguito, lo spinse a uscire di casa presto per sposarsi troppo giovane e a
cercare per necessità il lavoro dove c'era. Ed entrò nel settore
dell'abbigliamento, quello che a Carpi forniva più opportunità di lavoro, che
poteva essere per molti un piacere e un interesse, ma per lui niente più che
una forma di esilio dal mondo della scuola che avrebbe voluto frequentare.
Esiliato, appunto. Così si sentiva nei panni di un piccolo imprenditore. E la
sua piccola azienda non andava affatto bene negli ultimi tempi.
A quel punto sul
treno i posti vennero tutti occupati.
E iniziò una specie
di festival delle suonerie dei telefonini. Musichette di ogni tipo, dal rock
all'hawaiano, al melodico strappacuore classico o napoletano, al motivetto per
bambini, dalla mazurka da sagra paesana al cool jazz. A suo insindacabile
giudizio vinse la sua, di suoneria. Grazie a una chiamata da parte di sua
sorella, tutti, o almeno chi era stata attento, poterono ascoltare l'imperioso
inizio della quinta sinfonia di Beethoven.
“Tutto bene?”.
“Sì, tutto a posto…
non so l'orario preciso in cui arriverò… perché dipenderà dal ritardo...
maturato”.
“Bene... ti
aspettiamo”.
Daniela era adorabile
e disponibile, tranne in quei momenti in cui il loro rapporto subiva degli
improvvisi black out per incomprensioni reciproche. Suo marito era molto simile
a lei. A quel tempo tutto filava liscio tra loro fratelli e lei era orgogliosa
di mostrargli quell'appartamento tanto anelato.
Si guardò intorno.
Lo spettacolo agli
occhi di Michele parve davvero singolare. Quasi tutti i viaggiatori stavano
parlando, con partecipazione, con intensità, gesticolando ed emozionandosi, ma
non con i propri vicini di posto, bensì con i lontani, tramite il cellulare.
Come in quadro di
pura follìa, popolato da marionette, ognuno si atteggiava e rivolgeva parole a
una tavoletta sonora e colorata che teneva in mano, ignorando del tutto chi gli
stava accanto o di fronte.
Michele cercava di
buttare acqua sul fuoco riattizzato dai suoi ricordi.
Vide un controllore
zelante che al limite dell'impertinenza scosse due volte il braccio di una
bella ragazza bionda che si era addormentata, per chiederle il biglietto. Non
era neanche facile assopirsi in quel contesto concitato e rumoroso di
conversazioni mediatiche. Michele pensò che lui l'avrebbe osservata e attesa
per qualche attimo e poi se ne sarebbe andato lasciandola riposare.
Intanto vide che
fuori dai finestrini pioveva, anzi scrosciava. Non male per chi si recava in
luoghi di vacanza a cercare amplessi col sole cocente.
Da uno scompartimento
vicino arrivò una ragazza con i capelli rosa. Mancava giusto una così, con in
testa una tinta artificiale, perché le diverse etnìe erano già tutte presenti
con la varietà dei colori di pelle e di pelo inventata dalla natura. Dal punto
di vista cromatico i passeggeri del treno erano pressoché al completo.
Michele girò gli
occhi verso la ragazza seduta alla sua destra. Stava leggendo con molta
concentrazione un testo di economia in lingua inglese, ma era italiana, da come
parlava al cellulare. La ammirò, lui che l'economia la capiva poco già nella
sua lingua natìa e ancor meno gli piaceva.
Tre file di sedili
più avanti, da un posto di fronte al suo, un uomo mezzo calvo col pizzetto lo
stava guardando per la sesta o settima volta. Gli occhi si incrociano
casualmente in certi ambienti in cui si è costretti a stare, ma Michele si
scocciò di quel guardone.
Il treno procedeva a
velocità elevata e lui si sentiva rilassato, quasi cullato dai ritmici
movimenti di quella macchina. L'unico inconveniente era rappresentato dalla
difficoltà di scrivere. Era solito annotarsi pensieri e riflessioni su dei
fogli bianchi che portava sempre con sé, come in una sorta di diario
dell'anima, ma in quella circostanza gli uscivano dalla biro solamente dei
caratteri tondeggianti e arzigogolati, simili all'alfabeto urdu dei pakistani.
Stazione di Forlì.
Ad ogni fermata il
conduttore dichiarava i minuti di ritardo, che risultavano in costante aumento,
e ciò stava diventando una stucchevole litanìa. Sarebbe stato meglio che
cercasse di rimediare al ritardo invece di informare puntigliosamente i
viaggiatori, suscitando commenti tutt'altro che benevoli.
Un flash mentale lo
riportò ai tempi dell'università, quando sul treno che lo portava a Bologna si
chiedeva, nell'incapacità di prevedere il suo futuro, a quali stazioni della
vita sarebbe sceso, facendo varie ipotesi del suo lavoro. Invece cominciò a
pensare, quel sabato, quanto mancasse al capolinea.
Stazione di Cesena.
Michele poté
finalmente allungare le gambe e allargare le braccia, nel massimo della
comodità possibile, perché molti dei suoi compagni occasionali di viaggio erano
scesi.
Chissà chi erano e
che vita conducevano. Pensò che nella vita si percorre solo un tratto di strada
insieme agli altri, più o meno lungo che sia. E quando non ci sono più un
progetto che accomuna o una necessità che lega si assiste alla scomparsa
indifferente o dolorosa degli altri. Oppure siamo noi stessi a scendere a una
stazione precisa, abbandonando il viaggio comune fino ad allora, causando
dolore o indifferenza. Il problema principale consiste nell'individuare bene i
vari momenti, capire cosa c'è che unisce le persone, né illudersi né illudere.
Nel caso si tratti di una coppia ci vorrebbe la lucidità di comprendere se la
situazione è veramente condivisa o se uno dei due si sta caricando un cadavere
sulle proprie spalle.
Molti viaggiatori
stavano ascoltando musica dagli auricolari. Chissà se era musica buona, pensò
Michele, e se avevano le orecchie pulite...
C'era un ragazzo che
portava scritto sulla sua maglietta gialla 'violence and aggression', ma
aveva occhi miti e mansueti e un fare flemmatico. Che si trattasse di un caso
di personalità dissociata? O multipla?
Faceva anche pensare
a Michele che i violenti, al di là delle apparenze, sono accanto a noi, sono
come noi e potremmo diventarlo anche noi stessi. Michele era un pacifico,
tutt'altro che impulsivo. Ma anche a lui erano venuti certi attacchi di rabbia.
Aveva ancora scolpita
davanti agli occhi l'immagine di quel direttore di banca, basso di statura, che
il mese prima con tono di voce indifferente e cantilenante gli aveva
bruscamente tolto di mano quell'ombrello che gli aveva generosamente offerto
quando gli affari gli andavano bene. Rientrato a casa, Michele tirò un pugno
contro il muro. Solo in quel giorno dovette controllare impulsi aggressivi, che
mai aveva provato per alcuno, verso quell'individuo che gli ripeteva
ossessivamente 'non ho facoltà di comportarmi diversamente', mentre
Michele gli squadernava umiliandosi tutti i motivi della stretta economica in
cui si ritrovava, il suo passato e presente di persona affidabile e
responsabile, e sull'orlo della disperazione gli spiegava le sue proposte per
risollevarsi dallo sforamento del fido bancario. Inutilmente. In conclusione se
la prese con se stesso e per puro caso non si fratturò una mano.
Quel giovane sul
treno probabilmente tentava di esprimere con ironia un dato caratteriale o una
metodologia di vita che gli erano estranei e che condannava. Forse.
Il sole finalmente
riuscì a bucare le nuvole.
Così le prospettive
cambiavano.
Ma si era ormai al
tramonto.
Come poteva vivere,
Michele, quei giorni e quella stagione della sua vita?
I saggi avrebbero
sentenziato che occorreva scorgere nella avversità il manifestarsi di
opportunità sempre nuove. Ma Michele non si sentiva saggio e a volte pensava
che i saggi non avrebbero immaginato in quali e quanti casini si trovasse
Michele stesso.
Inviò un sms a sua
sorella, informandola che stava per arrivare.
Di illuminazioni
proprio non ne ebbe o forse non se ne accorse.
E per poco non scese
per sbaglio alla stazione di Misano, quella prima di Cattolica.
Aveva già i piedi sul
predellino.
Lauro
Zuffolini, 66 anni, è
nato e vive a Carpi (MO), dove lavora come educatore di ragazzi disabili nelle
scuole superiori. È laureato in pedagogia e diplomato in pianoforte. Scrive
assiduamente da circa vent'anni, ma solo da un decennio pubblica i suoi
componimenti. Nel 2019 è risultato primo classificato in due concorsi: a Novara
a “La canonica arte” per la
prosa, a Roma a “Mangiaparole“ per
la raccolta Poesie così (di
prossima pubblicazione presso le edizioni Progetto Cultura). Sempre a Roma, gli
è stato assegnato nell’ottobre 2019 il Premio della Critica al concorso
nazionale “I colori delle parole”,
ottenendo poi vari riconoscimenti a Massa, S. Benedetto del Tronto,
Melegnano, Zola Predosa, Viareggio, Monza e Carpi. Per l’editore Montedit ha
pubblicato tre raccolte di poesie, Quello che sono capace di dire, Terremoti fuori e dentro e Vele
stracciate, nonché il romanzo Maistefureb dieci volte.
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Commento di Cinzia Baldazzi
Nella vita, quale
significato possiede il pensiero, o meglio la riflessione in sé? Valutando cosa
siamo, cosa accade intorno, potremmo migliorare la qualità dell’esistenza
personale o altrui? Il racconto Per
Cattolica binario 5 di Lauro Zuffolini, nell’ordine di un macrocosmo della
letteratura, mostra quanto porsi un quesito del genere, oltre ad essere già
esempio in atto di una simile forma del ponderare e rivedere l’insieme,
coincida con la prova di come tale genere di ragionamento sia insito
nell’indole umana, reso esplicito o meno.
Poco meno di duecento
chilometri, quasi due ore di viaggio: nell’itinerario del treno in partenza da
Carpi e diretto a Cattolica, l’Io narrante si identifica, appunto, con la
prospettiva di un point of view non
per illuminare l’hic et nunc causale
dell’intera vicenda descrivendola in linea tradizionale. Infatti, acquista
rilievo progressivamente sempre più importante il ruolo della sorte, il peso
dei “se”, tipici di un meditare in chiave di giudizio riflettente sulla traccia del criticismo kantiano:
Michele
quel pomeriggio aveva voluto viaggiare in treno. Avrebbe potuto usare la
macchina, ma intravide in quella scelta l’opportunità di riposarsi di più e di
poter riflettere con calma. Voleva cogliere qualcosa, uno spunto, un’idea, un
bagliore di luce che lo aiutasse a sbrogliare in parte la matassa aggrovigliata
della sua vita.
L’accordo tra il referente
dell’ambito primario naturale e lo spazio della libertà viene rintracciato da
Immanuel Kant nell’intervallo intimo equivalente al giudizio riflettente. Dobbiamo però partire dall’altra grande
tipologia, ovvero il giudizio
determinante (o sintetico a priori),
il cui regno è la Critica della ragion
pura: l’individuo, per conoscere, si appella alle categorie
dell’intelletto, la molteplicità dei fenomeni viene interpretata in base a un
concetto già dato.
Nella Critica del giudizio estetico, dedicato al “bello” e al ”sublime”, la
funzione riflettente indica invece
che l’Io soggettivo “riflette”, al pari
di uno specchio, il reale interiore su quello esterno. Si parte da un singolo
fenomeno, dal “particolare”, per ricondurlo a un concetto, a una regola, a un
“universale”, sulla base della riflessione.
Nella Teoretica kantiana,
“conoscere” corrisponde ad associare un oggetto a un altro: un predicato a un
soggetto, oppure a con b. Nella short story di Zuffolini, a riguardo:
Le
poltrone erano ben più che ordinari sedili […] gli sembrava di viaggiare in
aereo […] Quella rimaneva comunque la seconda classe di un treno regionale,
decisamente migliorata di livello dai tempi della sua giovinezza.
Nell’Estetica, invece, la
conoscenza implica la connessione di a
con s, ovvero con noi stessi: il
soggetto è pienamente coinvolto nel giudizio da lui attribuito. Nel giudizio
estetico, l’individuo appare libero nel formulare i nessi associativi e può
tendere alla dimensione dell’assoluto, al contrario preclusa alla pura ragione
consequenziale.
Ad esempio, nei pensieri di
Michele prende corpo una riflessione sui compagni occasionali di viaggio:
Chissà
chi erano e che vita conducevano. Pensò che nella vita si percorre solo un
tratto di strada insieme agli altri, più o meno lungo che sia. E quando non ci
sono più un progetto che accomuna o una necessità che lega si assiste alla
scomparsa indifferente o dolorosa degli altri. Oppure siamo noi stessi a
scendere a una stazione precisa, abbandonando il viaggio comune fino ad allora,
causando dolore o indifferenza. Il problema principale consiste
nell’individuare bene i vari momenti, capire cosa c’è che unisce le persone, né
illudersi né illudere. Nel caso si tratta di una coppia ci vorrebbe la lucidità
di comprendere se la situazione è veramente condivisa o se uno dei due si sta
caricando un cadavere sulle proprie spalle.
Il “giudizio riflettente”,
quindi, non svolge un ruolo direttamente conoscitivo, ma si caratterizza
soprattutto per il libero gioco delle facoltà (giudizio, intelletto e ragione),
consentendo di gettare un ponte tra l’universo naturale (necessario) e lo
spazio-tempo della libertà. L’auspicio è nel cercare di rispondere
personalmente alla domanda: qual è l’obiettivo della natura? che senso esprime
il mondo intorno a noi?
L’atteggiamento kantiano del
viaggiatore di Zuffolini ha questa caratteristica: osservare, scrutare e
selezionare diventano azioni e strumenti idonei a comprendere la propria natura
di uomo, spirituale e comportamentale, in rapporto agli altri e al mondo
circostante.
Tra le pagine della short story emerge, attraverso un
raffinato complesso di segni-segnali, un orizzonte di discorso in cui la
comunicazione (orale, scritta) non è articolata in veste di semplice input informativo: rappresenta piuttosto
un’autentica, preziosa azione esercitata dal singolo - a volte mittente, a
volte destinatario - sugli altri.
Scaturisce, così, un
concetto di scambio, responsabile di analoghe aree semantico-semiotiche
proiettate in un’aura di pace acquisita, di lotte, speculazioni, notizie ottenute,
riconoscimenti; il successo comunicativo evocato dall’autore nel lettore
sussiste non tanto nel contenuto di dati ricevuti, quanto nel recepire questa
serie di messaggi privati o collettivi, parziali o forse totali, all’interno
della parola, non solo detta, ma alla
quale il contesto assegna il merito di poter essere creduta. Ed ecco, apprendiamo:
C’era
un ragazzo che portava scritto sulla sua maglietta gialla ‘violence and
aggression’, ma aveva occhi miti e mansueti e un fare flemmatico.
E ancor prima:
Da
uno scompartimento vicino arrivò una ragazza con i capelli rosa. Mancava giusto
una così, con in testa una tinta artificiale, perché le diverse etnìe erano già
tutte presenti con la varietà dei colori di pelle e di pelo inventata dalla
natura. Dal punto di vista cromatico i passeggeri del treno erano pressoché al
completo.
Ma tale ordine di pensiero,
di riflessione - pare suggerire Lauro Zuffolini - siamo certi che si allinei,
comunque, al profilo narrativo dei testi? Infatti, sorge il dubbio:
Il
treno procedeva a velocità elevata e lui si sentiva rilassato, quasi cullato
dai ritmici movimenti di quella macchina. L’unico inconveniente era
rappresentato dalla difficoltà di scrivere. Era solito annotarsi pensieri e
riflessioni su dei fogli bianchi che portava sempre con sé, come in una sorta
di diario dell’anima, ma in quella circostanza gli uscivano dalla biro
solamente dei caratteri tondeggianti e arzigogolati, simili all’alfabeto urdu
dei pakistani.
La domanda oltrepassa il
particolare e rinvia direttamente al generale: è vero o falso ciò a cui
assistiamo percorrendo il fil rouge
di una narrazione? Il semiologo lituano Algirdas J. Greimas, nell’introduzione
all’opera Del Senso 2, rileva come al
concetto fondamentale di verità del
narrato si vada sostituendo e affermando sempre più quello di efficacia, traslando dall’essere delle cose al loro farsi. Un passo del ragionamento di
Michele testimonia questa inversione di rotta:
Un
flash mentale lo riportò ai tempi dell’università, quando sul treno che lo
portava a Bologna si chiedeva, nell’incapacità di prevedere il suo futuro, a
quali stazioni della vita sarebbe sceso, facendo varie ipotesi del suo lavoro.
Invece cominciò a pensare, quel sabato, quanto mancasse al capolinea.
Un ulteriore strumento
cognitivo utile a decifrare la narratività del testo di Zuffolini è la
semiotica di Charles Sanders Peirce: come spiega il traduttore e curatore
Massimo A. Bonfantini, essa è basata sul «primato attribuito alla realtà
esterna rispetto al soggetto umano nel processo della conoscenza». Dunque,
l’oggetto è il primo motore del meccanismo conoscitivo (semiosi), nel senso che determina il segno e anche colui che lo
interpreta. E quando Peirce parla di
«cooperazione di tre soggetti», Bonfantini commenta: «Nella catena
oggetto-segno-interpretante, il passaggio dall’uno all’altro non è
meccanicamente determinato, ma avviene in virtù di una mediazione creativa».
Nell’articolazione del
racconto Per Cattolica binario 5, un
simile “valore aggiunto”, il fulcro in grado di spostare i gradi del sapere
quotidiano è la voce esplicita in campo dell’autore, capace di mediare tra
l’interpretante (Michele) e l’oggetto del narrato (il contesto). Il
procedimento incrementa un continuo, avvincente progress:
Il
sole finalmente riuscì a bucare le nuvole.
Così
le prospettive cambiavano.
Ma
si era ormai al tramonto.
Come
poteva vivere, Michele, quei giorni e quella stagione della sua vita?
I
saggi avrebbero sentenziato che occorreva scorgere nella avversità il
manifestarsi di opportunità sempre nuove. Ma Michele non si sentiva saggio e a
volte pensava che i saggi non avrebbero immaginato in quali e quanti casini si
trovasse Michele stesso.
Il caos evocato affiora
voluto e cosciente, e tuttavia il plot
risulta cadenzato dalle fermate del tragitto ferroviario (Modena, Bologna,
Forlì, Cesena, Misano), come fossero clausole di un contratto che, avendo
intrapreso il viaggio, siamo costretti ad accettare, quasi trapelasse
un’illusione convenzionale, un indizio di traccia provvisoria prima o poi
destinata a svelare il mancato atto cognitivo finale:
Di
illuminazioni proprio non ne ebbe o forse non se ne accorse.
E
per poco non scese per sbaglio alla stazione di Misano, quella prima di
Cattolica.
Aveva
già i piedi sul predellino.
Condivido in pieno la critica di Cinzia con il suo "idemsentire" kantiano tra lei e l'autore. Aggiungerei un tocco evangelico, fattosi in strada in me, malgrado la mia cultura profondamente laica ed agnostica. La folla di viaggiatori è la folla di peccatori che sbeffeggia Michele-Gesù nella salita tra le stazioni della tratta percorsa, la "Via Crucis" nelle quali i passeggeri salgono e scendono, con il loro carico di "peccati", introiezione delle debolezze dell'io narrante. In loro Michele rivede il passato e immagina il futuro. Tutto sommato ottimisticamente. La mèta di Cattolica, con sua sorella, che è immaginata come una Maria non sofferente perché, come Misano non è ancora Cattolica, così Michele non è ancora giunto alla stazione finale. Il futuro non sarà una deposizione, bensì la pausa di vita tra una morte fatta di rimorso per una dolorosa separazione carica di rimorso per l'amata figliola, ed una resurrezione fatta di riposo e di accoglienza da parte di sua sorella "Maddalena". Grazie per l'ospitalità. Massimo Moraldi.
RispondiEliminaSenza dubbio, il tuo punto di vista analitico è acuto e contestuale. L'iter parallelo ispirato all'istanza evangelica, a ben vedere, è molto probante, soprattutto nella ricorrenza delle unità lessicali scelte e per la coralità del sentire, individuata e poi trasmessa in un arco simile a una parabola.
EliminaGrazie, Massimo.
Grazie a te, Cinzia, per la tua fiducia e per il mio coinvolgimento, dei quali sono particolarmente lieto.
EliminaGrazie Cinzia per i Tuoi commenti sempre approfonditi e puntuali, che ci stimolano a comprare e leggere con maggiore consapevolezza i testi che proponi.
RispondiEliminaGrazie, Giancarlo. Il tuo è veramente un bel complimento!
EliminaMolto profonda la critica di Cinzia, cosa che io non saprei sicuramente fare, non ho cultura liceale di nessun tipo. Esprimo quindi solo il mio semplice pensiero per come vedo io il racconto di “Michele”.
RispondiEliminaMichele ha scelto di viaggiare comodo in treno per poter pensare al viaggio della sua vita, alla scelta fatta nonostante la contrarietà del padre. Tuttora si sta chiedendo se le sue scelte, università, lavoro, matrimonio, siano state le scelte giuste. Sta andando dalla sorella a Cattolica e ad ogni fermata del treno attribuisce una scelta che ha fatto e ancora si sta chiedendo se sia stata quella giusta. Ha ancora dell’incertezza, all’arrivo a Misano, in quanto “pensava” di essere arrivato, mentre la meta era ancora oltre.
Gli occasionali compagni di viaggio li vede come inciampi del suo cammino, leggeri e rosei come nella ragazza dai capelli rosa, da evitare come l’incontro con l’uomo che lo fissa in continuazione e dal quale deve distogliere lo sguardo.
L’arrivo dalla sorella Daniela lo ritiene il rifugio domestico dove potersi analizzare per riprendere in mano la sua vita.
Grazie del tuo commento, puntuale e articolato!
EliminaHo letto il racconto con notevole interesse! Si tratta di un testo (a mio parere caratterizzato da una forte impronta autobiografica) che coinvolge il lettore, incrementando l'attenzione e la partecipazione attiva man mano che le parole scorrono sotto gli occhi. Chi legge si sente proiettato in quella dimensione del viaggio reale, al quale fa da pendant il viaggio metaforico, che si estende dalla sfera personale a quella corale e poi universale, per fissarsi nella mente con tutte le sue tappe materiali e allegoriche.
RispondiEliminaIl coprotagonista, per certi versi alter ego di Michele, è il suo flusso di pensieri, che si estende verso una scia di riflessioni, anche nostalgiche, e analisi disincantate della propria esistenza, come se volesse quasi oscurare il protagonista nel senso fisico.
Il pregevolissimo commento critico conferisce valore aggiunto al testo e si configura come un racconto del e nel racconto. Cinzia Baldazzi analizza sapientemente lo scritto, sia attraverso una focalizzazione interna, per offrirci le coordinate utili all'interpretazione, come se lei stessa fosse un personaggio della narrazione, sia attraverso un punto di vista esterno, che enuclea le dinamiche relative al rapporto tra senso figurato e senso letterale, tra avvenimenti reali, corporei e derivazioni/riflessi filosofici, quasi metafisici.
Le sue parole ci conducono nel tanto intricato (per noi profani) quanto affascinante universo della critica letteraria, quella con le iniziali maiuscole, che ci illustra, con tecnicismi e chiarezza espressiva, il significato delle diverse sequenze narrative, singolarmente e in relazione reciproca.
Una meravigliosa full immersion nella filosofia kantiana ci accompagna lungo il percorso di lettura del commento critico, per ricordarci che il racconto analizzato, così come tutti gli scritti oggetto di analisi critica, assumono realmente le sembianze tangibili quando vengono scandagliati, approfonditi nel loro senso più recondito, "portati alla luce", perché ciò che il lettore legge è soltanto la sommità di una ben più ampia parte sommersa.
Le parole di Cinzia Baldazzi, dotate di straordinaria forza espressiva, esaustive e raffinatissime nello stile, hanno infuso l'alito vitale alla narrazione, le hanno impresso l'orma per poter diventare autonoma, quasi antropomorfa.
Complimenti all'autore e complimenti alla nostra critica letteraria!
Cinzia, non mi stancherei mai di leggerla. I suoi commenti critici m'incantano! Sono unici.
Grazie, Carla, per il commento assolutamente esaustivo del racconto. Da parte mia, sono felice tu abbia notato come ogni volta io tenti di essere "un personaggio della narrazione". Naturalmente, lunga vita a Emmanuel Kant e alle sue "critiche".
EliminaComplimenti all'autore del racconto e a te, Cinzia, per l'analisi come sempre attenta e rivelatrice di aspetti particolari del racconto stesso. Grazie per averlo condiviso.
RispondiEliminaGrazie a te, Rosanna, per aver apprezzato il racconto e il mio commento.
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