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sabato 30 maggio 2020



Cinzia BALDAZZI – Sensazioni di Antonella Santoro: note critiche sulla raccolta poetica.

  

Antonella Santoro
Sensazioni
Avola, Libreria Editrice Urso 2017
pp. 58, € 10,00


   Le sensazioni di Antonella Santoro raccolte nel volume omonimo si formalizzano - per mezzo del linguaggio scritto - in unità di significazione, anzi, in un articolato universo significativo. Il componimento che dà il titolo al libro offre un’articolazione esemplare di numerose istanze radicate nel terreno sensoriale-percettivo come nella zona psichica:

Buio lieve
di fresca galleria cieca...
ma io son io,
cuor d’aquilone,
di carta d’arance
che brucia nei bordi
e vola improvvisa.

Dolce odore
- caramella che incolla -
nel caldo avvincente, salato,
il corpo vestito di pelle leggera
che tolgo a piacere…

La voce è quella che so:
di colpo il ricordo m'avvolge,
non triste, ma un frizzo d’amore
un guizzo tra gioia e dolore,
incredula, ascolto.
Spio il tempo che ho.

Aspetto l’attesa sottesa
- un sospeso di cuore -
incerta, in un’aria seriosa
le mani appoggiate alla gonna,
dagli occhi svanita.

Pavimento come scultura,
carezza di passi svestiti.
Nella danza di anni passati
si specchia nostalgico un pivot.
[Sensazioni]

   Un tale complesso di messaggi non viaggia in uno spazio-tempo aleatorio o vago: a impedirlo è la funzione cruciale assegnata dall’autrice ai nessi simbolici. Così asseriva il semiologo lituano Algirdas Julien Greimas:

Il mondo umano ci appare definibile essenzialmente come mondo della significazione: il mondo può essere detto «umano» solo nella misura in cui esso significa qualche cosa.

   Ebbene, suppongo il titolo Sensazioni sia ispirato dall’aura generata nel comunicare segni-segnali corrispondenti a cose, idee, giudizi, soprattutto a tropi (metafore, metonimie, allegorie, e in genere figure retoriche), quando elaboriamo il tentativo di descrivere il microcosmo delle qualità sensibili. Il tema ricorrente delle parole, a volte inadeguate, impotenti, vuote ma necessarie, imprime svolte significative ai componimenti: «non ho più saputo crescere», confessa la Santoro, «volendo inventare poesie» [A una madre]; e sempre nel segno di una figura materna prende vita l’intenzionalità poetica:

Vorrei scrivere versi
originali, precisi
per poter sostituire
i fiori che non ho portato
le preghiere non dette
i saluti dimenticati,
quale ricompensa
al sollievo non recato.
[Madrina]

   Spesso la Santoro sembra suggerire un affidarsi dell’individuo alla distesa marina per conferire “senso” all’indistinto:

Io ti volevo dire che
basta che guardi
il mare
dalla finestra aperta
e ti inzuppi degli spruzzi
odorosi
per ricordare tutta
la tua vita,
recise lontananze
brevi
incrociate a incontri.
[Lontananze recise]

   E il mare ritorna più volte, qua e là tra le pagine della silloge, a scandire passi incespicanti sulla sabbia fino a placarsi [Amata mia città], nostalgia delle promenade sui «lungomare di infiniti soli» [Dolce Francia], sino alla personificazione estrema: «E se di mare sei fatto / con me a terra / sei voluto restare» [Nodo marinaro].
   Tracce discrete di ermetismo, disseminate qua e là in Sensazioni, illuminano un percorso lontano dall’astrazione, anzi, all’opposto, inteso a cercare e sentire la verità come vita. La riflessione elaborata da Antonella Santoro ha solide basi terrene, e assume sovente la configurazione di lotta contro il mondano, contro la stanchezza, contro la morte. Ricordo le parole del nostro Enzo Paci nella prefazione agli scritti di Gerd Brand sui manoscritti di Edmund Husserl:

La riflessione non è nulla di astratto: è il farsi stesso della vita e della verità nel tempo, ed è la verità che nel tempo mai e sempre si dà, riconducendoci, nella misura nella quale riusciamo a riflettere, sia all’inesauribile origine che all’idea teleologica infinita.

   Il discorso in questione, però, risulterebbe impenetrabile o addirittura caotico - nella indistinzione tra falso e vero, apparente e concreto, personale e obbiettivo - se la voce narrante della Santoro non fosse essa stessa garanzia, ovvero se non rendesse letterariamente conto della coesione nonché della pertinenza di messaggio del testo. Il filosofo Michel Foucault ha spiegato la questione generale innanzitutto circoscrivendo il campo:

L’autore considerato, naturalmente, non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità ed origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza.

   Poi, entrando nel merito dell’ordine del discorso letterario:

Si chiede che l’autore renda conto dell’unità del testo che va sotto il suo nome; gli si chiede di rivelare, o almeno di portarsi appresso, il senso nascosto che li attraversa; gli si chiede di articolarli sulla sua vita personale e sulle sue esperienze vissute, sulla storia reale che li ha visti nascere. L’autore è ciò che dà all’inquietante linguaggio della finzione le unità, i nodi di coerenza, l’inserzione nel reale.

   Poiché il testo di Antonella Santoro si rivela particolarmente adatto a un simile genere di considerazioni, mi chiedo: in qual modo sarebbe possibile adempiere allo scopo? con quali strumenti l’autrice potrebbe portare a compimento una analoga operazione di reductio ad unum?
   Credo di poter individuare il meccanismo della nostra poetessa nel suo prediligere la scelta di rivelare il senso nascosto dietro la totalità, mostrandosi in grado di animarlo nel coniugare hic et nunc individuale ed esperienze intraprese, in un’accattivante struttura semantica da condividere. Traslando l’analisi di Sensazioni da un tessuto poetico a un ambito filosofico, assistiamo al comporsi di una fitta trama tra l’Io e la realtà esterna, all’altezza di riportare alla mente i concetti della fenomenologia.  Ho già citato Edmond Husserl: il pensatore austriaco spiegava la fisionomia di un Io come Io-nel mondo, nella forma di una vita-che-esperisce-il-mondo. Non viene riservata maggior valenza né al campo oggettivo né all’area soggettiva. Scrive Husserl:

Tutto ciò, la vita, entro la quale io sono in rapporto al mondo, significa: non un mero io, e, di fronte ad esso, una molteplicità di esseri privi di io, bensì, in tutto e prima di tutto, in ogni percepito, in ogni avere, uno sforzo dell’io, un agire, un potere.

   I versi della Santoro impegnano una forza interiore nel suo esternarsi, una possibilità di avvicinarsi al mondo, di penetrare nell’estraneità del reale fino a dipanarla e portarla all’evidenza. Il loro significato è nell’avvicinamento, nello sforzo di ottenere una prossimità sempre maggiore alla realtà, al punto di sventarne i fraintendimenti, le dimenticanze, i pericoli. Antonella Santoro ha sistematizzato nel brano Insieme questa poetica, aprendo e chiudendo il componimento con la medesima espressione «Non sia mai», in un avvertimento a metà tra lo scongiuro e la prevenzione:

Non sia mai
che quieto
il mio respiro non rinasca
nell'ultimo ricordo
sopito nel sonno

che nel vortice del giro
sia il falso passo
a confonderci nel bianco
delle nostre membra

che si possa
cadere da questa roccia
cui siamo aggrappati
insieme
da sempre.

Non sia mai
[Insieme]

   I tentativi di energico intervento nel panorama circostante producono anche la coscienza di percepire come sia impossibile pervenire a un sapere totale: ogni qual volta scopriamo qualcosa, emerge «un sapere di più», afferma Gerd Brand, «che è anche insieme un non-sapere». Con un’affermazione di presunta impotenza, subito ribaltata in sfida esistenziale, la Santoro conclude un brano centrale della sua raccolta:

Arrivati alle porte della notte
in un dunque fatto di braccia,
- allacciate disperatamente
nella stretta dell'ultimo sogno -
sappiamo che ancora vivremo...
perché null'altro sappiamo fare.
[L’altrove]

   L’ignoto non può mai essere completamente dissipato: e allora, su un piano contiguo tra filosofia e poesia, la nostra scrittrice sperimenta possibili comportamenti di auto-estraniazione per rischiarare se stessa e mantenersi in costante movimento in un contesto seppure ignoto:

È che... non sono più
gl'incerti passi
a darmi fremiti di paura
ma sono strepiti di cerniere
e la voce ferma,
nel pensiero ch'è già lontano.

Frenàti del cuore i sussulti
sorrido con malìa bugiarda
e fingo,
immaginando già il ritorno.
[Fremiti]

   Le sensazioni dell’antologia, in sostanza, coincidono con il senso, il quale non si esprime, però, esclusivamente nella psiche, nel territorio raziocinante dell’anima: nascere donne e uomini è un evento iscritto nell’ambiente naturale, pertanto non sembra opportuno scorgere nel vissuto peculiare della coscienza la tappa suprema della nostra indagine conoscitiva. A riguardo la Santoro confessa:

Si va alla cieca tra siepi
nel labirinto di giardini
[…]
Attratta di continuo
dal delirio dei colori
e dei suoni
ho voluto vivere lo stesso
seguendo la ragione,
[…]
Riempita di parole
l'ubriaca mente,
solo ora riesco a percepire
a occhi ciechi
oltre i sensi.
[Oltre]

   Cosa accade, poi, al passato, al presente, al futuro? Non sussiste un oggi equivalente a istanti chiusi in sé: esso gode di iter continui, fluidi, vitali, e include il già-trascorso come attuale, a lato del futuro in un ininterrotto esplicarsi. Il passato costituisce dunque un divenuto appartenente in certo modo al presente, perché, anche se l’azione passa, l’agito rimane. Gerd Brand, parafrasando Husserl, scrive:

L’atto in cui io, trascurando questo e quello, ho cercato di attuare questo e qualcos’altro, è passato, ma il risultato di quest’atto rimane un mio risultato, qualunque sia l’atto.

   La poetica di Antonella Santoro è attenta a questa sedimentazione di azioni, sentimenti, moti dell’animo già avvenuti, al “perdurare” di scoperte e disinganni, entusiasmi e amarezze. E se persiste l’eco di parole sussurrate «negli amplessi di ieri» [Tango argentino], più avanti leggiamo:

Accesa di lampioni colorati
una risata a sorprendermi
al lento epilogo
ove - morto il pianto -
la delusione perdura,
nello stupore di un raggio.
[Inaspettatamente]

   Il presente realizza ciò che è, il già-trascorso invece conserva, nell’essere ricordato, l’intervallo di un sé in futuro. Ed ecco l’appello della Santoro:

Tu solo
- l’attuale e il remoto -
in un gorgo inscindibile
[A te]

   Il sensibile di quest’opera si ritrova quindi in una Weltanschauung impegnata a costruire un’immagine dove ogni ripiegamento sul lontano, sul «remoto», avviene in base a un interesse per l’avvenire. Senza di noi, senza il nostro Io, l’asse temporale degli avvenimenti precedenti appare vuoto: e così, le ripetute rimemorazioni della Santoro producono un’identità progressiva in grado di procedere entro percorsi viventi sempre nuovi, mentre l’orizzonte in fieri dovrà restare ignoto perché sempre aperto:

avvolti in un passato ignudo
persi a metà via,
sconosciuta la meta
[“Imagine”]


Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione alla stesura del testo.




Antonella Santoro è nata e vive a Genova. Dopo la laurea in lingue ha insegnato francese nella scuola secondaria. Ha pubblicato le raccolte poetiche Nell’aria come vela (2013), Pensami, ricordami, vedimi (2016), Sensazioni (2017) e il romanzo Azzurro come i suoi occhi (2014), tutti della Libreria Editrice Urso di Avola; inoltre, la silloge Divertissement e la raccolta di prose Incontro al buio e altri racconti (2018), a cura delle Edizioni Vitale di Sanremo. Nelle sue opere appare evidente la predilezione per la Francia: ha tradotto una cinquantina delle sue poesie da Carta d'arance e Aspettando notte, inserite nella raccolta Mélodine, tutte edite nel 2011 a cura dell’autrice. Nell’arco di pochi anni ha conseguito numerosi riconoscimenti in bandi letterari. È stata presente nella giuria di diversi concorsi, ha scritto recensioni, effettuato traduzioni, partecipato a reading poetici.

sabato 8 febbraio 2020




Lauro ZUFFOLINI - “Per Cattolica binario 5” (racconto breve)



Da molto tempo Michele non metteva piede alla stazione ferroviaria di Carpi, dove viveva.
Ritrovò i soliti tre binari, sempre uguali fin dal tempo in cui suo padre lo caricava bambino sulla canna della sua bicicletta e lo portava a vedere il treno che arrivava. Quello con la locomotiva tutta nera che faceva ciuff ciuff e faceva fuoriuscire le nuvolette di fumo bianco che si innalzavano lentamente verso il cielo.
Pensò a quando era capitato lì l'ultima volta e ricordò che fu per accogliere sua figlia Laura nei suoi rientri periodici da Milano, dove studiava all'Accademia della Comunicazione.
Lei non si era bloccata davanti alla prospettiva di andare a vivere da sola, pur di sviluppare la grande passione che aveva per internet e per la grafica. Aveva solo diciannove anni, e l'idea chiara in testa di voler lavorare in quei settori.
Michele portava impressa in sé l'emozione dell'attesa dell'arrivo del treno da cui sarebbe scesa sua figlia, che amava intensamente. Aveva anche il rammarico, che a volte gli cresceva dentro fino a diventare un senso di colpa, di non averle assicurato una famiglia unita, ma spezzata dalla separazione dei suoi genitori. Provò ancora quello stato d'animo misto. Da una parte l'orgoglio per l'autonomia e l'indipendenza che sua figlia dimostrava nel voler affrontare da sola la vita di una metropoli e dall'altra l'apprensione per i pericoli che le potevano incombere a seguito di quella scelta. Soffriva per il disagio della lontananza da lei che la separazione gli aveva lasciato in eredità da quando era uscito per sempre di casa e che lo accompagnava stabilmente, come un basso continuo, nonostante gli sforzi da lui compiuti per esserle vicino in tanti modi e in tante occasioni, nonostante tutto.
In quel sabato d'estate di un week end prossimo a ferragosto c'era poca gente in stazione e non ce ne poteva essere di più. Non si trattava della Gare de Lyon, né della stazione Termini, ma solo di quella di Carpi.
Il treno poi era diventato un mezzo di trasporto desueto. Non dava la libertà d'azione e di orario delle automobili, mezzi alla portata di tutti, né copriva le distanze degli aerei. Gli utenti andavano così cercati tra coloro che dovevano economizzare nelle spese di trasferimento.
Vide due ragazze dalla pelle scurissima che chiedevano informazioni a tre signori anziani seduti su una panchina. Non si capiva bene se quei signori stessero aspettando un treno o fossero lì per passare il tempo in compagnia. L'abbondanza di parole che quei tre, a turno e accavallandosi, usarono nel fornire indicazioni alle giovinette, il tono di voce affettato e la quantità di sorrisi esibita, davano l'impressione che i panchinari cercassero di andare oltre le domande ricevute. Pareva che tentassero di fare i galletti, in realtà molto spennacchiati e bolliti. Ma si sa che l'abitudine di certi uomini all'abbordaggio non dipende dall'età e si perpetua finché c'è il respiro.
Michele non poté osservare più a lungo la scenetta, perché il suo treno si era già presentato al binario 3.
Sua sorella Daniela l'aveva invitato a passare il fine settimana da lei a Cattolica, dove aveva da poco comprato un appartamento, coronando il sogno suo e di suo marito per quanto riguardava le vacanze. Cattolica forever. Seguendo le scelte dei genitori, Michele c'era stato tante volte da ragazzo nel mese di agosto con tutta la famiglia e per sua sorella non esisteva località migliore di quella.
Le carrozze erano semivuote e i passeggeri potevano così collocarsi ben lontani gli uni dagli altri, come lui stesso fece. Le poltrone erano ben più che ordinari sedili, decisamente comode, di un vivace colore blu elettrico e piazzate alla giusta distanza tra loro. Si stupì, gli sembrava di viaggiare in aereo, anche se lui non aveva mai provato cosa fosse la prima classe perché i suoi voli erano stati molto economici. Quella rimaneva comunque la seconda classe di un treno regionale, decisamente migliorata di livello dai tempi della sua giovinezza.
All'arrivo a Modena era previsto un cambio.
Prima dell'ingresso in stazione si sentì una voce nell'etere… abbiamo maturato sei minuti di ritardo, ce ne scusiamo con i viaggiatori...
Il proverbiale vizio italico del ritardo sulle strade ferrate non era quindi stato abbandonato. Vi era così stato aggiunto un tocco di gentilezza e di precisione unitamente alla confessione esplicita dell'errore commesso. Michele si meravigliò anche di quella parola usata, 'maturato', che riteneva più adatta a descrivere frutta che un ritardo nella percorrenza di un convoglio.
Sull'orario esposto al pubblico era indicato il binario 4 per il cambio del treno, ma una voce avvertì che bisognava invece dirigersi al binario 5. Così si assistette a repentini spostamenti di direzione da parte di gente con valigie in mano e borse a tracolla e con la tipica frenesia di chi teme di perdere il treno giusto.
Michele già lo sapeva e rimase calmo. Sua sorella viaggiava spesso su quel treno e lo aveva avvisato di tale variazione.
Ora i posti liberi si erano ridotti di numero e la scelta si era ristretta. Occorreva così valutare dopo un veloce colpo d'occhio anche i vicini per decidere dove sedersi. Michele si sistemò davanti a un signore col doppio mento che stava dormendo. Gli sembrava più vecchio di lui, ma non ne era sicuro. Forse Michele stesso era il più vecchio dei due. Superati da un po' i cinquant'anni, non riusciva più ad attribuire l'età alle persone. I giovani gli sembravano tutti giovanissimi, quasi ragazzini. Gli adulti facevano parte di una massa in cui non ci capiva molto. Poteva sbagliare anche di dieci anni e più. Gli anziani si distinguevano per un qualche segno di visibile decadimento nell'aspetto fisico.
Michele quel pomeriggio aveva voluto viaggiare in treno. Avrebbe potuto usare la macchina, ma intravide in quella scelta l'opportunità di riposarsi di più e di poter riflettere con calma. Voleva cogliere qualcosa, uno spunto, un'idea, un bagliore di luce che lo aiutasse a sbrogliare in parte la matassa aggrovigliata della sua vita.
Era il primo week end che trascorreva da solo, da tanto tempo, senza la presenza della sua compagna Stefania, che si era recata a fare una vacanza in Tunisia con sua figlia.
Con Stefania viveva da alcuni anni una sorta di convivenza part- time, limitata ai fine settimana, alle feste comandate e poco più. Quella condizione andava bene a lei, ma non a lui. E gli era piaciuto poco che avesse preferito passare una vacanza con la figlia senza di lui, dietro richiesta della ragazza stessa, appena adolescente. Stefania non gliene aveva parlato abbastanza e gli sembrò di dover accettare senza discussione quella cosa. Cioè di subire. Per lui era un indizio serio dello scarso amore di Stefania nei suoi confronti. Questo ci poteva anche stare, alla fine. I sentimenti non si impongono, né a se stessi né agli altri. Ma era necessario capire che tipo di sentimenti provasse la persona che lui amava, per non dover accorgersi troppo tardi di aver imboccato una strada che non portava da nessuna parte. Quanto meno non dove lui desiderava arrivare. E lui voleva unire la sua vita a quella di una donna, o almeno a riprovarci, dopo il fallimento del suo matrimonio. Era innamorato della dolcezza di lei, ma sentiva che c'era ancora un po' di distanza tra loro, che lei non colmava affatto, anzi sembrava voler mantenere. Questo gli occupava la mente, in viaggio per Cattolica. E mentre era in attesa di una illuminazione interiore vide il treno giungere alla stazione di Bologna.
Qui salì il resto del mondo.
Ma Bologna era Bologna, una bella città, popolosa ma non troppo. Gente simpatica, ironica, piena di buon senso e sorprendentemente saggia. Qui i ricordi aggredirono Michele con più veemenza.
Erano gli anni dell'università e riaffiorò un altro rimpianto. Dopo il primo anno da matricola, quando frequentava le lezioni ogni giorno e faceva avanti e indietro sui treni da Carpi e per Carpi, Michele smise di presentarsi nelle aule se non per gli esami.
Scelse di lavorare per pagarsi gli studi, perché suo padre disapprovò la sua decisione di studiare pedagogia. Voleva che diventasse, medico, ingegnere o bancario, insomma che perseguisse una professione che gli procurasse denaro e prestigio. Cos'era la pedagogia?  Gli chiedeva con feroce sarcasmo suo padre. Di sicuro una cosa che dava poco da mangiare, secondo il suo genitore.
Per amor proprio, Michele si fece assumere come insegnante di musica comunale e rifiutò quell'aiuto economico che suo padre non gli aveva comunque mai negato né messo in discussione. Per amor proprio o per orgoglio, ma soprattutto per coerenza sembrò a Michele di dover compiere quel gesto. Ognuno doveva pagare per le scelte che faceva. Così era fatto lui.
Più avanti nella vita si chiese alcune volte cosa sarebbe stato di lui se fosse andato avanti per la strada che preferiva, quella che portava all'insegnamento, partecipando assiduamente alla vita universitaria senza deragliamenti.
La laurea che conseguì alla prima sessione di esami, senza aver perso un solo giorno utile, non gli bastò per imboccare quella via. Fu un giorno più di mestizia che di gioia, quando salì sulla vecchia Fiat 1100 di famiglia e tutto solo si avviò verso Bologna per discutere la tesi, ottenendo anche il massimo dei voti.  Il conflitto col padre si accentuò in seguito, lo spinse a uscire di casa presto per sposarsi troppo giovane e a cercare per necessità il lavoro dove c'era. Ed entrò nel settore dell'abbigliamento, quello che a Carpi forniva più opportunità di lavoro, che poteva essere per molti un piacere e un interesse, ma per lui niente più che una forma di esilio dal mondo della scuola che avrebbe voluto frequentare. Esiliato, appunto. Così si sentiva nei panni di un piccolo imprenditore. E la sua piccola azienda non andava affatto bene negli ultimi tempi.
A quel punto sul treno i posti vennero tutti occupati.
E iniziò una specie di festival delle suonerie dei telefonini. Musichette di ogni tipo, dal rock all'hawaiano, al melodico strappacuore classico o napoletano, al motivetto per bambini, dalla mazurka da sagra paesana al cool jazz. A suo insindacabile giudizio vinse la sua, di suoneria. Grazie a una chiamata da parte di sua sorella, tutti, o almeno chi era stata attento, poterono ascoltare l'imperioso inizio della quinta sinfonia di Beethoven.
“Tutto bene?”.
“Sì, tutto a posto… non so l'orario preciso in cui arriverò… perché dipenderà dal ritardo... maturato”.
“Bene... ti aspettiamo”.
Daniela era adorabile e disponibile, tranne in quei momenti in cui il loro rapporto subiva degli improvvisi black out per incomprensioni reciproche. Suo marito era molto simile a lei. A quel tempo tutto filava liscio tra loro fratelli e lei era orgogliosa di mostrargli quell'appartamento tanto anelato.
Si guardò intorno.
Lo spettacolo agli occhi di Michele parve davvero singolare. Quasi tutti i viaggiatori stavano parlando, con partecipazione, con intensità, gesticolando ed emozionandosi, ma non con i propri vicini di posto, bensì con i lontani, tramite il cellulare.
Come in quadro di pura follìa, popolato da marionette, ognuno si atteggiava e rivolgeva parole a una tavoletta sonora e colorata che teneva in mano, ignorando del tutto chi gli stava accanto o di fronte.
Michele cercava di buttare acqua sul fuoco riattizzato dai suoi ricordi.
Vide un controllore zelante che al limite dell'impertinenza scosse due volte il braccio di una bella ragazza bionda che si era addormentata, per chiederle il biglietto. Non era neanche facile assopirsi in quel contesto concitato e rumoroso di conversazioni mediatiche. Michele pensò che lui l'avrebbe osservata e attesa per qualche attimo e poi se ne sarebbe andato lasciandola riposare.
Intanto vide che fuori dai finestrini pioveva, anzi scrosciava. Non male per chi si recava in luoghi di vacanza a cercare amplessi col sole cocente.
Da uno scompartimento vicino arrivò una ragazza con i capelli rosa. Mancava giusto una così, con in testa una tinta artificiale, perché le diverse etnìe erano già tutte presenti con la varietà dei colori di pelle e di pelo inventata dalla natura. Dal punto di vista cromatico i passeggeri del treno erano pressoché al completo.
Michele girò gli occhi verso la ragazza seduta alla sua destra. Stava leggendo con molta concentrazione un testo di economia in lingua inglese, ma era italiana, da come parlava al cellulare. La ammirò, lui che l'economia la capiva poco già nella sua lingua natìa e ancor meno gli piaceva.
Tre file di sedili più avanti, da un posto di fronte al suo, un uomo mezzo calvo col pizzetto lo stava guardando per la sesta o settima volta. Gli occhi si incrociano casualmente in certi ambienti in cui si è costretti a stare, ma Michele si scocciò di quel guardone.
Il treno procedeva a velocità elevata e lui si sentiva rilassato, quasi cullato dai ritmici movimenti di quella macchina. L'unico inconveniente era rappresentato dalla difficoltà di scrivere. Era solito annotarsi pensieri e riflessioni su dei fogli bianchi che portava sempre con sé, come in una sorta di diario dell'anima, ma in quella circostanza gli uscivano dalla biro solamente dei caratteri tondeggianti e arzigogolati, simili all'alfabeto urdu dei pakistani.
Stazione di Forlì.
Ad ogni fermata il conduttore dichiarava i minuti di ritardo, che risultavano in costante aumento, e ciò stava diventando una stucchevole litanìa. Sarebbe stato meglio che cercasse di rimediare al ritardo invece di informare puntigliosamente i viaggiatori, suscitando commenti tutt'altro che benevoli.
Un flash mentale lo riportò ai tempi dell'università, quando sul treno che lo portava a Bologna si chiedeva, nell'incapacità di prevedere il suo futuro, a quali stazioni della vita sarebbe sceso, facendo varie ipotesi del suo lavoro. Invece cominciò a pensare, quel sabato, quanto mancasse al capolinea.
Stazione di Cesena.
Michele poté finalmente allungare le gambe e allargare le braccia, nel massimo della comodità possibile, perché molti dei suoi compagni occasionali di viaggio erano scesi.
Chissà chi erano e che vita conducevano. Pensò che nella vita si percorre solo un tratto di strada insieme agli altri, più o meno lungo che sia. E quando non ci sono più un progetto che accomuna o una necessità che lega si assiste alla scomparsa indifferente o dolorosa degli altri. Oppure siamo noi stessi a scendere a una stazione precisa, abbandonando il viaggio comune fino ad allora, causando dolore o indifferenza. Il problema principale consiste nell'individuare bene i vari momenti, capire cosa c'è che unisce le persone, né illudersi né illudere. Nel caso si tratti di una coppia ci vorrebbe la lucidità di comprendere se la situazione è veramente condivisa o se uno dei due si sta caricando un cadavere sulle proprie spalle.
Molti viaggiatori stavano ascoltando musica dagli auricolari. Chissà se era musica buona, pensò Michele, e se avevano le orecchie pulite...
C'era un ragazzo che portava scritto sulla sua maglietta gialla 'violence and aggression', ma aveva occhi miti e mansueti e un fare flemmatico. Che si trattasse di un caso di personalità dissociata? O multipla?
Faceva anche pensare a Michele che i violenti, al di là delle apparenze, sono accanto a noi, sono come noi e potremmo diventarlo anche noi stessi. Michele era un pacifico, tutt'altro che impulsivo. Ma anche a lui erano venuti certi attacchi di rabbia.
Aveva ancora scolpita davanti agli occhi l'immagine di quel direttore di banca, basso di statura, che il mese prima con tono di voce indifferente e cantilenante gli aveva bruscamente tolto di mano quell'ombrello che gli aveva generosamente offerto quando gli affari gli andavano bene. Rientrato a casa, Michele tirò un pugno contro il muro. Solo in quel giorno dovette controllare impulsi aggressivi, che mai aveva provato per alcuno, verso quell'individuo che gli ripeteva ossessivamente 'non ho facoltà di comportarmi diversamente', mentre Michele gli squadernava umiliandosi tutti i motivi della stretta economica in cui si ritrovava, il suo passato e presente di persona affidabile e responsabile, e sull'orlo della disperazione gli spiegava le sue proposte per risollevarsi dallo sforamento del fido bancario. Inutilmente. In conclusione se la prese con se stesso e per puro caso non si fratturò una mano.
Quel giovane sul treno probabilmente tentava di esprimere con ironia un dato caratteriale o una metodologia di vita che gli erano estranei e che condannava. Forse.
Il sole finalmente riuscì a bucare le nuvole.
Così le prospettive cambiavano.
Ma si era ormai al tramonto.
Come poteva vivere, Michele, quei giorni e quella stagione della sua vita?
I saggi avrebbero sentenziato che occorreva scorgere nella avversità il manifestarsi di opportunità sempre nuove. Ma Michele non si sentiva saggio e a volte pensava che i saggi non avrebbero immaginato in quali e quanti casini si trovasse Michele stesso.

Inviò un sms a sua sorella, informandola che stava per arrivare.
Di illuminazioni proprio non ne ebbe o forse non se ne accorse.
E per poco non scese per sbaglio alla stazione di Misano, quella prima di Cattolica.
Aveva già i piedi sul predellino.


Lauro Zuffolini, 66 anni, è nato e vive a Carpi (MO), dove lavora come educatore di ragazzi disabili nelle scuole superiori. È laureato in pedagogia e diplomato in pianoforte. Scrive assiduamente da circa vent'anni, ma solo da un decennio pubblica i suoi componimenti. Nel 2019 è risultato primo classificato in due concorsi: a Novara a “La canonica arte” per la prosa, a Roma a “Mangiaparole“ per la raccolta Poesie così (di prossima pubblicazione presso le edizioni Progetto Cultura). Sempre a Roma, gli è stato assegnato nell’ottobre 2019 il Premio della Critica al concorso nazionale “I colori delle parole”, ottenendo poi vari riconoscimenti a Massa, S. Benedetto del Tronto, Melegnano, Zola Predosa, Viareggio, Monza e Carpi. Per l’editore Montedit ha pubblicato tre raccolte di poesie, Quello che sono capace di dire, Terremoti fuori e dentro e Vele stracciate, nonché il romanzo Maistefureb dieci volte.



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Commento di Cinzia Baldazzi

Nella vita, quale significato possiede il pensiero, o meglio la riflessione in sé? Valutando cosa siamo, cosa accade intorno, potremmo migliorare la qualità dell’esistenza personale o altrui? Il racconto Per Cattolica binario 5 di Lauro Zuffolini, nell’ordine di un macrocosmo della letteratura, mostra quanto porsi un quesito del genere, oltre ad essere già esempio in atto di una simile forma del ponderare e rivedere l’insieme, coincida con la prova di come tale genere di ragionamento sia insito nell’indole umana, reso esplicito o meno.
Poco meno di duecento chilometri, quasi due ore di viaggio: nell’itinerario del treno in partenza da Carpi e diretto a Cattolica, l’Io narrante si identifica, appunto, con la prospettiva di un point of view non per illuminare l’hic et nunc causale dell’intera vicenda descrivendola in linea tradizionale. Infatti, acquista rilievo progressivamente sempre più importante il ruolo della sorte, il peso dei “se”, tipici di un meditare in chiave di giudizio riflettente sulla traccia del criticismo kantiano:

Michele quel pomeriggio aveva voluto viaggiare in treno. Avrebbe potuto usare la macchina, ma intravide in quella scelta l’opportunità di riposarsi di più e di poter riflettere con calma. Voleva cogliere qualcosa, uno spunto, un’idea, un bagliore di luce che lo aiutasse a sbrogliare in parte la matassa aggrovigliata della sua vita.

L’accordo tra il referente dell’ambito primario naturale e lo spazio della libertà viene rintracciato da Immanuel Kant nell’intervallo intimo equivalente al giudizio riflettente. Dobbiamo però partire dall’altra grande tipologia, ovvero il giudizio determinante (o sintetico a priori), il cui regno è la Critica della ragion pura: l’individuo, per conoscere, si appella alle categorie dell’intelletto, la molteplicità dei fenomeni viene interpretata in base a un concetto già dato.
Nella Critica del giudizio estetico, dedicato al “bello” e al ”sublime”, la funzione riflettente indica invece che l’Io soggettivo “riflette”,  al pari di uno specchio, il reale interiore su quello esterno. Si parte da un singolo fenomeno, dal “particolare”, per ricondurlo a un concetto, a una regola, a un “universale”, sulla base della riflessione.
Nella Teoretica kantiana, “conoscere” corrisponde ad associare un oggetto a un altro: un predicato a un soggetto, oppure a con b. Nella short story di Zuffolini, a riguardo:

Le poltrone erano ben più che ordinari sedili […] gli sembrava di viaggiare in aereo […] Quella rimaneva comunque la seconda classe di un treno regionale, decisamente migliorata di livello dai tempi della sua giovinezza.

Nell’Estetica, invece, la conoscenza implica la connessione di a con s, ovvero con noi stessi: il soggetto è pienamente coinvolto nel giudizio da lui attribuito. Nel giudizio estetico, l’individuo appare libero nel formulare i nessi associativi e può tendere alla dimensione dell’assoluto, al contrario preclusa alla pura ragione consequenziale.
Ad esempio, nei pensieri di Michele prende corpo una riflessione sui compagni occasionali di viaggio:

Chissà chi erano e che vita conducevano. Pensò che nella vita si percorre solo un tratto di strada insieme agli altri, più o meno lungo che sia. E quando non ci sono più un progetto che accomuna o una necessità che lega si assiste alla scomparsa indifferente o dolorosa degli altri. Oppure siamo noi stessi a scendere a una stazione precisa, abbandonando il viaggio comune fino ad allora, causando dolore o indifferenza. Il problema principale consiste nell’individuare bene i vari momenti, capire cosa c’è che unisce le persone, né illudersi né illudere. Nel caso si tratta di una coppia ci vorrebbe la lucidità di comprendere se la situazione è veramente condivisa o se uno dei due si sta caricando un cadavere sulle proprie spalle.

Il “giudizio riflettente”, quindi, non svolge un ruolo direttamente conoscitivo, ma si caratterizza soprattutto per il libero gioco delle facoltà (giudizio, intelletto e ragione), consentendo di gettare un ponte tra l’universo naturale (necessario) e lo spazio-tempo della libertà. L’auspicio è nel cercare di rispondere personalmente alla domanda: qual è l’obiettivo della natura? che senso esprime il mondo intorno a noi?
L’atteggiamento kantiano del viaggiatore di Zuffolini ha questa caratteristica: osservare, scrutare e selezionare diventano azioni e strumenti idonei a comprendere la propria natura di uomo, spirituale e comportamentale, in rapporto agli altri e al mondo circostante.
Tra le pagine della short story emerge, attraverso un raffinato complesso di segni-segnali, un orizzonte di discorso in cui la comunicazione (orale, scritta) non è articolata in veste di semplice input informativo: rappresenta piuttosto un’autentica, preziosa azione esercitata dal singolo - a volte mittente, a volte destinatario - sugli altri.
Scaturisce, così, un concetto di scambio, responsabile di analoghe aree semantico-semiotiche proiettate in un’aura di pace acquisita, di lotte, speculazioni, notizie ottenute, riconoscimenti; il successo comunicativo evocato dall’autore nel lettore sussiste non tanto nel contenuto di dati ricevuti, quanto nel recepire questa serie di messaggi privati o collettivi, parziali o forse totali, all’interno della parola, non solo detta, ma alla quale il contesto assegna il merito di poter essere creduta. Ed ecco, apprendiamo:

C’era un ragazzo che portava scritto sulla sua maglietta gialla ‘violence and aggression’, ma aveva occhi miti e mansueti e un fare flemmatico.

E ancor prima:

Da uno scompartimento vicino arrivò una ragazza con i capelli rosa. Mancava giusto una così, con in testa una tinta artificiale, perché le diverse etnìe erano già tutte presenti con la varietà dei colori di pelle e di pelo inventata dalla natura. Dal punto di vista cromatico i passeggeri del treno erano pressoché al completo.

Ma tale ordine di pensiero, di riflessione - pare suggerire Lauro Zuffolini - siamo certi che si allinei, comunque, al profilo narrativo dei testi? Infatti, sorge il dubbio:

Il treno procedeva a velocità elevata e lui si sentiva rilassato, quasi cullato dai ritmici movimenti di quella macchina. L’unico inconveniente era rappresentato dalla difficoltà di scrivere. Era solito annotarsi pensieri e riflessioni su dei fogli bianchi che portava sempre con sé, come in una sorta di diario dell’anima, ma in quella circostanza gli uscivano dalla biro solamente dei caratteri tondeggianti e arzigogolati, simili all’alfabeto urdu dei pakistani.

La domanda oltrepassa il particolare e rinvia direttamente al generale: è vero o falso ciò a cui assistiamo percorrendo il fil rouge di una narrazione? Il semiologo lituano Algirdas J. Greimas, nell’introduzione all’opera Del Senso 2, rileva come al concetto fondamentale di verità del narrato si vada sostituendo e affermando sempre più quello di efficacia, traslando dall’essere delle cose al loro farsi. Un passo del ragionamento di Michele testimonia questa inversione di rotta:

Un flash mentale lo riportò ai tempi dell’università, quando sul treno che lo portava a Bologna si chiedeva, nell’incapacità di prevedere il suo futuro, a quali stazioni della vita sarebbe sceso, facendo varie ipotesi del suo lavoro. Invece cominciò a pensare, quel sabato, quanto mancasse al capolinea.

Un ulteriore strumento cognitivo utile a decifrare la narratività del testo di Zuffolini è la semiotica di Charles Sanders Peirce: come spiega il traduttore e curatore Massimo A. Bonfantini, essa è basata sul «primato attribuito alla realtà esterna rispetto al soggetto umano nel processo della conoscenza». Dunque, l’oggetto è il primo motore del meccanismo conoscitivo (semiosi), nel senso che determina il segno e anche colui che lo interpreta.  E quando Peirce parla di «cooperazione di tre soggetti», Bonfantini commenta: «Nella catena oggetto-segno-interpretante, il passaggio dall’uno all’altro non è meccanicamente determinato, ma avviene in virtù di una mediazione creativa».
Nell’articolazione del racconto Per Cattolica binario 5, un simile “valore aggiunto”, il fulcro in grado di spostare i gradi del sapere quotidiano è la voce esplicita in campo dell’autore, capace di mediare tra l’interpretante (Michele) e l’oggetto del narrato (il contesto). Il procedimento incrementa un continuo, avvincente progress:

Il sole finalmente riuscì a bucare le nuvole.
Così le prospettive cambiavano.
Ma si era ormai al tramonto.
Come poteva vivere, Michele, quei giorni e quella stagione della sua vita?
I saggi avrebbero sentenziato che occorreva scorgere nella avversità il manifestarsi di opportunità sempre nuove. Ma Michele non si sentiva saggio e a volte pensava che i saggi non avrebbero immaginato in quali e quanti casini si trovasse Michele stesso.

Il caos evocato affiora voluto e cosciente, e tuttavia il plot risulta cadenzato dalle fermate del tragitto ferroviario (Modena, Bologna, Forlì, Cesena, Misano), come fossero clausole di un contratto che, avendo intrapreso il viaggio, siamo costretti ad accettare, quasi trapelasse un’illusione convenzionale, un indizio di traccia provvisoria prima o poi destinata a svelare il mancato atto cognitivo finale:

Di illuminazioni proprio non ne ebbe o forse non se ne accorse.
E per poco non scese per sbaglio alla stazione di Misano, quella prima di Cattolica.
Aveva già i piedi sul predellino.