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lunedì 13 dicembre 2021

 

 Cinzia BALDAZZI – “L’Universo in rivolta”: invito alla lettura

 

L’Universo in rivolta

una storia di Alessandra Montali

illustrazioni di Manuela Testaferri

Fermo, edizioni Zefiro, 2021, pp. 32, € 12,00 

 


Nella nostra epoca, in cui l’arte di raccontare storie è stata dimenticata e rimpiazzata dalla sociologia amatoriale e dalla psicologia d’accatto, il bambino è ancora un lettore indipendente che non si fida di altro che non sia il suo gusto. Nomi e autorità non significano niente per lui. Quando la letteratura per adulti sarà andata in rovina, per molto tempo ancora i libri per bambini costituiranno le ultime vestigia dell’arte di raccontare storie, del senso logico, della fede nella famiglia, in Dio e nel vero umanesimo.

Isaac B. Singer, I bambini sono i migliori critici letterari? 

 

   Nelle ultime due tavole della micro-story L’Universo in rivolta di Alessandra Montali, illustrato da Manuela Testaferri, in un magico, suggestivo accordo di colori, il Sole campeggia rosso-arancio sul paesaggio urbano, la Luna rifulge bianca-blu tra le stelle. La coppia di astri è tratteggiata conferendo a ciascuno le dimensioni dell’altro. Ora, nella realtà fisica hanno misure alquanto differenti, nonostante all’osservatore terrestre appaiano sorprendentemente della medesima estensione. Ciò è particolarmente chiaro durante la giornata quando il cielo è appena coperto, al tramonto o di notte al plenilunio. Il fanciullo, al contrario dell’adulto, non si chiede come sia possibile.

   Il diametro della Luna è 1/400 di quello del Sole, ma anche la sua distanza dalla Terra è di 1/400 rispetto a quella del Sole. L’affascinante concomitanza è in grado di spiegare l’illusione dell’uguale grandezza dei corpi celesti: il satellite ispiratore di tanta poesia risulta, nel reale, quattrocento volte più piccolo, ma anche quattrocento volte più vicino a noi (tale caratteristica gli permette di essere protagonista delle eclissi solari). 


   Nella fiaba della Montali, l’interagire di Sole e Luna (sfiorarsi, conoscersi, parlare) è quindi reso attuale da un’impressione quotidiana universalmente sperimentata alla cui base però rintracciamo una precisa relazione geometrica. Analoga suppongo sia la natura delle annotazioni astronomiche e geologiche premesse da Italo Calvino ai racconti compresi nelle Cosmicomiche: fissato il dato scientifico, la scrittura procede sino alle estreme conseguenze creative, nondimeno avendo a fondamento un dato obbiettivo inoppugnabile.

   La short tale della nostra Alessandra è connesso con l’arco referenziale dell’astronomia, dell’astrologia, nonché della cultura collettiva e delle antiche leggende. Il bambino-lettore ritroverà nel nucleo della trama-intreccio, nelle figure, il rapporto profondo esistente tra i due luminari, gli stessi che nell’individuo primitivo suscitavano emotività, magari alcune riflessioni, a lato di paure di matrice empirica. La psicologia popolare attribuiva a λιος (Èlios) il ruolo attivo, maschile, lo Yang, a Σελήνη (Selène) quella ricettiva, femminile, lo Yin. Con l’avvento della psicoanalisi, una simile lettura venne corretta per consentire un paio di distinte incarnazioni: la zona solare cosciente, razionale, illuminata, a fronte degli abissi lunari dell’inconscio colmi di mistero ma anche di empatia, sensibilità, sogno, fantasia.

   Sia nella parola poetica sia nei disegni emergono indizi semantici di terminologie folkloriche, come la Luna impegnata a cambiarsi “d’abito” passando da una fase all’altra. E non poteva mancare, con lo scopo di offrire un assunto narrativo propedeutico, il progetto soprannaturale del terzo giorno, quando Dio disse: «Vi siano i luminari nel firmamento del cielo per separare il giorno dalla notte e per far luce sulla terra».

   «La fiaba è un residuo», scriveva Walter Benjamin nel 1924, «forse il più potente che si trovi nella storia spirituale dell’umanità: un prodotto di scarto nel processo della nascita e della decadenza della leggenda». All’insigne critico, proprietario di una nutritissima biblioteca di testi per l’infanzia, stava molto a cuore il nesso centrale delle immagini: 

C’è una cosa che salva persino le opere più antiquate, meno libere dal pregiudizio di quest’epoca: l’illustrazione. Quest’ultima sfuggiva al controllo delle teorie filantropiche, e gli artisti e i bambini si sono messi presto d’accordo alle spalle dei pedagogisti. 

   Nell’apparato iconografico approntato dalla Testaferri per la story di Alessandra Montali sembra trapelare il pensiero dello studioso berlinese, così come le affermazioni del contemporaneo Davide Brullo, secondo il quale «le illustrazioni salvano i libri “per bambini” dall’ossessione pedagogica e dai santi intenti di edificare buoni cittadini in batteria scolastica».

  Ed è con due emblemi, saldi in un perfetto costrutto di forma-contenuto, che si apre L’Universo in rivolta: La Luna trasmette malinconia, sofferente per il silenzio e la solitudine dell’oscurità, il Sole accusa stanchezza a causa del frastuono e del traffico diurno. 


   Con il supporto delle stelle, la maestosa coppia di astri si incontra per correggere la rotta della propria routine cosmica. La Luna prende le vesti del Sole, e viceversa: 

In un batter d’occhio il Sole e la Luna sgusciarono fuori dai loro abiti e s’infilarono l’uno nella veste dell’altro. Il Sole entrò nella fresca tunica argentea della Luna e lei, a sua volta, si sentì subito a suo agio nella calda veste dorata del Sole. 

   La «fresca tunica argentea» e la «calda veste dorata» suscitano l’impressione di enfatizzare una fisionomia commutabile, intercambiabile nelle figure celesti, come se i rispettivi spazi operativi derivassero dall’abbigliamento: ardente l’emanazione solare, freddo il chiarore lunare. Quasi i protagonisti fossero titolari di “mestieri” che, dipendendo nell’hic et nunc favolistico da una sorta di oggetto magico (l’abito), possano diventare elemento di mutua sostituzione a patto di invertire gli “strumenti di lavoro”.

   Ciò è vero nella misura in cui lo scambio investe l’aspetto esteriore: dalla mattina alla sera la Luna riceve, in dono, i luminosissimi raggi solari, mentre il Sole gode dell’eredità di un candore lunare che continua a risaltare nel buio.

   A questo punto il mondo naturale sembrerebbe non debba risentirne. In realtà, gli episodi successivi mostrano come il gioco logico della Montali sia piuttosto sottile: la comparsa di una permuta esteriore determina al contrario un avvicendamento sostanziale. Il capovolgimento delle prerogative, l’inversione degli “strumenti di lavoro”, l’appropriarsi dell’area reciproca, scatenano contraccolpi ingenti e inattesi. Del resto, ripeteva Gianni Rodari: 

La fiaba è il luogo di tutte le ipotesi: essa ci può dare delle chiavi per entrare nella realtà per strade nuove, può aiutare il bambino a conoscere il mondo. 

     Ecco, innanzitutto, lo spiazzamento meteorologico: 

La notte era sempre più calda ed il giorno sempre più fresco. Nessuno ci capiva più niente! 

   Gli astri, camuffati l’uno con l’altro, non possono rinunciare alla loro profonda natura, a essere quello che sono. La Luna, ovvero “il nuovo Sole”, non riesce a scaldare il giorno, condannato a rimanere rigido; il Sole, cioè “la nuova Luna”, innalza a dismisura la temperatura di notte.

   Pur trasferito nella quiete delle tenebre tanto desiderata, il Sole conduce con sé l’indole infuocata spargendo un calore innaturale, mentre la Luna, malgrado sia collocata in un’atmosfera vivace e animata, lascia al gelo le creature, dall’aurora al crepuscolo. Gli umani trascorrono una primavera con i vestiti pesanti, gli uccelletti sudano negli abituali voli notturni.                                            


   Siamo così all’istanza centrale de L’Universo in rivolta, la cui trattazione potrà essere introdotta e rischiarata da un ulteriore monito del critico tedesco: 

Il bambino può disporre della materia della fiaba nello stesso modo sovrano e naturale in cui dispone dei pezzi di stoffa e delle pietre da costruzione. 

   Nella morfologia classica della favola, come l’ha elaborata il russo Vladimir Jakovlevič Propp nel 1928, ogni eroe, eroina, aiutante, antagonista (buoni o malvagi) assolve un compito. La griglia logico-intuitiva da lui sviluppata prevede una tipologia più o meno stabile: ciascun μθος (miùthos) possiede a fondamento una struttura monotipica, basata sul procedere regolato di funzioni. Queste ultime si definiscono “gesti” o “imprese” compiuti dai personaggi con puntuali ripercussioni sulle tappe successive del plot.

   Circa mezzo secolo dopo, lo schema formalista proppiano è stato considerato riferimento di un repertorio - destinato a giovanissimi - che cercava di ribaltarne l’assunto globale. In Italia, esemplari sono in tal senso Variazioni sopra una nota sola di Raffaele La Capria e Pinocchio con gli stivali di Luigi Malerba, entrambi pubblicati nel 1977.

   Nell’opera di La Capria, una nota, insoddisfatta dello spartito in cui agisce («Mi dispiace, ma Danubio Blu non è di mio gusto»), diserta il posto usuale: procura stonature e disastri entrando nell’acuto di un soprano al teatro dell’opera, salta sulle corde di un violino durante un concerto di Mozart in diretta televisiva, sta per scatenare una guerra infilandosi nel trombone di una parata militare in onore di un capo straniero. Nella protesta della bambina protagonista, piccola allieva di pianoforte, si legge una condanna dello sperimentalismo musicale fine a se stesso.

   Malerba si esercita invece nel vasto panorama delle fabulae famose, con l’atto di assegnare ad alcuni main characters la volontà di sparigliare le coppie, sconvolgere i moduli, di giocare, vale a dire, con i «pezzi di stoffa» e le «pietre da costruzione» suggerite da Benjamin.

   Pinocchio, scappato dal capitolo 36 delle proprie peripezie, abbandonato Geppetto in mare aperto, affronta prima Cenerentola e il principe, poi Cappuccetto Rosso e il Lupo, avanzando a tutti la proposta di scambiare i relativi incarichi: il tentativo di seminare disordine nelle fiabe altrui fallisce miseramente. Le singole figure, chiarisce il Lupo, adempiono a una “missione” precisa e di conseguenza non è possibile alterarla: «Tu sei venuto qua a fare della confusione e niente altro. La nostra favola va avanti benissimo da secoli così com'è!». Poi Cappuccetto, con il tono di una noiosa maestrina, rifiuta di correggere il proprio tragitto: 

Cappuccetto Rosso spiegò a Pinocchio che poteva arrivare con qualche minuto di ritardo, questo sì, ma che per forza doveva incontrare il Lupo e per forza doveva andare dalla Nonna perché così stava scritto nella favola. 

 


   Ne L’Universo in rivolta l’estro creativo consiste in tutto ciò che prima non c’era e che si pensava fosse irrealizzabile («quando inventano storie, i bambini sono registi che non si lasciano tarpare le ali dal senso», avvertiva sempre Walter Benjamin). Altrettanto giusta (prendendo a prestito le parole della studiosa Cristina La Bella) l’idea di una letteratura in forma di gigantesco, spassoso balocco da aprire e ricomporre a piacimento; sacrosanto, infine, il ricorso al pre-razionale, alla fantasia sfrenata, alla messa in discussione delle sicurezze date.

   Un simile status torna utile a legittimare le trasgressioni narratologiche diffuse negli anni ’70: per Luigi Malerba, sostiene Cristina La Bella, «la rottura dell’ordine è l’opportunità per costruire qualcosa di nuovo», e lo scrittore «fa in modo che sia il lettore a dubitare e a mettere in crisi le proprie certezze». Un settore editoriale altamente ideologizzato, peraltro sorretto dal mercato, insisteva all’epoca sulla deriva “rivoluzionaria” di autori anche importanti. Prosegue La Bella: 

Scompaginare la tradizione è il mestiere di Malerba, che al pari di Gianni Rodari, Tommaso Landolfi, Italo Calvino e Cesare Zavattini, rispolvera la favola d’autore, adattandola alla realtà contingente, rivitalizzando gli antichi loci comuni, reinventando, dove necessario, il linguaggio stesso. 

   Malerba conclude: «Se tutti rispettassero la tradizione il mondo non farebbe mai un passo avanti!». Eppure, riconduce di peso Pinocchio al capitolo da cui era fuggito, lasciando la trovata originaria alla difficile fase della ricostruzione: «Ci vollero degli anni per rimettere in ordine la favola del Gatto con gli stivali». La semplice volontà di ribellione alle regole in uso, alla quale comunque si rende l’onore delle armi, nulla può contro il canone secolare o millenario che impone il ristabilimento della norma.

   Ne L’Universo in rivolta, Alessandra Montali e Manuela Testaferri muovono il racconto lungo binari analoghi. Di comune accordo, dopo aver scardinato l’assetto cosmologico, spostato qua e là pianeti e satelliti, costretto il vento e le nuvole a fungere da gregari agli astri maggiori, restaurano lo stato antecedente. Ed ecco, dunque, delinearsi la sfumatura specifica, il dato inedito del messaggio: non si tratta di un obbligato e rigoroso ritorno al cliché costituito, bensì di una sovversione vissuta e sperimentata nel concreto, poi trascurata, direi “scartata”, per motivi ulteriori al mancato “funzionamento” del nuovo ordine.  

   Nell’epilogo, infatti, subentra la delusione e il conseguente ripensamento. Il mitico Sole si ingegna invano nel conversare con le stelle («le quali però, per il caldo torrido che c’era, se ne stavano ben lontane») e la pensierosa Luna avverte lo stress del ritmo diurno («Tutti lo chiamavano e lo cercavano»), poiché subisce il curioso contrappasso di non riuscire a dormire per il frastuono, rovesciando su di lei la credenza popolare per cui il plenilunio ostacola il sonno della gente.

 


   Sotto le apparenze, i soggetti in campo rimangono gli stessi. Nell’apologo della Montali l’enunciato provoca la crisi d’identità dei personaggi, infine decisi a ripristinare l’integrità dei rispettivi ruoli nel sistema del cosmo: 

I due si guardarono lungamente e si abbracciarono. Poi uscirono dagli abiti che avevano addosso per riprendersi i propri: la calda veste dorata per il Sole e la fresca tunica argentea per la Luna. 

   Se la conclusione inscrive L’Universo in rivolta nel repertorio migliore della favola con i suoi meccanismi di segni-segnali, la inquadra anche in un moto dell’animo profondo, in una serie di considerazioni legate al pragmatismo personale, alla propensione ad agire in un certo modo, all’impegno a far bene: in una parola, alla volontà.

   Tramite la parabola della Luna e del Sole, ritratti in taglio antropomorfico per un pubblico di giovanissimi destinatari, le autrici invitano a non distogliere lo sguardo dagli autentici obiettivi dell’esistenza: 

Ognuno aveva imparato a conoscere un po’ dell’altro, ma aveva anche capito quanto fosse importante essere quel che si è. 

   Nella contro-fiaba di Raffaele La Capria, la bimba rimprovera la nota musicale sovvertitrice dell’armonia e degli accordi: 

Dice il mio babbo che ognuno per tutta la vita non può che ripetere una nota, la sua, quella che lo distingue da tutti gli altri. 

E di fronte alla diffidenza della minuscola interlocutrice, prosegue: 

-          - Vuol dire che non si può fare come te che salti di qua e salti di là.

-          - E perché no?

-          - Perché… Perché devi volere una cosa sola!

-         -  Quale cosa?

-         - Quella per cui siamo indispensabili!

 

   Nel 1846, Søren Kierkegaard precisava che «si può aver riconosciuto una cosa molte volte, si può averla tentata», ma avvisava: «Non sfibrare il tuo spirito con desideri a metà e pensieri a metà!». E concludeva: «Chi riesce a scegliere, a performare la propria volontà nella direzione della purezza, “vuole una cosa sola”, ossia “vuole il bene”».

   Anche per i simpatici protagonisti de L’Universo in rivolta, la purezza del cuore risiede nel lottare e nel decidere di volere una cosa sola.

 


LE AUTRICI

Alessandra e Manuela sono due amiche che si sono incontrate quasi per caso un giorno di primavera di alcuni anni fa. A legarle sono state la passione per la creatività e le storie belle per i ragazzi.

Alessandra scrive prendendo spunto anche dai suoi alunni e Manuela dipinge le righe, trasformandole in capolavori a colori.

Il loro motto? Insieme si vola!

 

 

Alessandra Montali vive a Chiaravalle (An) con un barboncino e due gatte. Docente di scuola primaria, è da sempre appassionata di lettura e scrittura. Socia fondatrice dell’associazione culturale Euterpe di Jesi, ha pubblicato diversi libri per bambini e partecipato a concorsi letterari ottenendo vari riconoscimenti. Scrive sempre in compagnia della musica. 

 

Manuela Testaferri ama il mondo dei bambini e questo l’ha portata a coltivare l’interesse per l’illustrazione d’infanzia. Formata alla scuola Comics, ha frequentato un seminario sul libro illustrato a Sarmede, il paese delle fiabe. Per lei, dare forma e colore alle immagini di un racconto dedicato ai più piccoli è, ogni volta, un vero viaggio nella meraviglia e nello stupore.





sabato 13 novembre 2021

 

Cinzia BALDAZZI - Pirandello e l’Accademia d’Italia. Un libro di Alberto Raffaelli

 

Alberto Raffaelli

La comparseria

Luigi Pirandello accademico d’Italia

Firenze, Franco Cesati Editore, 2018

pp. 212, € 25,00

 


Dal 1929 al 1936, negli ultimi otto anni della sua esistenza, Luigi Pirandello ha fatto parte dell’Accademia d’Italia. Lo studioso Alberto Raffaelli ha ricostruito l’intera vicenda nel volume La comparseria, attraverso un lungo e complesso lavoro archivistico unito alla definizione approfondita di un profilo psicologico tormentato e complesso. 

 

   Nonostante abbia sempre creduto nell’importanza di un ruolo non indifferente svolto dalla τχη (tiùche-sorte) nella produzione artistica, maturando le basi della mia struttura critica ho ritenuto fondamentale conoscere il contesto nel quale ogni autore ha realizzato, come suggerisce il maestro Walter Binni, «la propria natura artistica, il suo ideale estetico, il suo programma, i modi secondo i quali si propone di costruire». Mi sento allora dalla parte di Alberto Raffaelli quando, a premessa del suo studio La comparseria. Luigi Pirandello accademico d’Italia, scrive: 

Si tratta di una ricognizione che con l’ausilio di documenti anche inediti intende porsi nella scia della corrente storiografica originata dal «ritorno ai testi» risalente agli anni Sessanta, ma i cui punti di riferimento più pertinenti sono le ricerche che negli ultimi decenni, all’insegna di un filologismo variamente orientato, hanno teso a sfatare luoghi comuni e a sfrondare zone d’ombra non solo del profilo esistenziale dello scrittore, ma anche della sua poetica. 

   Si tratta della medesima poetica - analizzata dal professore perugino nella rinomata Poetica, critica e storia letteraria (1963) - equivalente allo «sfondo culturale animato dalle preferenze personali del poeta», oppure al «meccanismo inerente del fare poetico», alla «psicologia del poeta tradotta in termini letterari»

. Ebbene, ogni tessera di tale mosaico si svilupperebbe in sintonia con una chiave logico-euristica sequenziale di un divenire lineare, se non fosse che la poetica, al pari del personaggio storico-concreto di Pirandello, non risultassero, almeno agli occhi dei loro attenti destinatari, una zona d’ombra essi stessi. Pertanto, il traguardo prefissato da Raffaelli appare singolarmente impegnativo, dedicato com’è all’esplorazione analitica dei quasi otto anni in cui il commediografo appartenne alla Reale Accademia d’Italia, dalla nomina nel marzo 1929 alla morte nel dicembre 1936.

   Un’assidua opera di ricerca e consultazione effettuata presso l’Archivio dell’Accademia Nazionale dei Lincei è alla base del libro, dove si affida al primo e all’ultimo capitolo il nucleo del racconto, focalizzando negli altri alcune vicende nelle quali venne coinvolto lo scrittore dopo la nomina: la prolusione su Giovanni Verga nel 1931 per il cinquantenario de I Malavoglia, il premio Mussolini fatto avere a Rosso di San Secondo nel 1934, il convegno Volta sul teatro nello stesso anno. Una vera novità editoriale è costituita dalla collocazione in apertura del libro di un Siglario Bibliografico di ben trentadue pagine. 

Luigi Pirandello nell'uniforme di Accademico d'Italia

   Abbiamo accennato alla “zona d’ombra”, con riguardo alle difficoltà di interpretazione della sua figura complessiva. Raffaelli ne è cosciente, al punto di configurare l’appartenenza all’Accademia «come misura della socialità di Pirandello»: 

Nella vicenda dello scrittore siciliano […] l’osservazione del suo vissuto all’interno della massima istituzione culturale fascista fornisce conferme di uno stretto legame tra temperamento nevrotico e visibilità pubblica, nonché dell’alternanza tra fuga ripiegante e un’ansia gratificatoria a cui non sembra quasi mai rinunciare. 

   Si veda in proposito, nel primo capitolo, la gustosa ricostruzione delle ansie, delle palpitazioni, dell’attesa frenetica legata alla ufficializzazione dei primi ventinove personaggi “cooptati” nell’Accademia appena costituita. Prosegue Raffaelli (citando Luigi Martellini): 

Anche sotto una prospettiva politica, dal 1929 la feluca costituì per lo scrittore - negli alti e bassi della sua umoralità e più di quanto fosse avvenuto in precedenza col semplice tesseramento - la cartina di tornasole della sua «adesione al fascismo vissuta tra insofferenze e incomprensioni e in netto contrasto con i valori etici della sua opera, del suo sentimento disgregante della realtà». 

   Laddove, comunque, il repertorio pirandelliano poggia su una radice ispirativa naturale che si complica su se stessa, Raffaelli osserva: 

Dai documenti rivelanti i contorni e le coulisses di Pirandello accademico si ricava l’impressione della soggiacenza di un sentimento destrutturante che, come diffidava da sempre dei sistemi di pensiero, allo stesso modo condannava quella che poteva esserne considerata un omologo concreto: la concentrazione articolata ed estremamente formalizzata dei (supposti) massimi ingegni della nazione era cioè da lui avvertita come verticismo pseudo-meritocratico e non rappresentativo. 

   Nel saggio L’umorismo (1908), in attinenza alle teorie di Hippolyte Taine, fautore del positivismo sociologico, Pirandello spiega: 

Dopo aver considerato il cielo, il clima, il sole, la società, i costumi i pregiudizii, ecc., non dobbiamo forse appuntar lo sguardo sui singoli individui e domandarci che cosa siano divenuti in ciascuno di essi questi elementi, secondo lo speciale organamento psichico, la combinazione originaria, unica, che costituisce questo o quell’individuo? Dove uno s’abbandona, l’altro si rivolta; dove uno piange, l’altro ride; e ci può esser sempre qualcuno che ride e piange a un tempo.

 

Villa Farnesina, sede dell'Accademia d'Italia, in una stampa dell'epoca.


   In un simile fluire esistenziale ove convivono entità del tipo tesi-antitesi di ordine hegeliano, in un paio di occasioni - e La comparseria le espone in dettaglio - l’Accademia coincise con un punto di riferimento operativo nella trama-intreccio creativa del macrocosmo pirandelliano. Non solo: 

Nel quadro del faticoso rapporto dello scrittore col regime, l’Accademia contribuì a mantenere formalmente impeccabile l’adesione a esso, assicurando con efficienza la regolarità del suo tesseramento e risolvendogli anche alcuni problemi. 

   Non a caso il primo capitolo del libro di Raffaelli si chiude con un paragrafo dedicato a «tornaconti personali e guai»: l’influenza dell’Accademia gli permette accomodamenti piuttosto accettabili su questioni fiscali, risolvendo anche ostacoli legati a passaporti, diritti d’autore e quote sociali. In un passo de L’umorismo, Pirandello sembra parlare di se stesso: 

Del mondo che lo circonda, l’uomo, in questo o in quel tempo, non vede se non ciò che lo interessa: fin dall’infanzia, senza neppur sospettarlo, egli fa una scelta d’elementi e li accetta e accoglie in sé, e questi elementi, più tardi, sotto l’azione del sentimento, s’agiteranno per combinarsi nei modi più svariati.   

   Numerosi sono i documenti riportati nelle pagine de La comparseria attraverso cui trapela - oltre l’indagine storico-cronologica, specifica-obbiettiva - l’istanza esemplare di un’aura di analisi esegetica completa, poiché, nell’accogliere i suggerimenti binniani, suppongo Alberto Raffaelli abbia voluto, nella veste di critico, rafforzare la responsabilità del suo lavoro collaborando all’ulteriore enunciato del valore artistico dell’universo di segni-segnali pirandelliano, «della sua vita attuale nella continuità della sua vita critica precedente, e come opposizione a ogni forma di scostamento impressionistico o degustativo dell’opera d’arte». Il professor Arcangelo Leone de Castris, a proposito di alcuni brani pirandelliani tratti dai Saggi, Poesie, Scritti vari commentava: 

Una realtà dominata dall’irrazionale e dal relativo non può rispecchiarsi in un’arte che nel simbolo elude i termini concreti dal dramma storico, né un’arte che gli sovrapponga un’immagine falsamente ottimistica, arbitraria: l’arte moderna deve cogliere e rappresentare le mille voci discordi della coscienza contemporanea. 

   Ricostruendo la vicenda pirandelliana dell’Accademia, Raffaelli ha saputo ben difendere le istanze personali e storiche dell’autore di Uno, nessuno e centomila (1926), confrontandole in misura oggettiva con l’alternanza presente-passato, conservando nella propria esegesi una totale consapevolezza della polisemia del tema sviluppato, del suo composito svolgimento diacronico-sincronico. Improbabile appare infatti, in una poetica così caratterizzata - programmatica o in atto - individuare piani referenziali, materiali o affettivo-spirituali assoluti, in quanto nello spazio dell’Io conscio generatore (in contatto con le tracce dell’Inconscio) ciò è di per sé fuori luogo. Precisa è la notazione psicologica di Raffaelli: 

Fu anche la sfiducia in un reale fedelmente referenziale a renderlo riottoso verso l’Accademia, come in fondo egli era sempre stato nei riguardi di filiazioni e inquadramenti. 

   Nel 1931, dalla Francia il commediografo raccomandava alla secondogenita Rosalia Caterina detta Lietta: 

Cerca e trova in te una certezza, Lietta mia, e tieniti a essa aggrappata che non ti sturba. Non potrai trovarla, se non te la crei. E dunque non cercare nulla che non ti venga da te. Un sentimento di te, della tua vita, che sia di qualche cosa in cui possa consistere, certa. È difficile. 

Luigi Pirandello posa per il pittore Primo Conti.


   L’episodio del Nobel entra a pieno titolo in questa atmosfera. Sui centosette accademici complessivi nel periodo di attività dell’istituzione (tra il 1929 e il 1944), tre risulteranno titolari del premio conferito dall’Accademia Svedese: Guglielmo Marconi (1909) ed Enrico Fermi (1938) per la Fisica, Luigi Pirandello (1934) per la Letteratura. Riguardo al riconoscimento assegnato a quest’ultimo, la cui risonanza in Italia fu oggettivamente scarsa, in termini appropriati Raffaelli sottolinea: 

Tale complessiva modestia della valorizzazione del premio da parte dell’Accademia - che pure nell’avanzamento della proposta dimostrò una seppur relativa autonomia operativa nel contesto istituzionale del fascismo - riflette, anche come conseguenza del poco slancio con cui la candidatura fu appoggiata dal regime, lo scarso entusiasmo col quale fu celebrata la vittoria in Italia. 

   La scomparsa dovuta a una grave polmonite, nel dicembre del 1936, trovò l’Accademia «pronta alla celebrazione di un rito del resto abituale, vista l’età avanzata di gran parte dei suoi membri», racconta Raffaelli: «Solo le festività natalizie dovettero indurre a spostare di alcune settimane la commemorazione, pronunciata com’è noto alla Farnesina da Massimo Bontempelli».  

   Tutto nella norma, quindi, sino all’estrema dimora. Ne La vita nuda (1907), uno dei maggiori esempi della novellistica pirandelliana, l’esordio recita: 

Un morto, che pure è un morto, caro mio, vuole anche lui la sua casa. E se è un morto per bene, bella la vuole; e ha ragione! 

   In parallelo al personaggio di Giulio Sorini della novella, Pirandello e le sue ceneri acquisirono - anch’esse in seguito a un tormentato iter - una “bella casa”, in base alle ultime volontà, nel giardino della villa di famiglia nella contrada “Caos” accanto alla scultura monolitica di Renato Marino Mazzacurati. Una scelta di ritorno all’infanzia, alla terra natìa, consona a un brano del discorso funebre del Bontempelli di cui Raffaelli riporta le parole-chiave, là dove si accenna a un «candore, qualità elementare, nativa […], divinamente incauta, piena di senso del mistero, provvista di un suo proprio linguaggio semplificato, […] profondamente sincera» e in grado di sfiorare subito il cuore delle cose, che vede «degli atteggiamenti altrui […] in modo immediato fino alle ultime conseguenze e senz’altro le denunzia».

"La vita nuda"

   Di una simile disposizione, legata a uno stato d’animo di sofferenza-ribellione, Pirandello dava prova in una lettera indirizzata alla figlia da Milano nell’ottobre del 1931:   

Più di cinquanta ne ho pagate di tasse; e poi supplementi straordinarii a te, a Stefano, a Fausto; sapete bene che mi sono spogliato di tutto; e bisognerà pure che pensi un poco alla mia vecchiaja, se proprio non volete che vada a finire in un ospedale. Sono esausto! Un po’ di considerazione. Avreste potuto essere ricchi e vi siete condannati tutti e tre alla povertà e ai continui bisogni, con me e i vostri figliuoli. A 64 anni io non ho nessuna posizione e sono ancora obbligato a lavorare per vivere e farvi vivere! È duro. Basta. Recriminazioni inutili. Ti bacio, Lietta mia, con la tua piccola, il tuo Papà. 


   Il limite precario della storia, animato da un continuo divenire, in Pirandello ha i caratteri dell’unicità e della globalità: pervade non solo le creature del suo teatro, il territorio delle novelle, l’universo dei romanzi, ma ispira pensiero e azioni personali, adesioni e rifiuti, gioie e inquietudini. Alberto Raffaelli è attento a scandire la ricostruzione degli anni dell’Accademia descrivendo i timori lancinanti di un’eventuale esclusione («Sono preparato a tutto; e ormai non mi aspetto nulla da nessuno»), il moderato entusiasmo alla conferma («Dunque sono Accademico d’Italia»), la sorpresa per l’elenco dei “colleghi” prescelti (salvando solo gli amici Salvatore Di Giacomo e Roberto Bracco), i giudizi feroci («L’Accademia? Una buffonata»). Del resto, la potente Margherita Sarfatti (del cui salotto Pirandello era stato frequentatore) si chiedeva con perplessità: «Può l'Accademia non essere accademica?».

   Atteggiamenti del tutto presenti alla coscienza del grande autore, e in certo qual modo elencati in un passo di una conferenza tenuta nel 1922: 

È naturale che ogni espressione raggiunta, mondo creato, a sé, unico e senza confronti, che non può essere più né nuovo né vecchio, ma semplicemente «quello che è», in sé e per sé in eterno, trovi in questa sua stessa «unicità» le ragioni: prima, della sua incomprensione; e poi, per sempre, della sua spaventosa solitudine: la solitudine delle cose che sono state espresse così, immediatamente, come vollero essere, e dunque «per se stesse». 

   Ma per fortuna, almeno una volta, il nostro Pirandello è stato sin troppo incline al nichilismo, al suo «sentimento destrutturante» (così ben definito da Raffaelli): le «cose» da lui significate e rappresentate, invece di finire racchiuse in sé, sono giunte lontano, molto lontano.   


Alberto Raffaelli, PhD in Letteratura Italiana, è docente nelle scuole medie e studioso d'Italianistica, con all'attivo svariate monografie specialistiche. Tra queste, La comparseria. Luigi Pirandello accademico d'Italia (Firenze, Cesati, 2018) è risultata vincitrice di due premi per la saggistica: il 45° Premio Letterario Casentino, sezione narrativa/saggistica, e il 6° Premio Internazionale Salvatore Quasimodo, sezione saggio/tesi di laurea. L’autore si è poi occupato nei suoi volumi di argomenti quali la narrativa barocca, i periodici per l'infanzia nell'Italia post-unitaria, epistolari tra scrittori del Novecento, la politica linguistica del fascismo; ha inoltre all'attivo articoli e curatele in riviste e miscellanee universitarie. Si occupa attualmente di divulgazione libraria e culturale come amministratore del gruppo Facebook Segnalazioni Letterarie (https://www.facebook.com/groups/segnalazioniletterarie). Vive a Roma, dove partecipa attivamente a numerosi eventi culturali, organizzando tra le altre cose il premio “Lettere al Sempione".

 

 

sabato 8 febbraio 2020




Lauro ZUFFOLINI - “Per Cattolica binario 5” (racconto breve)



Da molto tempo Michele non metteva piede alla stazione ferroviaria di Carpi, dove viveva.
Ritrovò i soliti tre binari, sempre uguali fin dal tempo in cui suo padre lo caricava bambino sulla canna della sua bicicletta e lo portava a vedere il treno che arrivava. Quello con la locomotiva tutta nera che faceva ciuff ciuff e faceva fuoriuscire le nuvolette di fumo bianco che si innalzavano lentamente verso il cielo.
Pensò a quando era capitato lì l'ultima volta e ricordò che fu per accogliere sua figlia Laura nei suoi rientri periodici da Milano, dove studiava all'Accademia della Comunicazione.
Lei non si era bloccata davanti alla prospettiva di andare a vivere da sola, pur di sviluppare la grande passione che aveva per internet e per la grafica. Aveva solo diciannove anni, e l'idea chiara in testa di voler lavorare in quei settori.
Michele portava impressa in sé l'emozione dell'attesa dell'arrivo del treno da cui sarebbe scesa sua figlia, che amava intensamente. Aveva anche il rammarico, che a volte gli cresceva dentro fino a diventare un senso di colpa, di non averle assicurato una famiglia unita, ma spezzata dalla separazione dei suoi genitori. Provò ancora quello stato d'animo misto. Da una parte l'orgoglio per l'autonomia e l'indipendenza che sua figlia dimostrava nel voler affrontare da sola la vita di una metropoli e dall'altra l'apprensione per i pericoli che le potevano incombere a seguito di quella scelta. Soffriva per il disagio della lontananza da lei che la separazione gli aveva lasciato in eredità da quando era uscito per sempre di casa e che lo accompagnava stabilmente, come un basso continuo, nonostante gli sforzi da lui compiuti per esserle vicino in tanti modi e in tante occasioni, nonostante tutto.
In quel sabato d'estate di un week end prossimo a ferragosto c'era poca gente in stazione e non ce ne poteva essere di più. Non si trattava della Gare de Lyon, né della stazione Termini, ma solo di quella di Carpi.
Il treno poi era diventato un mezzo di trasporto desueto. Non dava la libertà d'azione e di orario delle automobili, mezzi alla portata di tutti, né copriva le distanze degli aerei. Gli utenti andavano così cercati tra coloro che dovevano economizzare nelle spese di trasferimento.
Vide due ragazze dalla pelle scurissima che chiedevano informazioni a tre signori anziani seduti su una panchina. Non si capiva bene se quei signori stessero aspettando un treno o fossero lì per passare il tempo in compagnia. L'abbondanza di parole che quei tre, a turno e accavallandosi, usarono nel fornire indicazioni alle giovinette, il tono di voce affettato e la quantità di sorrisi esibita, davano l'impressione che i panchinari cercassero di andare oltre le domande ricevute. Pareva che tentassero di fare i galletti, in realtà molto spennacchiati e bolliti. Ma si sa che l'abitudine di certi uomini all'abbordaggio non dipende dall'età e si perpetua finché c'è il respiro.
Michele non poté osservare più a lungo la scenetta, perché il suo treno si era già presentato al binario 3.
Sua sorella Daniela l'aveva invitato a passare il fine settimana da lei a Cattolica, dove aveva da poco comprato un appartamento, coronando il sogno suo e di suo marito per quanto riguardava le vacanze. Cattolica forever. Seguendo le scelte dei genitori, Michele c'era stato tante volte da ragazzo nel mese di agosto con tutta la famiglia e per sua sorella non esisteva località migliore di quella.
Le carrozze erano semivuote e i passeggeri potevano così collocarsi ben lontani gli uni dagli altri, come lui stesso fece. Le poltrone erano ben più che ordinari sedili, decisamente comode, di un vivace colore blu elettrico e piazzate alla giusta distanza tra loro. Si stupì, gli sembrava di viaggiare in aereo, anche se lui non aveva mai provato cosa fosse la prima classe perché i suoi voli erano stati molto economici. Quella rimaneva comunque la seconda classe di un treno regionale, decisamente migliorata di livello dai tempi della sua giovinezza.
All'arrivo a Modena era previsto un cambio.
Prima dell'ingresso in stazione si sentì una voce nell'etere… abbiamo maturato sei minuti di ritardo, ce ne scusiamo con i viaggiatori...
Il proverbiale vizio italico del ritardo sulle strade ferrate non era quindi stato abbandonato. Vi era così stato aggiunto un tocco di gentilezza e di precisione unitamente alla confessione esplicita dell'errore commesso. Michele si meravigliò anche di quella parola usata, 'maturato', che riteneva più adatta a descrivere frutta che un ritardo nella percorrenza di un convoglio.
Sull'orario esposto al pubblico era indicato il binario 4 per il cambio del treno, ma una voce avvertì che bisognava invece dirigersi al binario 5. Così si assistette a repentini spostamenti di direzione da parte di gente con valigie in mano e borse a tracolla e con la tipica frenesia di chi teme di perdere il treno giusto.
Michele già lo sapeva e rimase calmo. Sua sorella viaggiava spesso su quel treno e lo aveva avvisato di tale variazione.
Ora i posti liberi si erano ridotti di numero e la scelta si era ristretta. Occorreva così valutare dopo un veloce colpo d'occhio anche i vicini per decidere dove sedersi. Michele si sistemò davanti a un signore col doppio mento che stava dormendo. Gli sembrava più vecchio di lui, ma non ne era sicuro. Forse Michele stesso era il più vecchio dei due. Superati da un po' i cinquant'anni, non riusciva più ad attribuire l'età alle persone. I giovani gli sembravano tutti giovanissimi, quasi ragazzini. Gli adulti facevano parte di una massa in cui non ci capiva molto. Poteva sbagliare anche di dieci anni e più. Gli anziani si distinguevano per un qualche segno di visibile decadimento nell'aspetto fisico.
Michele quel pomeriggio aveva voluto viaggiare in treno. Avrebbe potuto usare la macchina, ma intravide in quella scelta l'opportunità di riposarsi di più e di poter riflettere con calma. Voleva cogliere qualcosa, uno spunto, un'idea, un bagliore di luce che lo aiutasse a sbrogliare in parte la matassa aggrovigliata della sua vita.
Era il primo week end che trascorreva da solo, da tanto tempo, senza la presenza della sua compagna Stefania, che si era recata a fare una vacanza in Tunisia con sua figlia.
Con Stefania viveva da alcuni anni una sorta di convivenza part- time, limitata ai fine settimana, alle feste comandate e poco più. Quella condizione andava bene a lei, ma non a lui. E gli era piaciuto poco che avesse preferito passare una vacanza con la figlia senza di lui, dietro richiesta della ragazza stessa, appena adolescente. Stefania non gliene aveva parlato abbastanza e gli sembrò di dover accettare senza discussione quella cosa. Cioè di subire. Per lui era un indizio serio dello scarso amore di Stefania nei suoi confronti. Questo ci poteva anche stare, alla fine. I sentimenti non si impongono, né a se stessi né agli altri. Ma era necessario capire che tipo di sentimenti provasse la persona che lui amava, per non dover accorgersi troppo tardi di aver imboccato una strada che non portava da nessuna parte. Quanto meno non dove lui desiderava arrivare. E lui voleva unire la sua vita a quella di una donna, o almeno a riprovarci, dopo il fallimento del suo matrimonio. Era innamorato della dolcezza di lei, ma sentiva che c'era ancora un po' di distanza tra loro, che lei non colmava affatto, anzi sembrava voler mantenere. Questo gli occupava la mente, in viaggio per Cattolica. E mentre era in attesa di una illuminazione interiore vide il treno giungere alla stazione di Bologna.
Qui salì il resto del mondo.
Ma Bologna era Bologna, una bella città, popolosa ma non troppo. Gente simpatica, ironica, piena di buon senso e sorprendentemente saggia. Qui i ricordi aggredirono Michele con più veemenza.
Erano gli anni dell'università e riaffiorò un altro rimpianto. Dopo il primo anno da matricola, quando frequentava le lezioni ogni giorno e faceva avanti e indietro sui treni da Carpi e per Carpi, Michele smise di presentarsi nelle aule se non per gli esami.
Scelse di lavorare per pagarsi gli studi, perché suo padre disapprovò la sua decisione di studiare pedagogia. Voleva che diventasse, medico, ingegnere o bancario, insomma che perseguisse una professione che gli procurasse denaro e prestigio. Cos'era la pedagogia?  Gli chiedeva con feroce sarcasmo suo padre. Di sicuro una cosa che dava poco da mangiare, secondo il suo genitore.
Per amor proprio, Michele si fece assumere come insegnante di musica comunale e rifiutò quell'aiuto economico che suo padre non gli aveva comunque mai negato né messo in discussione. Per amor proprio o per orgoglio, ma soprattutto per coerenza sembrò a Michele di dover compiere quel gesto. Ognuno doveva pagare per le scelte che faceva. Così era fatto lui.
Più avanti nella vita si chiese alcune volte cosa sarebbe stato di lui se fosse andato avanti per la strada che preferiva, quella che portava all'insegnamento, partecipando assiduamente alla vita universitaria senza deragliamenti.
La laurea che conseguì alla prima sessione di esami, senza aver perso un solo giorno utile, non gli bastò per imboccare quella via. Fu un giorno più di mestizia che di gioia, quando salì sulla vecchia Fiat 1100 di famiglia e tutto solo si avviò verso Bologna per discutere la tesi, ottenendo anche il massimo dei voti.  Il conflitto col padre si accentuò in seguito, lo spinse a uscire di casa presto per sposarsi troppo giovane e a cercare per necessità il lavoro dove c'era. Ed entrò nel settore dell'abbigliamento, quello che a Carpi forniva più opportunità di lavoro, che poteva essere per molti un piacere e un interesse, ma per lui niente più che una forma di esilio dal mondo della scuola che avrebbe voluto frequentare. Esiliato, appunto. Così si sentiva nei panni di un piccolo imprenditore. E la sua piccola azienda non andava affatto bene negli ultimi tempi.
A quel punto sul treno i posti vennero tutti occupati.
E iniziò una specie di festival delle suonerie dei telefonini. Musichette di ogni tipo, dal rock all'hawaiano, al melodico strappacuore classico o napoletano, al motivetto per bambini, dalla mazurka da sagra paesana al cool jazz. A suo insindacabile giudizio vinse la sua, di suoneria. Grazie a una chiamata da parte di sua sorella, tutti, o almeno chi era stata attento, poterono ascoltare l'imperioso inizio della quinta sinfonia di Beethoven.
“Tutto bene?”.
“Sì, tutto a posto… non so l'orario preciso in cui arriverò… perché dipenderà dal ritardo... maturato”.
“Bene... ti aspettiamo”.
Daniela era adorabile e disponibile, tranne in quei momenti in cui il loro rapporto subiva degli improvvisi black out per incomprensioni reciproche. Suo marito era molto simile a lei. A quel tempo tutto filava liscio tra loro fratelli e lei era orgogliosa di mostrargli quell'appartamento tanto anelato.
Si guardò intorno.
Lo spettacolo agli occhi di Michele parve davvero singolare. Quasi tutti i viaggiatori stavano parlando, con partecipazione, con intensità, gesticolando ed emozionandosi, ma non con i propri vicini di posto, bensì con i lontani, tramite il cellulare.
Come in quadro di pura follìa, popolato da marionette, ognuno si atteggiava e rivolgeva parole a una tavoletta sonora e colorata che teneva in mano, ignorando del tutto chi gli stava accanto o di fronte.
Michele cercava di buttare acqua sul fuoco riattizzato dai suoi ricordi.
Vide un controllore zelante che al limite dell'impertinenza scosse due volte il braccio di una bella ragazza bionda che si era addormentata, per chiederle il biglietto. Non era neanche facile assopirsi in quel contesto concitato e rumoroso di conversazioni mediatiche. Michele pensò che lui l'avrebbe osservata e attesa per qualche attimo e poi se ne sarebbe andato lasciandola riposare.
Intanto vide che fuori dai finestrini pioveva, anzi scrosciava. Non male per chi si recava in luoghi di vacanza a cercare amplessi col sole cocente.
Da uno scompartimento vicino arrivò una ragazza con i capelli rosa. Mancava giusto una così, con in testa una tinta artificiale, perché le diverse etnìe erano già tutte presenti con la varietà dei colori di pelle e di pelo inventata dalla natura. Dal punto di vista cromatico i passeggeri del treno erano pressoché al completo.
Michele girò gli occhi verso la ragazza seduta alla sua destra. Stava leggendo con molta concentrazione un testo di economia in lingua inglese, ma era italiana, da come parlava al cellulare. La ammirò, lui che l'economia la capiva poco già nella sua lingua natìa e ancor meno gli piaceva.
Tre file di sedili più avanti, da un posto di fronte al suo, un uomo mezzo calvo col pizzetto lo stava guardando per la sesta o settima volta. Gli occhi si incrociano casualmente in certi ambienti in cui si è costretti a stare, ma Michele si scocciò di quel guardone.
Il treno procedeva a velocità elevata e lui si sentiva rilassato, quasi cullato dai ritmici movimenti di quella macchina. L'unico inconveniente era rappresentato dalla difficoltà di scrivere. Era solito annotarsi pensieri e riflessioni su dei fogli bianchi che portava sempre con sé, come in una sorta di diario dell'anima, ma in quella circostanza gli uscivano dalla biro solamente dei caratteri tondeggianti e arzigogolati, simili all'alfabeto urdu dei pakistani.
Stazione di Forlì.
Ad ogni fermata il conduttore dichiarava i minuti di ritardo, che risultavano in costante aumento, e ciò stava diventando una stucchevole litanìa. Sarebbe stato meglio che cercasse di rimediare al ritardo invece di informare puntigliosamente i viaggiatori, suscitando commenti tutt'altro che benevoli.
Un flash mentale lo riportò ai tempi dell'università, quando sul treno che lo portava a Bologna si chiedeva, nell'incapacità di prevedere il suo futuro, a quali stazioni della vita sarebbe sceso, facendo varie ipotesi del suo lavoro. Invece cominciò a pensare, quel sabato, quanto mancasse al capolinea.
Stazione di Cesena.
Michele poté finalmente allungare le gambe e allargare le braccia, nel massimo della comodità possibile, perché molti dei suoi compagni occasionali di viaggio erano scesi.
Chissà chi erano e che vita conducevano. Pensò che nella vita si percorre solo un tratto di strada insieme agli altri, più o meno lungo che sia. E quando non ci sono più un progetto che accomuna o una necessità che lega si assiste alla scomparsa indifferente o dolorosa degli altri. Oppure siamo noi stessi a scendere a una stazione precisa, abbandonando il viaggio comune fino ad allora, causando dolore o indifferenza. Il problema principale consiste nell'individuare bene i vari momenti, capire cosa c'è che unisce le persone, né illudersi né illudere. Nel caso si tratti di una coppia ci vorrebbe la lucidità di comprendere se la situazione è veramente condivisa o se uno dei due si sta caricando un cadavere sulle proprie spalle.
Molti viaggiatori stavano ascoltando musica dagli auricolari. Chissà se era musica buona, pensò Michele, e se avevano le orecchie pulite...
C'era un ragazzo che portava scritto sulla sua maglietta gialla 'violence and aggression', ma aveva occhi miti e mansueti e un fare flemmatico. Che si trattasse di un caso di personalità dissociata? O multipla?
Faceva anche pensare a Michele che i violenti, al di là delle apparenze, sono accanto a noi, sono come noi e potremmo diventarlo anche noi stessi. Michele era un pacifico, tutt'altro che impulsivo. Ma anche a lui erano venuti certi attacchi di rabbia.
Aveva ancora scolpita davanti agli occhi l'immagine di quel direttore di banca, basso di statura, che il mese prima con tono di voce indifferente e cantilenante gli aveva bruscamente tolto di mano quell'ombrello che gli aveva generosamente offerto quando gli affari gli andavano bene. Rientrato a casa, Michele tirò un pugno contro il muro. Solo in quel giorno dovette controllare impulsi aggressivi, che mai aveva provato per alcuno, verso quell'individuo che gli ripeteva ossessivamente 'non ho facoltà di comportarmi diversamente', mentre Michele gli squadernava umiliandosi tutti i motivi della stretta economica in cui si ritrovava, il suo passato e presente di persona affidabile e responsabile, e sull'orlo della disperazione gli spiegava le sue proposte per risollevarsi dallo sforamento del fido bancario. Inutilmente. In conclusione se la prese con se stesso e per puro caso non si fratturò una mano.
Quel giovane sul treno probabilmente tentava di esprimere con ironia un dato caratteriale o una metodologia di vita che gli erano estranei e che condannava. Forse.
Il sole finalmente riuscì a bucare le nuvole.
Così le prospettive cambiavano.
Ma si era ormai al tramonto.
Come poteva vivere, Michele, quei giorni e quella stagione della sua vita?
I saggi avrebbero sentenziato che occorreva scorgere nella avversità il manifestarsi di opportunità sempre nuove. Ma Michele non si sentiva saggio e a volte pensava che i saggi non avrebbero immaginato in quali e quanti casini si trovasse Michele stesso.

Inviò un sms a sua sorella, informandola che stava per arrivare.
Di illuminazioni proprio non ne ebbe o forse non se ne accorse.
E per poco non scese per sbaglio alla stazione di Misano, quella prima di Cattolica.
Aveva già i piedi sul predellino.


Lauro Zuffolini, 66 anni, è nato e vive a Carpi (MO), dove lavora come educatore di ragazzi disabili nelle scuole superiori. È laureato in pedagogia e diplomato in pianoforte. Scrive assiduamente da circa vent'anni, ma solo da un decennio pubblica i suoi componimenti. Nel 2019 è risultato primo classificato in due concorsi: a Novara a “La canonica arte” per la prosa, a Roma a “Mangiaparole“ per la raccolta Poesie così (di prossima pubblicazione presso le edizioni Progetto Cultura). Sempre a Roma, gli è stato assegnato nell’ottobre 2019 il Premio della Critica al concorso nazionale “I colori delle parole”, ottenendo poi vari riconoscimenti a Massa, S. Benedetto del Tronto, Melegnano, Zola Predosa, Viareggio, Monza e Carpi. Per l’editore Montedit ha pubblicato tre raccolte di poesie, Quello che sono capace di dire, Terremoti fuori e dentro e Vele stracciate, nonché il romanzo Maistefureb dieci volte.



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Commento di Cinzia Baldazzi

Nella vita, quale significato possiede il pensiero, o meglio la riflessione in sé? Valutando cosa siamo, cosa accade intorno, potremmo migliorare la qualità dell’esistenza personale o altrui? Il racconto Per Cattolica binario 5 di Lauro Zuffolini, nell’ordine di un macrocosmo della letteratura, mostra quanto porsi un quesito del genere, oltre ad essere già esempio in atto di una simile forma del ponderare e rivedere l’insieme, coincida con la prova di come tale genere di ragionamento sia insito nell’indole umana, reso esplicito o meno.
Poco meno di duecento chilometri, quasi due ore di viaggio: nell’itinerario del treno in partenza da Carpi e diretto a Cattolica, l’Io narrante si identifica, appunto, con la prospettiva di un point of view non per illuminare l’hic et nunc causale dell’intera vicenda descrivendola in linea tradizionale. Infatti, acquista rilievo progressivamente sempre più importante il ruolo della sorte, il peso dei “se”, tipici di un meditare in chiave di giudizio riflettente sulla traccia del criticismo kantiano:

Michele quel pomeriggio aveva voluto viaggiare in treno. Avrebbe potuto usare la macchina, ma intravide in quella scelta l’opportunità di riposarsi di più e di poter riflettere con calma. Voleva cogliere qualcosa, uno spunto, un’idea, un bagliore di luce che lo aiutasse a sbrogliare in parte la matassa aggrovigliata della sua vita.

L’accordo tra il referente dell’ambito primario naturale e lo spazio della libertà viene rintracciato da Immanuel Kant nell’intervallo intimo equivalente al giudizio riflettente. Dobbiamo però partire dall’altra grande tipologia, ovvero il giudizio determinante (o sintetico a priori), il cui regno è la Critica della ragion pura: l’individuo, per conoscere, si appella alle categorie dell’intelletto, la molteplicità dei fenomeni viene interpretata in base a un concetto già dato.
Nella Critica del giudizio estetico, dedicato al “bello” e al ”sublime”, la funzione riflettente indica invece che l’Io soggettivo “riflette”,  al pari di uno specchio, il reale interiore su quello esterno. Si parte da un singolo fenomeno, dal “particolare”, per ricondurlo a un concetto, a una regola, a un “universale”, sulla base della riflessione.
Nella Teoretica kantiana, “conoscere” corrisponde ad associare un oggetto a un altro: un predicato a un soggetto, oppure a con b. Nella short story di Zuffolini, a riguardo:

Le poltrone erano ben più che ordinari sedili […] gli sembrava di viaggiare in aereo […] Quella rimaneva comunque la seconda classe di un treno regionale, decisamente migliorata di livello dai tempi della sua giovinezza.

Nell’Estetica, invece, la conoscenza implica la connessione di a con s, ovvero con noi stessi: il soggetto è pienamente coinvolto nel giudizio da lui attribuito. Nel giudizio estetico, l’individuo appare libero nel formulare i nessi associativi e può tendere alla dimensione dell’assoluto, al contrario preclusa alla pura ragione consequenziale.
Ad esempio, nei pensieri di Michele prende corpo una riflessione sui compagni occasionali di viaggio:

Chissà chi erano e che vita conducevano. Pensò che nella vita si percorre solo un tratto di strada insieme agli altri, più o meno lungo che sia. E quando non ci sono più un progetto che accomuna o una necessità che lega si assiste alla scomparsa indifferente o dolorosa degli altri. Oppure siamo noi stessi a scendere a una stazione precisa, abbandonando il viaggio comune fino ad allora, causando dolore o indifferenza. Il problema principale consiste nell’individuare bene i vari momenti, capire cosa c’è che unisce le persone, né illudersi né illudere. Nel caso si tratta di una coppia ci vorrebbe la lucidità di comprendere se la situazione è veramente condivisa o se uno dei due si sta caricando un cadavere sulle proprie spalle.

Il “giudizio riflettente”, quindi, non svolge un ruolo direttamente conoscitivo, ma si caratterizza soprattutto per il libero gioco delle facoltà (giudizio, intelletto e ragione), consentendo di gettare un ponte tra l’universo naturale (necessario) e lo spazio-tempo della libertà. L’auspicio è nel cercare di rispondere personalmente alla domanda: qual è l’obiettivo della natura? che senso esprime il mondo intorno a noi?
L’atteggiamento kantiano del viaggiatore di Zuffolini ha questa caratteristica: osservare, scrutare e selezionare diventano azioni e strumenti idonei a comprendere la propria natura di uomo, spirituale e comportamentale, in rapporto agli altri e al mondo circostante.
Tra le pagine della short story emerge, attraverso un raffinato complesso di segni-segnali, un orizzonte di discorso in cui la comunicazione (orale, scritta) non è articolata in veste di semplice input informativo: rappresenta piuttosto un’autentica, preziosa azione esercitata dal singolo - a volte mittente, a volte destinatario - sugli altri.
Scaturisce, così, un concetto di scambio, responsabile di analoghe aree semantico-semiotiche proiettate in un’aura di pace acquisita, di lotte, speculazioni, notizie ottenute, riconoscimenti; il successo comunicativo evocato dall’autore nel lettore sussiste non tanto nel contenuto di dati ricevuti, quanto nel recepire questa serie di messaggi privati o collettivi, parziali o forse totali, all’interno della parola, non solo detta, ma alla quale il contesto assegna il merito di poter essere creduta. Ed ecco, apprendiamo:

C’era un ragazzo che portava scritto sulla sua maglietta gialla ‘violence and aggression’, ma aveva occhi miti e mansueti e un fare flemmatico.

E ancor prima:

Da uno scompartimento vicino arrivò una ragazza con i capelli rosa. Mancava giusto una così, con in testa una tinta artificiale, perché le diverse etnìe erano già tutte presenti con la varietà dei colori di pelle e di pelo inventata dalla natura. Dal punto di vista cromatico i passeggeri del treno erano pressoché al completo.

Ma tale ordine di pensiero, di riflessione - pare suggerire Lauro Zuffolini - siamo certi che si allinei, comunque, al profilo narrativo dei testi? Infatti, sorge il dubbio:

Il treno procedeva a velocità elevata e lui si sentiva rilassato, quasi cullato dai ritmici movimenti di quella macchina. L’unico inconveniente era rappresentato dalla difficoltà di scrivere. Era solito annotarsi pensieri e riflessioni su dei fogli bianchi che portava sempre con sé, come in una sorta di diario dell’anima, ma in quella circostanza gli uscivano dalla biro solamente dei caratteri tondeggianti e arzigogolati, simili all’alfabeto urdu dei pakistani.

La domanda oltrepassa il particolare e rinvia direttamente al generale: è vero o falso ciò a cui assistiamo percorrendo il fil rouge di una narrazione? Il semiologo lituano Algirdas J. Greimas, nell’introduzione all’opera Del Senso 2, rileva come al concetto fondamentale di verità del narrato si vada sostituendo e affermando sempre più quello di efficacia, traslando dall’essere delle cose al loro farsi. Un passo del ragionamento di Michele testimonia questa inversione di rotta:

Un flash mentale lo riportò ai tempi dell’università, quando sul treno che lo portava a Bologna si chiedeva, nell’incapacità di prevedere il suo futuro, a quali stazioni della vita sarebbe sceso, facendo varie ipotesi del suo lavoro. Invece cominciò a pensare, quel sabato, quanto mancasse al capolinea.

Un ulteriore strumento cognitivo utile a decifrare la narratività del testo di Zuffolini è la semiotica di Charles Sanders Peirce: come spiega il traduttore e curatore Massimo A. Bonfantini, essa è basata sul «primato attribuito alla realtà esterna rispetto al soggetto umano nel processo della conoscenza». Dunque, l’oggetto è il primo motore del meccanismo conoscitivo (semiosi), nel senso che determina il segno e anche colui che lo interpreta.  E quando Peirce parla di «cooperazione di tre soggetti», Bonfantini commenta: «Nella catena oggetto-segno-interpretante, il passaggio dall’uno all’altro non è meccanicamente determinato, ma avviene in virtù di una mediazione creativa».
Nell’articolazione del racconto Per Cattolica binario 5, un simile “valore aggiunto”, il fulcro in grado di spostare i gradi del sapere quotidiano è la voce esplicita in campo dell’autore, capace di mediare tra l’interpretante (Michele) e l’oggetto del narrato (il contesto). Il procedimento incrementa un continuo, avvincente progress:

Il sole finalmente riuscì a bucare le nuvole.
Così le prospettive cambiavano.
Ma si era ormai al tramonto.
Come poteva vivere, Michele, quei giorni e quella stagione della sua vita?
I saggi avrebbero sentenziato che occorreva scorgere nella avversità il manifestarsi di opportunità sempre nuove. Ma Michele non si sentiva saggio e a volte pensava che i saggi non avrebbero immaginato in quali e quanti casini si trovasse Michele stesso.

Il caos evocato affiora voluto e cosciente, e tuttavia il plot risulta cadenzato dalle fermate del tragitto ferroviario (Modena, Bologna, Forlì, Cesena, Misano), come fossero clausole di un contratto che, avendo intrapreso il viaggio, siamo costretti ad accettare, quasi trapelasse un’illusione convenzionale, un indizio di traccia provvisoria prima o poi destinata a svelare il mancato atto cognitivo finale:

Di illuminazioni proprio non ne ebbe o forse non se ne accorse.
E per poco non scese per sbaglio alla stazione di Misano, quella prima di Cattolica.
Aveva già i piedi sul predellino.