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domenica 10 maggio 2020


Cinzia BALDAZZI – "La notte degli angeli", romanzo di Andrea Lepone





Andrea Lepone
La notte degli angeli
Roma, edizioni Aracne 2020
pp. 112, € 8,00

  
Non accade spesso di leggere romanzi contemporanei all’altezza di implicare, nel groviglio di errori compiuti, una via d’uscita sotto forma di redenzione. Nell’epica antica, laddove il tempo scorreva ignoto, il passato non esisteva oppure era presente. Oggi, nella coscienza del già trascorso, l’insieme degli eventi accaduti deve essere rimosso per non deludere aspettative inadatte al divenire: scaturisce così impellente l’impulso espositivo finalizzato a rendere l’agire dei personaggi dialettico e dinamico, nonostante di frequente sia restituito nella narrazione in tracce frammentarie e discontinue.
In tale Weltanschauung (“visione del mondo”) ben si inserisce La notte degli angeli, con un plot intervallato dagli intenti malvagi, dalla dimensione onirica, dalla forza ricavata da alibi intimi, dalla trasgressione. Pertanto, nel romanzo del giovane scrittore Andrea Lepone l’atto del raccontare si articola policentrico, destrutturato, a più prospettive, capace di esprimere differenti prerogative del vero: ognuna di esse protesa al riscatto, anche in un’ipotetica riconferma perversa del male deviante. L’esposizione consequenziale dei fatti è affidata a tre distinte voci narranti: Steven, libraio di giorno, taglieggiatore di notte; Laura, cameriera in un ristorante; infine, il Capo, alla testa di una banda di malviventi. Su venti capitoli complessivi, dieci sono affidati a Steven, sei a Laura, quattro al Capo.
La notte degli angeli esibisce dunque una struttura romanzesca basata sulla pluri-discorsività, con l’atto di parola individuale messo sotto esame dalla parola letteraria in quanto eventuale resoconto dell’insieme illustrato. Nella ricerca delle costanti interne al romanzo (delle “istituzioni”, direbbe Luciano Anceschi), lo studioso russo Michail Bachtin spiegava:

Questa autocritica della parola è una peculiarità essenziale del genere romanzesco. La parola è criticata nel suo rapporto con la realtà: nelle sue pretese di riflettere veracemente la realtà, di governare la realtà e di riorganizzarla (pretese utopiche della parola) e di sostituire la realtà come un suo succedaneo (il sogno e l'invenzione che sostituiscono la vita).

Nelle prime pagine, Steven confessa:

Personalmente, ero consapevole di tutti i miei errori, ma li ritenevo necessari.

Più avanti, il compare David (nella veste di tre differenti identità), dopo aver mostrato a Steven la foto dei suoi figlioletti, spiega:

Ecco perché lo faccio. Ci saranno sempre il bene e il male, ma non saranno loro a definire il mio destino. Sarà la mia lotta personale, combattuta nel mezzo, a farlo. Perché, se io dovessi smettere di lottare, ogni cosa perderebbe di significato. Combatterò per mantenere accesa la luce; se mi arrendessi, resterebbe solo un mare piatto, privo di onde, pronto a sommergerci… pronto a rivelare la nostra vera natura.

In una classica unità di tempo, ovvero dalla sera alla mattina dopo, assistiamo al frantumarsi contestuale delle unità di azione (incontri casuali, scontri a fuoco, sequestri, imboscate, ritrovamenti) e di spazio (gli appartamenti, le strade, i locali). Si incrociano le vicende di vari individui, uomini e donne, vittime o esecutori della criminalità organizzata, sia pure in vesti differenziate e coesistenti. Due di essi, Laura e Steven, gestiscono apertamente l’area bifacciale di “creature” di stampo pirandelliano, mettendo in luce, nella vita, molteplici caratteristiche di se stessi; qualcun altro (di cui, per non incorrere nello spoiler, è meglio non anticipare il nome) è il contrario di quanto appare; altri ancora si pentono del proprio operato, oppure confermano di non averlo compreso in certe sfumature.
L’importanza fondamentale del testo di Andrea Lepone è probabilmente da attribuire alla costruzione letteraria di un rapporto per necessità di cose inadeguato tra psiche e margine reale, nel senso che l’anima possiede orizzonti più ampi, nel bene o nel male, dei destini consentiti e offerti dal vissuto.
Il nucleo problematico e il progredire dell’intreccio risiedono allora in superficie, in una volutamente confusa successione di flussi di coscienza, di riflessioni sullo stato d’animo, accompagnate a una dettagliata analisi psicologica che, nell’ambientazione sapientemente notturna, prende il posto di una trama strutturata.
In un passo della prefazione alla Teoria del romanzo, del filosofo e critico letterario ungherese György Lukács, il professor Alberto Asor Rosa così commenta:

Il romanzo rappresenta dunque, per così dire, un ponte (formale-conoscitivo) lanciato sopra l’abisso verso nuovi continenti dello spirito, pur nella piena coscienza non trattarsi in nessun modo di un processo lineare e predestinato, bensì, anche in questo senso, di un’avventura rischiosa oltre i confini dell’incalcolabile. 

Nelle pagine del libro di Andrea Lepone, le colpe si “lasciano andare”, quasi nulla fosse. La notte degli angeli è una sorta di dramma dell'ossessione e della predestinazione, dove il passato è sempre lì, con il suo fardello di colpe ed errori. È sempre Steven a parlare:

Accettare le conseguenze delle nostre vili azioni non era affatto facile. Parlavamo spesso di scelte, di bivi, immaginavamo una realtà alternativa. Ci confrontavamo sulle nostre aspirazioni, prima che la vita ci mettesse di nuovo al tappeto, togliendoci qualunque barlume di speranza. Anelavamo ad una pace interiore che non avremmo mai sfiorato, imbrigliati in un’esistenza corrotta che non ci avrebbe lasciato scampo. Ma non potevamo mollare, io stesso avevo sacrificato parte della mia umanità per le persone che amavo e non sarei tornato indietro.

Out of the past si intitolava uno dei più grandi film noir mai girati (e il distributore italiano, cambiandone il titolo in Le catene della colpa, ne rispettò il senso). Il richiamo di Lepone alla tradizione del romanzo nero è tangibile, sia nell’accoglierne tematiche circostanziali e di base, come l’auto-colpevolizzazione dell’eroe, sia nei distanziamenti, là dove il tormento interiore non si traduce mai in pulsione auto-distruttiva o nei punti in cui l’autore elude le efferatezze tanto frequenti negli esiti dell’hard boiled.


Ne La notte degli angeli la verità è nascosta, non invisibile. Steven, Laura e David, tra mille esitazioni, impareranno a vederla distinguendo le colpe dalle bugie: smascherare queste ultime è il compito di chi intende assegnare un valore di giustizia alla verità.
Nelle istanze del racconto noir accolte da Lepone, le peripezie affrontate dai personaggi cambiano la consapevolezza della realtà. Esemplare è la parabola di Steven:

Ero a due passi dal baratro e avevo solo due possibilità: precipitare negli inferi o arrampicarmi sino al paradiso, scalando vette sconosciute, riservate a pochi angeli eletti. Angeli che un tempo urlavano come diavoli nelle tenebre.

Simili riflessioni emergono al fine di promuovere una mèta positiva, ricostruttiva delle empasses evidenziate dallo stesso pensiero negativo:

Presi a camminare, avvolto dal gelo della notte. La mia ombra era la sola compagna di viaggio di cui disponevo. Ero solo e avevo un’importante decisione da prendere. Una scelta che avrebbe segnato il mio destino. Di fatto, ero ad un bivio: lasciare che gli eventi scorressero imperterriti, o marchiarli con la mia impronta. Avrei davvero rischiato tutto per riscattare la mia vita, o meglio, la mia anima? Non ne avevo la certezza. In gioco c’erano la salute e il benessere dei miei familiari.

La ricerca in atto consiste in un’unica versione autentica in grado di voltare le spalle al contesto lacerato, sulla scia di concrete utopie liberatorie. Analizzando le forme ricorrenti delle strutture romanzesche, Asor Rosa ne individua una particolarmente aderente al discorso qui sviluppato:

Il romanzo è qualcosa di più persino del genere letterario in cui la nostra condizione spirituale esemplarmente si riflette: esso è il simbolo di un’avventura che va al di là della forma, è l’immagine del nostro riscatto tradotta in umane storie operanti.

In chiave di lettura parallela, l’anti-eroe di Andrea Lepone diventa allora paradigmatico nelle sue riflessioni:

Sentivo il bisogno di redimermi, di fare la cosa giusta. Non sarei mancato all’appuntamento, sebbene mi fosse chiaro che mi sarei irrimediabilmente cacciato nei guai.

Scrive Federica Casoli nel suo commento:

Il libro è un thriller con contaminazioni noir, dalla trama lineare quanto frammentata, per nulla sprovvista di sorprese, che racconta le vicende di tre uomini impegnati nel riscattare la propria esistenza, ognuno attraverso un proprio percorso interiore […]. Il significato ultimo di questa nuova opera di Andrea Lepone risiede dunque nella presa di coscienza delle più profonde azioni umane, nella consapevolezza del proprio destino.

Il percorso non ha certo i connotati della linearità. In tutto ciò risulta decisivo cogliere il continuo, anche se unitario, scorrere del tempo, che può e deve, con il nostro aiuto, cambiare le circostanze. Sfondata la dura parete del passato, trascinati nell’attualità, traspare una totalità di stati d’animo legati al fato, all’imprevisto, spesso avversi all’individuo. La giovane Laura confessa:

La forza d’animo che mi aveva permesso di fronteggiare le innumerevoli difficoltà della vita, i livori quotidiani e i rancori, era svanita. I miei occhi erano spenti, opachi, avevano smesso di ardere. Avevo combattuto troppe battaglie, ricevuto troppe delusioni. Fin da bambina, il peso dell’esistenza aveva gravato esclusivamente su di me.

L’essere e il destino (la τύχη greca), l’avventura e il compimento, il vivere e l’essenza umana non sono più coerenti, né coincidenti: si affidano sconfortati alle iniziative umane in un lungo viaggio a venire, che tuttavia non preannuncia il terrore inibitorio di abissi insormontabili. È quanto va accadendo a Steven:

Come annientare le debolezze umane? La mia guerra personale trascendeva le regole del mondo in cui vivevo. In quella notte catartica, affrontavo i demoni che si annidavano nel mio subconscio, respingendo orde fameliche di collerici mietitori. Il bilancio della lotta, uno scontro a dir poco impari, non risultava positivo per me; stavo già fumando una seconda sigaretta.

Per comprendere il messaggio principale de La notte degli angeli, sembra opportuno approfittare dei momenti eccezionali degli episodi sviluppati, saldandoli con il ritmo della quotidianità ripetitiva mentre emerge qua e là, intravedendo nelle figure, chi più chi meno, l’immagine definitiva dell’uomo e della donna proiettate in un carattere della vita sempre successivo. E la chiusura non può che essere affidata all’unico personaggio cui Andrea Lepone ha deciso di non dare un nome, ovvero il Capo:

«Non vi meravigliate di questo, poiché verrà l’ora in cui tutti quelli che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno; quanti fecero il bene per una risurrezione in vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna» disse in tempi remoti un uomo di fede.


Ringrazio Adriano Camerini per la collaborazione durante la stesura del testo.
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Andrea Lepone nasce a Roma il 22 febbraio 1995. Nel 2015 pubblica la sua prima raccolta  Poesie di una mente silenziosa (Kimerik), cui fa seguito, nel 2018, la silloge poetica Riflessioni in chiaroscuro (La Macina Onlus). Iscritto all'Ordine dei Giornalisti nel 2017, collabora con diversi quotidiani e periodici occupandosi di cronaca, cultura e sport. Vincitore di numerosi riconoscimenti letterari nazionali e internazionali, nel 2016 ha creato la rassegna culturale “La scrittura come esperienza di vita”, mentre nel 2019 ha dato vita al progetto “Poesia Gourmet Itinerante”. Ha scritto e diretto la commedia teatrale Fantasmi sotto sfratto. È presidente di giuria dei concorsi letterari “L'arte della parola - Premio Paolo Zilli”, “Il Macinino”, “Io scrivo… e resto a casa!”. Autore di favole, racconti e saggi, nel 2020 ha pubblicato il romanzo La notte degli angeli (Aracne). Appassionato di sport, è stato più volte campione nazionale, europeo e mondiale di powerlifting.





sabato 11 aprile 2020


Cinzia BALDAZZI – Il giorno di Pasqua tra passato e futuro


Quest’anno, il sopraggiungere della Pasqua di Resurrezione porta con sé un sentimento diverso. Personalmente, consiglio sempre di leggere molteplici poesie sul tema, delle quali la letteratura è ricca. A una di esse, firmata da Guido Gozzano, vorrei riservare particolare attenzione:

A festoni la grigia parietaria
come una bimba gracile s'affaccia
ai muri della casa centenaria.

Il ciel di pioggia è tutto una minaccia
sul bosco triste, ché lo intrica il rovo
spietatamente, con tenaci braccia.

Quand'ecco dai pollai sereno e nuovo
il richiamo di Pasqua empie la terra
con l'antica pia favola dell'ovo.


Implicati sulla preminenza del mondo animale e vegetale, dove la presenza umana è solo un termine di paragone («come una bimba gracile»), i versi di Gozzano, ormai lontani più di un secolo, hanno richiamato alla mente un episodio del 2009 della serie tv statunitense The forgotten, in cui lo sceneggiatore suggerisce quanto l’arte spesso intenda svolgere il ruolo di «conciliare il passato tangibile e tragico con un futuro intangibile e infinito». In una situazione reale “standard”, dove numerosi problemi sono importanti, alcuni input si propongono con singolare insistenza, sebbene - al pari della situazione attuale - il passo da intraprendere per soddisfarli coincida con l’attendere.
Il tema dell’attesa di un cambiamento, l’aspettativa di una modificazione vicina o lontana rispetto a quanto viviamo oggi, si propone in misura individuale e collettiva nella ricorrenza pasquale. L’arte in generale, e in particolare la letteratura, può contribuire a onorare la principale solennità del Cristianesimo, ovvero la Resurrezione, evento narrato nei Vangeli e collocato nel terzo giorno dalla morte di Gesù in croce: acclamando dunque, a piena voce, il superamento della morte intesa come conclusione estrema, drammatica e precoce della vita. Insomma, è proprio il caso, nel triste periodo vissuto da noi tutti, di augurarsi con tutto il cuore di tentare con ogni forza di “passare” anche noi oltre l’attuale, sciagurata barriera del male.


Confinati a casa in queste settimane, spesso provati da tensione emotiva, avvertiamo come la nostra psiche sia soggetta a sfidare la prova della solitudine e dell’isolamento dalla collettività. Magari non ne abbiamo bisogno, però se coltivassimo l’utopia di un conforto grazie all’aiuto del padre della psicoanalisi, sottolineo la “coincidenza” relativa a Sigmund Freud, impegnato ad aprire il primo studio privato a Vienna proprio nella domenica pasquale del 1886. Aveva appena ricevuto l’incarico di dirigere il reparto di neurologia dell'ospedale pubblico per bambini.  Prese in affitto un locale in Rathausstraße 7, vicino all’Università e alla Ringstraße. Solo pochi mesi dopo, ormai sposato con Martha Bernays, trasferì studio e appartamento nella Casa della Fondazione Imperiale non distante da Berggaße.
Per molti personaggi della storia, in epoche diverse, la festività pasquale si è configurata quindi nelle modalità di una giornata di lavoro o di studio. Penso all’immancabile Immanuel Kant, che la madre, Regina Dorothea Reuter, iscrisse al Collegium Fridericianum proprio il giorno di Pasqua del 1732, pochi giorni prima del suo ottavo compleanno (Kant ne uscirà sedicenne). La genitrice era seguace assidua del pietismo, una forma di protestantesimo interiore, individualista, e trasmise al bambino un’educazione religiosa molto esigente. Il direttore dell’istituto era diventato da poco Franz Albert Schultz, allievo di Christian Wolff, illustre esponente del pietismo nonché professore di teologia: fu lui ad aiutare finanziariamente, così come fecero vari amici di famiglia, gli studi dell’indigente ragazzo che “prometteva bene”!


La festa della Resurrezione ritorna nella vita del filosofo di Königsberg molti anni dopo, in una lettera inviata all’austriaco Karl Leonhard Reinhold tra il 28 e il 31 dicembre 1787:

Al momento mi sto occupando della critica del gusto. In questa occasione ho scoperto un tipo di principi a priori nuovo rispetto ai precedenti. Le facoltà della mente sono infatti tre: facoltà conoscitiva, sentimento di piacere e dispiacere, facoltà di desiderare […]. Cosicché ora riconosco tre parti della filosofia, ognuna delle quali ha i propri principi a priori […]. Spero di avere pronto verso Pasqua, con il titolo Critica del gusto, il manoscritto.

Ma la bella sorpresa dentro l’uovo kantiano dal finissimo cioccolato gnoseologico, ovvero la rinomata Critica del Giudizio, si farà aspettare altri due anni…
Aspettiamo quindi anche noi, giungendo al 1826, allorché Giacomo Leopardi, assai legato alle tradizionali, rituali uova sode (uso gastronomico antichissimo, radicato nella regione della sua Recanati), scrisse alla sorella Paolina:

Salutami il curato e Don Vincenzo, e dà loro a mio nome la buona Pasqua, che io passerò senza uovi tosti, senza crescia, senza un segno di solennità.

Due anni dopo, fornirà alcuni consigli dettagliati:

A proposito di Pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le strapazziate quest’anno: mangiatevele senza farle patire, e non siano tante.


Le ricerche su consuetudini e rituali popolari hanno sempre messo in luce l’elemento della “partecipatività” alle feste, religiose o meno, rispetto ai possibili ruoli e contenuti proposti. Ha spiegato la studiosa Laura Tussi:

L’istituto festivo è la riaffermazione e al contempo negazione dell’ordine sociale esistente, in un mondo che riproduce il tempo della vita quotidiana per affermarlo, negarlo e, infine, migliorarlo; è un hortus conclusus, uno spazio/tempo, luogo dell’anima, un ambiente magico dove si partecipa ad un lavoro di preparazione svolto collettivamente.

Sono parole idonee a inscrivere la festività pasquale in un contesto etno-antropologico, non diverse da quanto andava affermando il filosofo e critico letterario russo Michail Michailovič Bachtin quando sosteneva come il momento celebrativo del rito abbia rapporto con gli scopi superiori dell’esistenza umana: la rinascita, il cambiamento, il rinnovamento, la rigenerazione.
Ascoltare tali parole, di conseguenza, è il meglio che possa capitare ora. Un autore contemporaneo, Giovanni Salzano, afferma:

È Pasqua ogni volta che ridi dopo aver pianto. Ogni volta che rinasci dopo aver creduto di essere morto. Ogni volta che perdoni un amico, che canti in macchina e che ti piaci ancora. È Pasqua quando pensavi di non farcela. E invece vivi, malgrado tutto. 


In un’epistola di Sant’Agostino si esemplifica magistralmente il culto della Pasqua. Il Vescovo di Ippona e Dottore della Chiesa aveva indirizzato l’epistola all’amico Gennaro nel 400 d.C.:

Noi quindi celebriamo la Pasqua in modo che non solo rievochiamo il ricordo d'un fatto avvenuto, cioè la morte e la risurrezione di Cristo, ma lo facciamo senza tralasciare nessuno degli altri elementi che attestano il rapporto ch'essi hanno col Cristo, ossia il significato dei riti sacri celebrati. In realtà, come dice l'Apostolo, «Cristo morì a causa dei nostri peccati e risorse per la nostra giustificazione» e pertanto nella passione e risurrezione del Signore è ìnsito il significato spirituale del passaggio dalla morte alla vita. La stessa parola Pascha non è greca, come si crede comunemente, ma ebraica, come affermano quelli che conoscono le due lingue; insomma il termine non deriva da "passione", ossia "sofferenza", per il fatto che in greco "patire" si dice πάσχειν, ma dal fatto che si passa, come ho detto, dalla morte alla vita, com'è indicato dalla parola ebraica: in questa lingua infatti "passaggio" si dice Pascha, come affermano i dotti. A cos'altro volle accennare lo stesso Signore col dire: «Chi crede in me, passerà dalla morte alla vita»? Si comprende allora che il medesimo evangelista volle esprimere ciò specialmente quando, parlando del Signore che si apprestava a celebrare la Pasqua coi discepoli, dice: «Avendo Gesù visto ch'era giunta l'ora di passare da questo mondo al padre» etc. Nella passione e risurrezione del Signore vien messo dunque in risalto il passaggio dalla presente vita mortale a quella immortale, ossia il passaggio dalla morte alla vita.

Tra le illustri ricorrenze pasquali della storia cristiana riportiamo quella del 774, quando Carlo Magno, approfittando della facilità con cui procedeva l’assedio di Pavia (dove si era rinchiuso Desiderio, re dei Longobardi), con la terza moglie Ildegarda e i figli viaggiò verso Roma per trascorrere la Pasqua. Giunto nella giornata del sabato santo, il re dei Franchi venne accolto dal clero e dalle autorità cittadine in un clima maestoso; lo stesso pontefice Adriano I lo incontrò sul sagrato di San Pietro. Lì venne suggellata, con un solenne giuramento, un’amicizia personale e politica: il Papa, da parte sua, ebbe da Carlo cenni rassicuranti sulle richieste di donazione al Vaticano dei territori di Venezia, Spoleto, Benevento e Istria caduti in mano longobarda.


Nel 781 Carlo decise di riprendere la via dell'Italia per stipulare una nuova alleanza con il Pontefice, chiedendogli di consacrare i due figli Carlomanno e Ludovico il Pio. La cerimonia avvenne, di nuovo a Roma, nella Pasqua di quell’anno. Il giorno prima, il Sabato Santo, aveva fatto battezzare entrambi gli eredi - cambiando il nome di Carlomanno in Pipino (come il nonno) - e papa Adriano I ne era stato il padrino. Nell’occasione, mantenne quanto promesso alcuni anni prima, donando al papa molti territori sottratti ai Longobardi: la Sabina e Rieti, alcune città della Toscana, Tivoli, la Tuscia e il ducato di Perugia, il ducato di Spoleto. Si estesero così i domini del Vaticano nell’Italia centrale, contribuendo a creare il nucleo del futuro Stato Pontificio.
Oggi, superato ormai il potere temporale della Chiesa, ma comunque forti del suo concreto messaggio di “buona novella”, cerchiamo dunque di andare “oltre” tutti insieme, nell’auspicio si possa rinnovare il sorriso, nei cuori e nell’anima, anche in chi l’ha perso da tanto; oppure, con le parole della scrittrice francese Simone Weil, nella speranza che il futuro entri in noi «molto prima che accada». E allora, buona Pasqua.



Ringrazio Adriano Camerini per le ricerche bibliografiche e iconografiche.