domenica 2 giugno 2024

Cinzia BALDAZZI - “Le rose novembrine”, poesia di Isabella Sordi

  

Care amiche e cari amici, in un recente incontro di poetesse e poeti da me organizzato a Roma, molte partecipanti hanno dedicato i loro componimenti al tema della violenza e del femminicidio. In quell’occasione, trovandomi a parlare con l’amico Sorin, ribadivo a lui la mia completa solidarietà alle donne. Lui ha risposto: «Cinzia, tu non sei dalla parte delle donne. Tu sei dalla parte della poesia».

Perché ho raccontato questo episodio? Come sapete, in questi anni ho scelto e analizzato singole poesie dedicate alla violenza contro le donne e alla loro morte violenta, sia per uccisione sia per tossicodipendenza. Ma erano tutti componimenti di autori uomini.

Oggi, finalmente, propongo la poesia di una donna, la brava autrice Isabella Sordi con i suoi versi dal titolo Le rose novembrine. Spero che i luminosi spazi della vostra mente possano ospitarli entrambi. 

 

Le rose novembrine

di Isabella Sordi

 

Mi fanno tenerezza

le rose novembrine,

serrano le corolle,

affilano le spine.

 

Sfidano il vento e il gelo

crudele, dell'inverno,

quello che, poco dopo,

le porterà all'inferno.

 

Vestono di rubino

e d'un rosso magenta,

è sangue che scolora

in una morte lenta.

 

Così come le rose

che perdono il colore

sono le donne sole

uccise dall'amore.

 

Le rose novembrine

mi fanno tenerezza,

non sanno che si può

morire di bellezza. 

 

 

Il nome delle rose

Bellezza e morte nei versi di Isabella Sordi

 

di Cinzia Baldazzi 

 

 

La violenza contro le donne

non è un problema esclusivamente femminile

e deve essere aggiunta

alla lista dei reati sancita dai trattati.

Ursula von der Leyen

  

   Anche a voi sarà accaduto di incontrare poesie associate nell’immediato all’esclamazione, scontata e poco esplicativa, di “incantevole”. Quando entro in uno stato d’animo analogo, il risultato consiste nell’approdare subito a uno stato di angoscia, di inquietudine, sebbene il componimento - come invece questa volta - non lo suggerisca. In breve, il dialogo interiore è il seguente: «Ma quale incanto… I poeti non hanno la bacchetta magica!». Sono infatti trascorsi svariati secoli dall’epoca in cui la ποίησις (pòiesis) ha iniziato a vivere svincolata dal rito cultuale-religioso, suo promotore nella notte dei tempi.

   Ho potuto “cogliere” le rose novembrine nell’autunno del 2023, incontrando Isabella Sordi in un premio letterario da me gestito nella veste di Presidente di Giuria: quel giorno, l’associazione I Percorsi delle Muse, tra gli organizzatori del concorso, assegnò al testo un riconoscimento speciale.

Perché lo racconto? Per condividere il fatto di averlo apprezzato in un equo asse referenziale meritocratico, criticamente documentato, non incline tout-court a una gerarchia di valori dove trovasse posto un giudizio perlopiù legato all’“incanto” ineffabile della beltà dei versi. Vari decenni sono stati impegnati nel dibattito sull’esistenza o sulla qualità della “bellezza in sé”, decisiva o ingannevole rispetto a un approccio di metodologia critica: ciononostante, ritengo l’argomento abbastanza d’antan, dunque nelle mie riflessioni chiamerò in causa il concetto di una “bellezza poetica” autonoma, nondimeno attinente a un messaggio, a una fonte significativa, umana, quindi concreta.

   In un ambito affine ho considerato pregevole Le rose novembrine, peraltro distratta dall’approfondimento specifico a causa di diverse attività in corso; il giorno dopo, comunque, ospitando l’autrice al Dima Book Festival, chissà perché le chiesi, fuori scaletta, di recitare per noi la poesia vincitrice.

   Forse, però, ho insistito troppo: non siamo davanti a un mistero, in quanto, alla sola lettura dell’incipit, suppongo parteciperete senza difficoltà a un incantevole “fuori programma” di tale natura: «Mi fanno tenerezza / le rose novembrine, / serrano le corolle, / affilano le spine».

   Una simile opinione la coltivo poiché, alcuni minuti dopo aver letto il componimento, scoprirete la misura in cui gli ammalianti fiori autunnali, emblemi di «tenerezza», siano il simbolo persuasivo e immaginifico acquisito dall’ars poëtica della Sordi, propedeutico ad annunciare il tragico destino delle vittime di femminicidio. Altro che le «spine» sotto le «corolle»! Il sostantivo «tenerezza», forse obietterete, essendo rivolto a una commozione provata nei riguardi di persone in termini di pietà amorosa e compassione, può apparire un segnale appropriato nei confronti di donne forti, generose, sebbene alla fine abbattute: esse soffrono per sfidare, in sintonia alle rose, «il vento e il gelo / crudele» non dell’inverno, bensì dell’inferno della violenza assoluta e, in seguito a una morte lenta (nonostante in botanica, per la famiglia delle Rosacee, il mese di novembre sia assai propizio), smettono di vivere.

   Eppure, una tenderness parallela, più che associata alla disperata, ineffabile propensione ad accogliere il martirio di una brutalità estrema, coincide con l’icona epifanica di qualche tipo di riscatto ottenuto nel rifugio offerto dall’amore materno indissolubile. Quasi Isabella Sordi, in un “incantesimo” fondato su una precisa tecnica semantico-semiotica - in settenari ritmici cadenzati in cinque quartine - e non su un vago, unspeakable filo dal colore rubino, invitasse il lettore a “scrutare” le righe successive con gli unici occhi posseduti, obbiettivamente carichi di bellezza, quella vera, sempre salvifica, peculiare dell’affetto energico di una genitrice, di una μήτηρ (mèter) capace di interrompere con il suo sentimento totalitario il cammino del male. Come, vi chiederete? Di recente, lo scrittore statunitense Chuck Palahniuk ha dichiarato: «Dimenticare il dolore è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancora di più. La felicità non ci lascia cicatrici da mostrare». La grazia e il fascino degli ammalianti campioni floreali viaggiano oltre le profonde cicatrici della furia e degli abusi.

   Nel tentativo di verificare l’ipotesi formulata all’inizio, vale a dire che nell’opera della Sordi l’intento creativo sia di risarcire utopicamente, per mezzo di una testimonianza a carattere lirico, un danno irreparabile, enfatizzo l’importanza di almeno due τόποι (tòpoi) retorici tali da poter confermare una lettura del genere, di certo correlata all’unione implicita, definitiva di forma-contenuto: piuttosto interessata, però, percorrendo l’alto sentiero allegorico del testo, a metterne in luce la prospettiva di allontanarsi, tramite scelte di un καλόν (kalòn) estetico, dalle abiette circostanze reali, non per ignorarle o sminuirle, piuttosto per sublimarne in alternativa la virgiliana pietas basata su rispetto, solidarietà e coraggio.

   Nel macrocosmo omerico, presentando le protagoniste dell’epos, l’aedo ne proclamava l’avvenenza, il κάλλος (kàllos) adeguato a renderle eterne: «E quando è pari a quella di Elena», afferma la grecista Eva Cantarella, «questa bellezza fa perdonare tutto: per Elena, bella come una dea immortale, dicono i vecchi troiani seduti presso le Porte Scee a guardare la battaglia, “non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri robusti… soffrano a lungo dolori”». Allora, dunque, a morire per la bellezza (femminile) erano gli uomini.

   Sopra ogni cosa, sottolineerei come, nella terza quartina, il rosso rubino (o magenta), colore per antonomasia del sangue, costituisca in qualsiasi scala di valore archetipica un segno di vita prima che di morte, evocando inoltre, nell’universo di riferimento orientale, la nuance per eccellenza di gioia e sensualità della coppia, oltre a significare vittoria nella novità, nella conferma di quanto l’arco del vissuto sia di continuo custodito, difeso a qualunque costo.

   In secondo luogo, allorché assistiamo al tormento subìto mentre esso «scolora» - oltre a tutto, a prezzo di una «morte lenta» - anche qui possiamo tornare a uno schema modellare consono a quello della madre (meglio: della Grande Madre), all’altezza di dissolvere in un’indistruttibile, coraggiosa utopia, contrassegno di lotta, non di vuota fantasia, il bisogno di compensare un’immane iniquità, poiché la legge giusta del divenire umano naturale lo consente.

   Ricordo le parole utilizzate nel 1947 da Max Horkheimer e Theodor Adorno nella chiusura del saggio sull’Odissea per illustrare la crudele uccisione delle ancelle di Penelope (regina “madre”) impiccate da Telemaco. Nel finale del Canto XXII si assiste agli spasmi di queste creature («coi piedi scalciavano; per poco, però, non a lungo»), dove Omero consola se stesso insieme agli ascoltatori (scrivono i filosofi: «sono in realtà lettori») con «l’affermazione provata che non è durato a lungo, un attimo e tutto era finito. Ma dopo quelle tre parole l’intimo flusso della narrazione si arresta». Interrompendo il corso del racconto, «esso impedisce di scordare le vittime, e scopre l’indicibile, eterno tormento di quel secondo in cui le ancelle lottano con la morte».

   Nei versi della Sordi, le martiri di femminicidio sono sciaguratamente decedute «essendo donne sole / uccise dall’amore». Tuttavia, «sole» in senso di “isolate”, “accessorie”, per fortuna nella storia del progresso le donne non sono mai state, poiché il loro ruolo ha sempre comportato grandi vantaggi generali per l’intera gens humana. L’archeologa inglese Margaret Ehrenberg ha rilevato: «Bisogna riconoscere il ruolo delle femmine, sia nel favorire una maggiore socializzazione della specie umana sia come prime insegnanti di innovazioni tecnologiche durante il lungo periodo infantile».

   In sostanza, risulta infondato l’archetipo endemico della donna indifesa, “domestica”, e dell’uomo, potente per le armi, intento a procurare, in misura esclusiva, il cibo per la sopravvivenza della famiglia. Di nuovo la Ehrenberg esemplifica: «L’evoluzione umana è stata sempre letta attraverso il ruolo dell’“uomo cacciatore”, con la creazione di armi ed utensili per catturare e macellare le prede. E che cosa faceva la donna nel frattempo? Rimaneva forse seduta in casa a girarsi i pollici, aspettando che l’uomo procacciasse il cibo e diventasse così più abile fino a trasformarsi in Homo sapiens-sapiens?». Niente affatto, perché il nostro genere, provvisto di cellule con doppio cromosoma X, sin dalle origini ha espresso propensioni operative altissime accanto a opzioni di natura sessuale autonome nello scegliere maschi amichevoli, inclini a spartire.

   Ancora oggi, nel componimento di Isabella Sordi, le incantevoli rose celebrate durante il mese dedicato ai defunti (prendendo il posto dei rituali crisantemi) acquisiscono sembianze muliebri per sostare qui con noi, mentre le scorgiamo continuare ad amare chi come loro ama, non solo grazie a un ininterrotto «diritto materno» della specie umana, nondimeno in virtù della costante fiducia, della fede nel rapporto erotico fondato sul preferire l’unione con uomini libera da vincoli aberranti di sottomissione. Non dimentichiamolo: per ottenerlo, le nostre paladine hanno affrontato «il vento e il gelo».

   Nella narrazione mitica, le figlie di Προτος (Pròitos, Preto) rifiutarono di prendere marito pur essendo state chieste in moglie, senza il loro consenso, da tutti i Greci: per aver disprezzato Ηρα (Èra, sorella-sposa di Zeus), dea protettrice del matrimonio, e Διόνυσος (Diòniusos), dio iniziatore, furono aggredite da una malattia in grado di causare la perdita dei capelli e lo scolorire della pelle in chiazze bianche («Così come le rose /che perdono il colore», scrive Isabella Sordi). Per disgrazia, queste sorelle annientate, lasciate sole, nella poesia identificano ancora l’atto di amare con il “bello” della vita, del Creato: di conseguenza, allo scopo di difenderlo, di far sì che continui a sussistere, sono rassegnate ad abbandonare l’esistenza per amore, a «morire di bellezza». Purtroppo, il sentimento dellρως (èros) per cui sono cadute, dalla parte opposta si era manifestato unicamente in termini di ferocia, di perversione, frutto di disuguaglianza, magari di sfruttamento, il tutto mascherato da formalità retoriche, ambigue, contraddittorie.

   Vorrei concludere rispondendo all’appello dell’incantevole poesia (ricordate?) nella speranza che, nell’atroce dolore sofferto lungo l’intervallo del θάνατος (thànatos) - lungo? breve? - le rose della Sordi, sbocciate in autunno, abbiano rammentato quanto, nella notte dei tempi, per fare del male a un individuo si ricorresse al gesto di colpire un suo modello, ad esempio romperlo per imitarne la morte, o infilzarlo di spilli per provocarne ferite profonde. Tuttavia - le nostre rose lo sanno bene - il modello così costruito serviva anche per azioni buone, ideate per guarire o guadagnare prosperità. Il sacrificio delle donne-rosa equivale proprio a questo: al tentativo, come hanno potuto, di opporsi agli assassini per impedire che essi seguitassero a uccidere. Un sincero “grazie” quindi a loro, e a Isabella Sordi che non ha voluto dimenticarle per condurle a noi in un illuminante “incanto”. 

 

Si ringrazia Adriano Camerini per l’assistenza nel corso della stesura del testo. 

 

 


 

Isabella Sordi, nata a Udine, residente a Mestre, è stata per vent’anni docente di Letteratura Inglese nelle scuole superiori. Si è dedicata alla poesia fin dall’età di otto anni: «Ho ancora il ritaglio della rivista “Amica” su cui pubblicarono alcuni frammenti di mie poesie con giudizio positivo. Ero quindicenne e tra i giurati c’era Dino Buzzati».

Ha pubblicato le sillogi poetiche Un Dio felice (Vitale, 2002), Sopra i cieli di Berlino (Arezzo, 2013) e In un vorticoso tango (2022), questi ultimi editi da Helicon. «Mi piace sperimentare la scrittura in altre lingue: ho scritto poesie in inglese, spagnolo, friulano e nei dialetti veneto e romanesco».

Collabora attivamente con vari gruppi culturali di Mestre e di Venezia attraverso letture, incontri e conferenze. Con l’associazione La Torre di Mestre, dal 2018 in poi, ha contribuito ai reading poetici “Attorno a una panchina rossa”, contro la violenza sulle donne.

È membro della Writers Capital Foundation e della International Academy of Ethics. Ha organizzato il Premio Letterario Intercontinentale “Le Nove Muse” a Mestre, nel 2022, del quale è stata Presidente di Giuria.

Ha conseguito numerosi primi posti in concorsi nazionali e internazionali tra cui “Dino Boscarato” (2008), “Città di Acqui Terme” (2009), “San Marco” (2010) e “Certamen Apollinare Poeticum” (2023), nonché vari premi speciali tra cui “Scrittore dell’anno” alla Rassegna Letteraria Olympus e “Writer of the Year 2023” alla Writers Capital Foundation.

La poesia Le rose novembrine ha ottenuto il Premio Speciale “I Percorsi delle Muse” nel 2023 a Roma al concorso “I colori delle parole”.

 

 

 

 


venerdì 26 agosto 2022

 

Cinzia BALDAZZI – Francesca Peronace e i Sentieri nascosti di donne

 

 


 

Francesca Peronace

Sentieri nascosti di donne

Macerata, Edizioni Simple, 2020

pp. 116, € 14,00

 

 

   Essendo una donna, leggere un libro creato da una rappresentante del mio genere, inoltre rivolto ad affascinanti figure - famose o sconosciute alla maggioranza - avrebbe potuto comportare un esercizio critico difficile da mantenere su un piano di ampia serenità di giudizio, così com’è giusto sia quando la lettura non intende offrire un poco utile, esplicito criterio di piacere o dispiacere rispetto al testo: piuttosto, lo scopo sarebbe di delinearne una ipotetica mappa ermeneutica essenziale, magari proficua per molti. Affinché ciò accada, l’esegesi proposta non deve lasciarsi totalmente persuadere da attitudini di gusto naturali o storiche scontate: in procinto di sfogliare le pagine, l’incipit utopico di valutazione dovrà coincidere - per uniformarsi all’atmosfera matematica preminente nell’intera opera - con uno “zero” comune di partenza alimentato da scelte certo di indole soggettiva, però motivate da una cultura in progress, non condizionata.

   Ebbene, a questo punto posso affermare di aver apprezzato i Sentieri nascosti di donne di Francesca Peronace non perché sia collegata anche io all’estesa famiglia femminile, bensì in quanto tra le righe ho individuato messaggi etici, intellettuali, operativi, scientifici, di fratellanza, appartenenti a “sorelle” fautrici assolute della Natura, se non della Società.

   Tra le dèe dell’epoca antica ho sempre amato Atena (in attico θην, Athēnâ), l’icona greca della sapienza, dell’ars, della strategia in battaglia,  che vorrei credere paladina in particolare delle scienziate raccontate dalla Peronace, ossia Maria Gaetana Agnesi, Mileva Maric’ e Marie Sklodowska Curie: ma soprattutto di Ipazia di Alessandria (cui la scrittrice dèdica un’appassionata apertura): la sua breve vita si svolse tra il IV e il V secolo d.C., in un’èra di tramonto delle divinità classiche e di pieno dominio del Cristianesimo.

 

Ipazia


   Di Pallade (Παλλάς θην) troviamo testimonianza primaria su una tavoletta micenea in lineare B, Atana potinija, mentre l’epiteto più arcaico, quello omerico, corrisponde a “Glaucopide”, cioè “dagli occhi verdeazzurro” come la civetta, emblema adottato per indicarla poi sulle dracme ateniesi. In ogni caso, l’ammaliante dèa dell’Olimpo proteggerebbe tutte le protagoniste dei sentieri percorsi dalla nostra autrice (incluso l’eccezionale genio matematico Evariste Galois, unico uomo inserito nel libro). Del resto Minerva (il suo nome latino) per un verso possiede prerogative schiettamente muliebri, per l’altro esibisce in grande misura propensioni mascoline, poteri attribuiti all’uomo dalla tradizione. 

   La vergine, abitante dell’altissima montagna della Grecia (tra la Tessaglia e la Macedonia), che non subisce il giogo del matrimonio né ha esperienza dell’incontro sessuale, nasce da Zeus senza bisogno nemmeno di una madre, tanto vuole sembrare libera dai pesanti legami ancestrali correlati alla γυνή (ghiuné) nella famiglia: secondo il mito, Zeus sposò Metis, la Sapienza, per inghiottirla, rilevandone quindi l’intelligenza; al momento propizio, Efesto frantumò la testa del dio con un colpo di scure e da lì balzò fuori la Dèa, già adulta e ben armata.

   Ringraziamo Francesca Peronace per aver dato “voce da donna” alle donne, in linea con l’indimenticabile Gaspara Stampa allorché raccomandava con sapienza alle sue lettrici femminili le grazie di un illustre signore: «Ma, s’ella è donna, non s’affissi molto, / ché resterà subitamente presa / fra mille meraviglie del volto». Simili versi ben si addicono al racconto dedicato da Francesca all’avvocato Ortenzia, uno dei quattro personaggi femminili (insieme a Carmela la sarta, Anna l’insegnante, Samantha la ballerina) «di pura fantasia, che esercitano i mestieri più disparati, che hanno vite differenti e collocate in ambienti diversi, anch’essi di fantasia». Nel cuore della narrazione, leggiamo di un abbraccio meraviglioso, affidato da Ortenzia alle parole di Pablo Neruda: «Altre volte ancora un abbraccio, se silenzioso, / fa vibrare l’anima e rivela ciò che ancora non si sa / o si ha paura di sapere. / Ma il più delle volte un abbraccio / è staccare un pezzettino di sé / per donarlo all’altro / affinché possa continuare il proprio cammino meno solo».

 

Maria Gaetana Agnesi

 

   Leggendo le storie della Peronace, il pensiero va all’inglese Henry Moore, conosciuto per le sculture in bronzo semi-astratte di rilevanti dimensioni (accolte come opere d’arte pubbliche): nel suo macrocosmo, ovviamente di chiave maschile, ha voluto acquisire come leitmotiv l’archetipo materno dei dolmen. Il dolmen è una tomba megalitica preistorica a camera singola la quale, insieme al cromlech (come a Stonehenge) e al menhir, costituisce l’esempio più noto tra i monumenti megalitici. La realizzazione dei dolmen viene collocata nell’intervallo di tempo tra il V millennio a.C. e la fine del terzo,  e nello schema si intravedono i temi fondamentali dell’essere madre nel suo habitat naturale, il cielo, la terra verde, la pietra: «Il cielo rimanda a qualcosa di sacro, al miracolo della vita», scrive la studiosa Roberta Franchi, «la terra è il simbolo cosmico del grembo materno, della fecondità; la pietra sta a indicare che la maternità radica l’individuo, è la cava da cui ogni essere viene alla luce».

   Il lessico delle testimonianze romanzate dalla Peronace risulta molto intenso e, in Elisa e Gianna (due donne una storia), quando la protagonista dichiara «Mi sento svuotata, i sogni, le speranze, i progetti, la vita mi si sbriciolano tra le mani», in un primo momento soffriamo con Elisa, in seguito comprendiamo che, comunque sarà l’epilogo della vicenda contenuta nel diario, la facoltà di mettere al mondo altre creature - sulla quale si sono misurate filologia, filosofia, biologia, mito, teologia - rappresenta uno dei pochi valori indiscussi dell’iter umano: per rimanere in ambito pre-storico, pensiamo allora a Çatalhöyük e Hacilar nell’Anatolia centrale, i cui siti neolitici suggeriscono la presenza di potenti figure femminili, di γυναίκες (ghiunaikès) all’altezza di giocare un ruolo consistente nell’immaginario religioso della comunità.


Maria Skłodowska Curie

 

   Nelle note introduttive a Sentieri nascosti di donne l’autrice dichiara: «Ancora oggi, malgrado molte donne occupino ruoli di prestigio, si parla al maschile». Dopo aver apprezzato gli esempi in parte storici, in parte alimentati dal mito, in parte di pura fantasia, vorrei dedicare a Francesca Peronace la vicenda della mitica Gaia.

   Ricordate Esiodo? Tra gli esametri di Teogonia ecco Gaia, «che in principio generò, uguale a sé, / Urano stellato, affinché l’avvolgesse tutta intorno». Effigie assai complessa, quella di Gaia, essendo capace di riprodursi lontana dall’apporto del maschio in una fase ancora contraddistinta dal Caos. Unita a Urano, in breve è costretta a rivoltarsi all’abbraccio insaziabile del compagno: «Uguale a sé», poiché, precisa Roberta Franchi, «i figli procreati, presi in odio dal padre, non vedono la luce nel suo seno, ma sono respinti nelle sue profondità». Stanca e addolorata, la dèa fabbrica una falce tagliente per consegnarla ai Titani con l’obiettivo di servirsene ai danni del genitore. Crono, il più ambizioso, lo colpisce ai genitali nel sonno, prendendone poi il posto. L’episodio è narrato da Esiodo con una dovizia toccante di dettagli, parallela al tormento di Gaia, espressione della fatica sopportata da questa figura divina durante il travaglio causato dal globo terrestre nel concepire le due entità radici del Cosmo: quasi, agli inizi, il Cielo virile volesse tenere compressa sotto di sé la Terra femminile. A dispetto dell’evirazione di Urano, Gaia continua a generare: dietro suo suggerimento, Zeus è nominato sovrano supremo e, come già accennato, dalla testa scaturirà Pallade Atena, protettrice delle scienze, delle arti, delle lettere, nonché del coraggio.

   Sigmund Freud, in un viaggio a Roma, ne acquisterà una miniatura per collocarla nella collezione casalinga di antichi oggetti artistici ed ex voto, ma la statuetta conservata dal padre della psicoanalisi non è uguale al monumento imponente che domina la Ringstrasse a Vienna: quest’ultima tiene una lancia nella mano sinistra e nell’altra una piccola Nike, mentre al souvenir acquistato in Italia manca la lancia, perduta per l’usura del tempo. Priva dell’asta, identificata come simbolo fallico, la divinità della conoscenza e della guerra viene giudicata da Freud perfetta, ineccepibile in quanto non contaminata da connotati mascolini.

 

Mileva Marić


   In omaggio alla scrittura di Francesca Peronace, concludo citando la personificazione di Atena nel Pilade di Pier Paolo Pasolini, una sorta di sequel ideologico dell’Orestea di Eschilo dove si ipotizza il ritorno ad Argo del figlio di Clitennestra e Agamennone dopo il proscioglimento all’Areopago. Una celebre mise en scène del lavoro avvenne nella cava del teatro greco di Taormina nel 1969. Nell’Orestea originale eschilea, Atena tiene sotto controllo le Erinni (personificazione femminile della vendetta) e le converte in figure benevole, istintive, ataviche, sottraendole alla struttura informe della Natura, allo stravolgimento dello status quo. Pasolini costruì una lettura personale del μύθος (miùthos) accentuando il ruolo razionalista di Atena nella creazione delle istituzioni moderne e in particolare della prima assemblea democratica.

   Dunque, nonostante la storia sia stata raccontata da due uomini, a distanza tra loro di quasi duemila anni, siamo in presenza di un messaggio inequivocabile e suggestivo, che potrebbe fare da sigla al lodevole lavoro di Francesca Peronace: la società attuale è nata da una donna.

 


Francesca Peronace è nata a Catanzaro Lido, vive e lavora a Roma.

Laureata in matematica, poco più che ventenne ha cominciato a insegnare e ha proseguito fino all’età della pensione.

Ha conseguito le abilitazioni in Matematica, Matematica applicata, Fisica, Informatica gestionale e sistemi. Ha svolto attività di formatrice ai corsi TIC A e B per i docenti ed è stata responsabile degli ECDL.

È stata esaminatrice nei concorsi a cattedra, docente in numerosi corsi abilitanti, più volte Presidente di Commissione agli esami di maturità.

Sentieri nascosti di donne è il suo primo libro.


Francesca Peronace

sabato 11 giugno 2022

Cinzia BALDAZZI - ”When Poetry Whispers to the Soul” di Barbu, Fuselli, Ercole 



 

Laura Barbu, Paola Ercole, Anna Fuselli

When Poetry Whispers to the Soul

Il sospiro dell’anima

 

Prefazione di Cinzia Baldazzi

Traduzione di Antonello Di Carlo

 

Roma, Officine Culturali Romane, 2022

pp. 172, € 15,00 

 

   La collaborazione ormai pluriennale nel campo della poesia tra Paola Ercole, Laura Barbu e Anna Fuselli ha di recente prodotto un’antologia bilingue, con testi a fronte italiano-inglese: When Poetry Whispers to the Soul / Il sospiro dell’anima allinea diciotto componimenti della Barbu, ventuno della Ercole e venti della Fuselli, nella traduzione di Antonello Di Carlo.

   Lo scritto che segue intende presentarsi come una sorta di testimonianza informativa ed esegetica “dall’interno”, poiché, come insegna la semiotica, la scelta dei codici adottati, non solo nei messaggi letterari, ne indirizza in qualche modo anche il campo informativo del contenuto: infatti, io stessa mi sono occupata, nel libro, di elaborare brevi note critiche a ciascuna delle tre sezioni oltre a una breve prefazione a carattere generale, adatta a una trasmissione bilingue che interessasse un destinatario anglofono.

   In questa sede ho ritenuto opportuno - a preservare l’idea di partenza del volume - riportare nella traduzione inglese sia alcuni stralci dai miei brani critici sia i testi delle poetesse, mentre per le sintetiche righe di collegamento ho scelto la lingua italiana. 



   Il libro si presenta dopo vari anni di collaborazioni incrociate nell’aura delle raccolte poetiche: I sorsi del gabbiano (2017) e Il fiore del vento (2019) di Marianna Francolini e Paola Ercole, Vicoli (2018) di Anna Fuselli e Paola Ercole, Raccontami (2020) e Sporche d’inchiostro (2021) di Laura Barbu, Paola Ercole, Marianna Francolini e Anna Fuselli.

   When Poetry Whispers to the Soul / Il sospiro dell’anima (2022) formalizza una siffatta condivisione nel brano conclusivo scritto “a sei mani”, dove ogni autrice ha proseguito i versi dell’altra, in una sorta di scrittura collettiva realizzata in contributi tra loro consequenziali.

 

THE SILENCE OF THE ROSE

by Laura & Anna & Paola

 

The roses die in silence

one by one, the petals wither,

like the days that arrive at sunset.

My hands grip the thorns,

the last memory,

and words are not enough.

Memory deceives reality,

I live the illusion

to be a preserved flower,

between the pages

of an unread book. (L.B.)

And will come the day when

someone will open that virgin book

with leaves through its pages

and he will look for the meaning

of the words,

scribbles around an appearance,

an unreal idea...

and he will find

that forgotten flower,

a reminder of the illusion

of a color he has never tasted. (A.F.)

That book spoke to me

of never forgotten thoughts

and time in love,

which sweetened all words.

I read his story

and love has worked its magic:

it has given new life to that rose...

I have kissed its thorns

to caress you again. (P.E.)

 

IL SILENZIO DELLA ROSA

Laura & Anna & Paola

 

Le rose muoiono in silenzio,

uno per uno i petali sbiadiscono

come le giornate arrivate al tramonto.

Le mie mani stringono le spine,

l’ultimo ricordo;

e le parole non bastano.

La memoria inganna la realtà,

vivo l’illusione

di essere un fiore conservato

fra le pagine di un libro mai letto. (L.B.)

E verrà il giorno in cui

qualcuno aprirà quel libro vergine,

ne sfoglierà le pagine

e cercherà il senso delle parole,

scarabocchi intorno ad una apparenza,

ad un’idea irreale.

... e troverà quel fiore dimenticato,

ricordo dell’illusione di un colore

mai assaporato. (A.F.)

Quel libro mi ha parlato

di pensieri mai dimenticati

e del tempo innamorato

che ha addolcito tutte le parole.

Ho letto la sua storia

e l’amore ha compiuto la sua magia:

ha dato nuova vita a quella rosa...

io ho baciato le sue spine

per accarezzarti ancora. (P.E.)

 


 

Started by Barbu, developed by Fuselli, concluded by Er­cole, the poem The silence of the rose is in this sense exem­plary, succeeding in activating the evocations allowed by the lexical choices, and in dragging with it the thought at each “jump”, at each change of author, to build a plot, a series of connections starting from the absence of any constraint. But above all, in the life-death-life cycle of a flower – wilted, dried, preserved, forgotten, rediscovered, relived – the preciousness of a poetic word understood as a reparation for the frustra­tions, defeats and wounds of life is illuminated.

 

Iniziata dalla Barbu, sviluppata dalla Fuselli, conclusa dalla Ercole, la poesia Il silenzio della rosa è in tal senso esemplare, riuscendo ad attivare le evocazioni consentite dalle scelte lessicali, a trascinare con sé il pensiero ad ogni “salto”, ad ogni scambio di autrice, per costruire una tra­ma, una serie di connessioni a partire dall’assenza di ogni vincolo. Ma soprattutto, nel ciclo vita-morte-vita di un fiore – appassito, essiccato, conservato, dimenticato, riscoperto, rivissuto – si illumina la preziosità di una parola poetica inte­sa come riparazione delle frustrazioni, delle sconfitte, delle ferite della vita. 

 

LAURA BARBU 

   Laura Barbu, nata ad Alexandria, nel sud della Romania, vive in Italia da oltre vent’anni. Il castigo del silenzio (2019) è la prima raccolta di poesie scritte direttamente in italiano. Il valore vitale di perpetua lotta contro l'egoismo costituisce il leitmotiv della poetica organica della Barbu, intervallata dallo sviluppo dell'istanza erotica a contrasto delle innumerevoli figurazioni della negatività. Nelle pagine di When Poetry Whispers to the Soul / Il sospiro dell’anima l’autrice è alla ricerca di un riscatto della parola poetica che sia liberatoria da noncuranza, maledizione, estraneità, pianto.

 

Laura Barbu
 

Disinterest, impassivity, coldness: compared to the an­guished spectres animated by our poetess, ρως represents the total passion capable of involving the entire human exis­tential adventure. The female vocation to rebellion occupies a significant space in it. In other compositions, witch-like and demonic femininity is reversed in the modernity of emancipation. The semantic cohesion of such an elegant ποιητική τέχνη (poietiké tèkne) is guaranteed by the density of the pauses and enjambements, which detach and join each time, raw, unmediated expressions, sincere to the point of ruthlessness, as if the writer were inviting us readers to live with her an existential experience enclosed in a «closed fist», defended by «flesh under the nails», nourished by the «root under a tombstone».

 

Disinteresse, impassibilità, gelo: a fronte degli spettri an­goscianti animati dalla nostra poetessa, l’ρως rappresenta la passione totale in grado di coinvolgere l’intera avventura esistenziale umana. La vocazione femminile alla ribellione vi occupa uno spazio significativo di grande risalto. In altri componimenti la femminilità stregonesca e de­moniaca si rovescia nella modernità dell’emancipazione. La coesione semantica di una simile, elegante ποιητική τέχνη (poietiké tèkne) è garantita dalla densità delle pause e degli enjambement, a distaccare e unire, di volta in volta, espressioni crude, non mediate, sincere fino alla spietatez­za, quasi la scrittrice invitasse noi lettori a vivere con lei un’esperienza esistenziale racchiusa in un «pugno chiuso», difesa da «carne sotto le unghie», nutrita dalla «radice sotto una lapide». 

 

THE SONG OF THE FINGERS

by Laura Barbu

 

I tore the white

from the black eyes

to make the night,

I sang with your fingers

out of tune refrains,

harp with uprooted strings

I choked a god

that I had cradled

in the arid breast.

Blasphemous, I swore allegiance

to the God of forgetfulness,

I promised a sacrifice

of flesh that bleeds a word.

I was a red-mouthed woman,

with tongue that chews lies

and spits truth.

 

 

IL CANTO DELLE DITA

di Laura Barbu

 

Strappai il bianco

dagli occhi neri

per far notte,

cantai

con le dita

ritornelli stonati,

arpa dalle corde estirpate;

soffocai un bene

che avevo cullato

al seno arido.

Blasfemo

giurai fedeltà

al Dio della dimenticanza,

promisi

un sacrificio di carne

che sanguina parola.

Fui donna

dalla bocca rossa,

lingua che mastica menzogna

e sputa verità. 

 

PAOLA ERCOLE

   La produzione di Paola Ercole prende avvìo con la composizione di haiku, per poi intraprendere il percorso del verso libero. Ai cinque versi di un keiryu la poetessa affida una sorta di autoritratto: «sono terra di marzo / ancora spruzzata di neve / che attende il suo primo sole- / come timida rosa / attorcigliata nei rovi». Terre emerse è l’ultima sua antologia in versi. When Poetry Whispers to the Soul / Il sospiro dell’anima conferma una scrittura dove, tra lucidità e malinconia, le suggestioni ispirate dalla natura e dall’incessante alternarsi delle stagioni divengono occasione di (auto)analisi intimistico-spirituale.

 

Paola Ercole

 

In Ercole’s microcosm, where a stone is associated with the propaedeutic memory of the primordial return, every element, animate or inanimate, appears as something ready there to progress, to manifest it­self, to highlight perhaps wounds of the soul due to «words that burned the lips». But if suffering constitutes a preor­dained destiny, an τυχία (atiukìa), it is not, however, inhabit­ed by subjugated and resigned victims. The pain never becomes virulent, but is attenuated in a guarded melancholy, in a lucid memory. Our author – aware of an inevitable repetition: «I will still breathe mistakes» – seems to be able to learn from mistakes and negative events.

 

Nel microcosmo della Ercole, dove una pietra è associata al ri­cordo propedeutico al ritorno primordiale, ogni elemento, animato o inanimato, appare come qualcosa pronto lì a progredire, a manifestarsi, a evidenziare magari ferite dell’anima dovute a «parole che bruciarono le lab­bra». Ma se la sofferenza costituisce un destino preordinato, una τυχία (atiukìa), essa non è però abitata da vittime succubi e rassegnate. Il dolore non diventa mai virulento, ma si attenua in una sorvegliata malinconia, in un ricordo lucido. La nostra autrice – co­sciente di una inevitabile ripetizione: «ancora respirerò sbagli» – sembra poter apprendere dagli errori e dagli ac­cadimenti negativi.

 

POETRY

by Paola Ercole

 

Delay is the light

that darkness does not pierce,

it stops his hand

on the solitude of the paper.

The pen awaits ink

of tears and soaked blood,

to write uncovered thoughts,

to give words

that do not confuse rain

with frost,

to smear bare pages with life,

and with a greedy hand,

to lay the bud of a flower

on the still open flesh.

 

 

POESIA

di Paola Ercole

 

Tarda la luce che il buio non squarcia,

statica la mano sulla solitudine del foglio.

La penna attende inchiostro,

di lacrime e sangue intriso,

a scrivere pensieri scoperti,

a donare parole che non confondano

la pioggia con la brina,

a sporcare di vita pagine nude,

e con avida mano

posare sulla carne ancora aperta,

il germoglio d’un fiore. 

 

 

ANNA FUSELLI 

   Fin dall’esordio con Chiaroscuro (2017), la poetica di Anna Fuselli ha esplorato l’indole intima dell’intellet­to e del pensiero attraverso un atteggiamento di entusiasmo guardingo. Risaltano alcuni leitmotiv: in primo luogo il procedere dei versi lungo l’asse referenziale della noia, la quale consente di intravedere e conoscere un ordito costante nell’esistenza; poi, l’affiorare delle ombre, mai minacciose o sfuggenti, invece parte essenziale del corso quotidiano. Per la poetessa, la società risulta essenzialmente inumana, malevola, impietosa: e il ritrovarsi in se stessa, nel voler essere sola, è testimoniato da una scrittura lirica anch'essa solitaria, appartata, ma lucida negli intenti, chiara negli obiettivi.

 

Anna Fuselli

 

The substance of Anna Fuselli’s poetry is in the great dra­matic force transmitted by the verses, a sort of severe energy that however transits along a path where the daily and mor­tal history is projected into an infinity, in a becoming repeat­able for eternity. Intimately committed to the theme of shadows is the instance of solitude, made into a “person” to the point of embracing it at sunset «filled with light and silence», holding it «to the point of feeling pain», listening to it «in the flight of a fleeting thought». In the poem of the same name, it almost comes out of itself to the extent that, in its absence, the poetess would feel «more alone». Being aware of it, recognising it, cultivating it, makes it possible to assign it an antagonistic function to the dark and silent context, ac­complice of confusion and lies, and thus represent it in an almost auxiliary role.

 

 

La sostanza della poesia di Anna Fuselli è nella grande forza drammatica trasmessa dai versi, una sorta di energia severa che però transita lungo un sentiero dove la storia quotidiana e mortale viene proiettata in un infinito, in un divenire ripetibile in eterno. Intimamente connessa al tema delle ombre è l’istanza della solitudine, resa “persona” al punto da abbracciarla al tramonto «colma di luci e silenzio», stringerla «fino a sentir dolore», ascoltarla «nel volo di un pensiero fugace». Nella poesia omonima, essa quasi esce da sé al pun­to che, in sua assenza, la poetessa si sentirebbe «più sola». Esserne cosciente, riconoscerla, coltivarla, consente di as­segnarle una funzione antagonista al contesto buio e silen­zioso, complice di confusione e menzogne, e rappresentarla così in un ruolo quasi ausiliare. 

 

SOLITUDE

by Anna Fuselli

 

Who knows

if I would feel more alone

without my loneliness,

like a secret favors

a balance, so

as not to hit the bottom.

Maybe I don’t know

that the night,

with its regular silence,

gives me

the courage to hope,

that the mystery loses me

and I dare

not to judge good

and evil.

Without my loneliness,

I would continue

to drink alone

from the chalice

of wine, the gall,

without arms, like a lost statue

of an abandoned Venus.

Without my solitude,

I would be like the rusting roofs

that make no noise

and live without fanfare.

 

SOLITUDINE

di Anna Fuselli

 

Chissà se mi sentirei più sola

senza la mia solitudine,

che come un segreto

asseconda un equilibrio

per non toccar il fondo.

Forse non saprei che la notte

con quel suo silenzio regolare

mi dà il coraggio di sperare,

che il mistero mi smarrisce

e non oso giudicare il bene e il male.

Senza la mia solitudine

continuerei a bere

dal calice di vino il fiele,

da sola, senza braccia,

come una perduta statua

di una Venere abbandonata.

Senza la mia solitudine

sarei come i tetti di ruggine

che non fanno rumore

e vivono senza clamore.


   Per quanto riguarda l’ambiguità inalienabile di ogni atto di transizione da una lingua all’altra, concludo lasciando la parola a un personaggio di Haruki Murakami - romanziere (ampiamente divulgato in inglese) nonché traduttore - per comunicare quanto una simile mancanza di univocità non sia caratteristica esclusiva dell’atto di tradurre, piuttosto appartenga alla parole in sé, quella comune e, senz’altro, quella letteraria.

Cinzia Baldazzi

   Nel romanzo Norwegian Wood (1987) - tradotto in Italia da Giorgio Amitrano per Feltrinelli nel 1993 - il cui protagonista Toru è uno studente amante della letteratura angloamericana, Murakami fa dire alla giovane Naoko: 

Ogni volta che cerco di dire qualcosa, mi vengono sempre le parole meno adatte, se non addirittura opposte a quelle che vorrei dire. E se cerco di correggermi, mi confondo ancora di piú e peggioro la situazione al punto che alla fine non so piú nemmeno quello che volevo dire. È come se il mio corpo si dividesse in due parti che giocano a rincorrersi. E al centro c’è questa colonna immensa e le due parti continuano a rincorrersi girandoci attorno. Ad afferrare le parole giuste è sempre l’altra parte, e io non riesco a starle dietro.

  

Le fotografie sono state scattate da Adriano Camerini il 4 giugno in occasione della presentazione del libro presso la galleria Arte Sempione in Roma.