mercoledì 22 febbraio 2017

"Concorso di parole" ad Acquasparta


Domenica 15 gennaio ad Acquasparta (TR), nella Sala Multimediale della Biblioteca Comunale in via Roma, è stato presentato il libro Concerto… di parole, raccolta poetica di Otello Semiti.
“La scrittura”, spiega l’autore, “vuole essere un piccolo passatempo per rasserenare l’anima e la mente”.
Il volume allinea oltre cinquanta componimenti, dedicati in gran parte al paese di Acquasparta dove Semiti vive e lavora esercitando, come egli stesso scrive, “il nobile mestiere di fornaio”.

La silloge è nata raccogliendo le poesie lette durante i concerti di “Musica e Poesia” tenuti in collaborazione con il Gruppo Bandistico Città di Acquasparta”, grazie a un’idea del direttore musicale Enrico Grigioni.
Le letture delle poesie sono state affidate, oltre che all’autore, a una serie di voci femminili, gli intermezzi musicali eseguiti dal maestro Ulderico Grigioni (tromba), da Riccardo Martelli (chitarra) e da Cecilia Grigioni (voce).

Coordinata dal maestro Renato Bartolucci, la presentazione ha visto l’intervento del docente universitario Giancarlo Rati. Da parte mia, ho affidato alla lettura dei presenti un breve saggio che qui sotto riporto.
 

Otello Semiti
Concerto… di parole
Irda Edizioni, 2016, pp. 76, € 10,00

 

 

 

 

Intervento di Cinzia Baldazzi

Acquasparta, 15 gennaio 2017

 
“Narreremo in esso ciò che sperammo e ciò che sognammo, e ciò che seminammo o che mietemmo, e ciò che lasciamo o che abbandoniamo” .

È Giovanni Pascoli a parlare, in una confidenza all’amico Adolfo De Bosis:

“O Adolfo, tu sarai più lieto e men triste di me! Sai perché? Il perché è in questo tuo libro”.
 
Il libro di cui parla Pascoli è in realtà il suo, ed è la raccolta I Poemi conviviali. Si chiamano così perché, appunto, Pascoli li pubblicò quasi tutti sulla rivista “Il Convito” di De Bosis. La dedica è del 1904, e noi la facciamo nostra, vogliamo accoglierla presentando il Concerto… di parole di Otello Semiti, in quanto, pur essendo egli giovane, e con la tarda età avendo però in comune la saggezza, suggerisce molti perché, suoi e nostri.

Pascoli invita l’amico a leggere uno dei suoi poemi, I vecchi di Ceo: è la vicenda di due atleti, Làchon e Pànthìde, un tempo famosi, ora anziani, i quali vivono la loro terza età nella splendida isola greca al centro del Mar Egeo. Tra l’altro, Ceo è stata la patria di nascita dei poeti Simonide e Bacchilide.

Scrive Pascoli:

“Tutti e due lasciano una vita assai sereni: ma uno più, l’altro meno. Questi non ha in casa, come messe della sua vita, se non qualche corona istmia e nemea, d’appio secco e d’appio verde (oh! secco ormai anche questo!). L’altro, e ha di codeste ghirlande, e ha figli dei figli. Tu sei quest’ultimo, o Adolfo; tu sei Pànthide che ebbe il dono delle Grazie!”.

Pascoli descrive Pànthide mentre si trova nella rocciosa Euxantide, sul monte situato nella Iulide, nell’antichità uno dei quattro centri abitati dell’isola di Ceo. Con il capo divenuto bianco, non cerca di ornarlo con la gloria di corone intrecciate con il fiore dell’appio, come avveniva nei giochi dell’istmo di Corinto o di Nemea. Ora Pànthide è un medico, è un ministro accorto di erbe salutari.         

L’isola di Ceo, purtroppo, era lontana da Sparta: tuttavia, per l’eroe pascoliano, è qualcosa di analogo all’insieme di significati della terra e della città di Acquasparta per Otello Semiti. (Concedetemi questa licenza poetica: sappiamo tutti che l’etimologia del nome è un’altra). Intendo un luogo ricco di valori benevoli, naturali, capaci di curare le malattie e i tormenti esistenziali.

Nell’epica elaborata da Pascoli, si verifica una delle tesi essenziali dello studioso tedesco Ernst Cassirer. Negli anni Sessanta, egli analizzava i legami tra il linguaggio, veicolo di contatto con il mondo, e la mitologia, scrivendo:

 “Il pensiero mitico si scioglie dalla primitiva indeterminatezza dell’intuizione complessa, e procede verso singole formazioni, in modo tale che nella forma della raffigurazione mitica si rispecchia non tanto la forma obbiettiva delle cose, quanto piuttosto la forma dell’operare umano”.

Ecco la ragione per cui il vecchio Pànthide, nel cammino, incontra un vecchio compagno atleta: è Lachon, il quale, al contrario di lui, fa vita ritirata. Nella casa di quest’ultimo, Giovanni Pascoli descrive ghirlande ormai secche; in mancanza di “germogli”, simbolo di onori, commisera l’uomo rimasto solo, e condanna l’atteggiamento di non essersi mostrato propenso a frequentare gli altri. Tutto questo in un’attualità di sentimenti e ideologia autobiografica: Pascoli parlava di se stesso, era effettivamente così.

È probabile sia vittima di un antagonismo ossessivo, simile, in via utopica, all’atmosfera di fine Ottocento, vissuta e creduta nemica di un futuro ricco di discendenza: ma una discendenza non biologica, non filiale, bensì costruita da discepoli all’altezza di tramandarne l’esperienza “da persona a persona”, in un percorso fecondo e indispensabile di epica orale.

Completando il discorso sull’avventura di Pànthide nei Poemi conviviali, il maturo riflessivo eroe classico, come l’Adolfo pascoliano con lo scrivere, dà prova di aver ricevuto la benevolenza delle Grazie, figlie di Zeus. Esse incarnano la perfezione a cui si dovrebbe tendere. E l’arte è il loro strumento preferito.

Almeno dalla seconda metà del Novecento, del resto, cerchiamo, con lo studioso Ferruccio Rossi-Landi, una convalida definitiva:

“Un comportamento umano extra-linguistico può essere posto in un qualche rapporto di effetto e causa, o comunque di avvenuto condizionamento, con la lingua parlata da chi lo svolge, o viceversa”.

Un interrogativo parallelo sussiste, è ovvio, nell’espressione scritta, frutto di un meccanismo di linguaggio in generale importante sul modo di pensare e sull’agire, soprattutto per i poeti.

Nel comporre metafore e allegorie, Otello mira a suscitare l’immagine di un’umanità in lotta per ottenere il meglio della natura a lei attribuito e affidato. Riesce così a far scaturire una forza robusta da un’intera epoca, dopo tante delusioni superate nei decenni trascorsi, e ora, nella storia attuale, pesanti e gravi. Sono le sue Sensazioni, titolo di una poesia della raccolta:

“Il cielo plumbeo minaccia / la tempesta, gocce assatanate / calpestano un vecchio prato, / ridotto a fieno dal contadino”.

Allora, d’un tratto percepisce un odore di mare, quasi sopravvenisse un’onda spumeggiante. Tiene gli occhi chiusi, raffigurandosi disteso sulla sabbia ad aspettare l’arrivo di un amore, tardo a raggiungerlo: “da dove non so”, confida, “forse su quell’onda naufragò”. Non possiamo prevedere in quale lido della propria Odissea naufragherà. Otello racconta:

 “Improvviso il tuono, il lampo, torno a vedere la triste realtà / piange il mio tempo e mai più / si fermerà”.
 
Non è così, però: in memoria dell’Ulisse omerico, l’amico Semiti non vacilla, non si spezza, né retrocede. Lo dichiara in Portaria, dedicata alla musica del maestro Marco Paolucci, in sintonia con il titolo della silloge Concerto… di Parole 

“Quando la mente si riempie di malinconia, / quando non sai cosa sia, / prendi i tuoi ricordi, / sali per quella via verso Portaria” 

E poi:  

“Si sale sul monte dove guardando di fronte / non si distingue la gioia dall'orizzonte. / Vedi tutto, dinanzi a te, inchinato un mondo, / liberi un sospiro nel tramonto, / della malinconia non serbi ricordo, / scorre l'acqua delle fontane, / le lavandaie cantano strofette in un dialetto strano mentre torni un poco bambino”.  

Nelle strofe in dialetto dell’infanzia, nella lingua dal suono arcaico - di una medicina anch’essa antica, cioè la poesia - la malinconia, all’occorrenza, viene consolata, e magari curata qui. Voi ne avete la consapevolezza, tra vicoli e case somiglianti a un presepe di Portaria. Conclude dunque Otello: “Addio, malinconia”.

E veniamo finalmente al Fanciullino. Sono legata a questa poesia perché un mio pezzo critico su di essa, oltre un anno fa, ha costituito di fatto il primo contatto letterario con i versi di Otello, pochi giorni dopo averlo conosciuto di persona  al concorso di Genazzano.
 
Ebbene, nel contesto di Semiti, ogni “fanciullino”in noi propone un simbolo molto variegato il quale, nel brano, si muove tra versi privi di un’identità precisa. Infatti, leggiamo:  

“Sull’arida sabbia / di un mare deserto, / un coccio di vetro / brillava a un sole / bugiardo, rotolava / ad un soffio di un vento maldestro un / gioco inventava, / nascondendosi un poco” 

Senza disarmonia, la sua immagine, per mezzo dello svelamento di un coccio di vetro, diviene quella di “una donna in lieve declino”. Alla finestra dell’anima si rinnova il modello estetico decadente pascoliano, nutrito delle suggestive evocazioni tipiche della crisi di valori e certezze propria degli inizi del secolo passato.

In una festa poetica della vita promossa dalla natura, da una società qua e là disseminata da frammenti di un inquietante specchio interiore, troviamo una specie di “coccio”. Esso è prima capace di rendere le visioni trasparenti con “occhi che brillano illuminati da un sorriso o aspersi d’una lagrima”; poi, benché inatteso, è in grado di farli girare dall’altra parte innescando “simili voglie”, tramutando “gli sguardi”.

Altrove, Semiti affronta il tema della solitudine:  

“Se un giorno ti senti solo / pensa: / un ricordo, / un sogno, / saranno la tua compagnia” 

Oltre cento anni fa, riferendosi al Proemio del “Convito”, Giovanni Pascoli commentava:
 
“Ero di quelli che s’erano ritratti a coltivare la loro tristezza come un giardino solitario”.   

Poi però, in una sorta di ribellione al lamento distruttivo, continua:  

“Eppure, no: non ero di quelli; ché, in verità, non avrei cercato di avere, per mio proprio gusto, di quella tristezza e il fiore e il frutto!”. 

Pascoli, nel decadentismo di oltre un secolo fa, gridava:  

“O frutti amarissimi! Chi vorrebbe essere l’ortolano e il giardiniere della morte? I frutti degli alberi, nei cimiteri, non si mangiano, ma si lasciano cadere. Non si dà alle bestie l’erba che nasce nei camposanti, così rigogliosa, così fiorita; ma si brucia”. 

Ancor di più, non è tra questi Otello Semiti: nella miniatura della routine quotidiana, lui si misura con noi “contro” il succedersi di minuti e ore troppo minimi: vuole così impedire che essi, i quali scandiscono le minuscole distrazioni quotidiane, inducano il Tempo, con la T maiuscola, a fermarsi davanti alle spinte negative.

Abbiamo accennato, con Pascoli, a qualcosa che avvampa, come dire “senza costrutto”: l’erba vicino alle tombe viene falciata e le si dà fuoco, e il fumo che sale al cielo è la vita bruciata.

Da un tema così fortemente e crudelmente concreto passiamo, grazie a Otello Semiti, all’astrazione. In poesia è possibile. Il nostro primo grande storico della letteratura, Francesco De Sanctis, lo ricordava centocinquant’anni fa:  

“In un’opera d’arte si può fare benissimo un’opera di astrazione. Si può isolare il contenuto dalla forma: in quest’ultima, considerare la purità, la grazia, la carezza, l’armonia; nel contenuto, l’originalità, la moralità, la verità storica…” .  

Nell’astrazione siamo guidati da Otello con il testo Piccole ore: nel tragitto del meccanismo creativo di Semiti, adesso, il fumo del bruciato proviene da un camino:  

“Le mani possenti del silenzio / avvolgevano il corpo di un uomo. / Un tizzo ardeva nel grande / camino, l'odore intenso del / tabacco della sua pipa. / Il fumo disegnava nuvolette / maliziose, il volto di una donna / apparve in esse”.  

La memoria imperterrita sembra rincorrere un destino compiuto, la bellezza induce al desiderio, dipinge fantasie eterne, e l’attesa gioie brevi e importanti. Non provocano un tormento sino a divorarla del tutto, mentre speranze irrealizzate e finalità deluse vanificherebbero ogni cosa.
 
Semiti chiude dichiarando:
 
“Si visse intensa quella vita, / poi nel ricordo restò intensa, / le ore erano piccole, il tizzo / ormai spento, la pipa fumò / l’ultimo tabacco ed il sogno”. 

Dove sono sepolti gli affetti, del nostro “voler essere” rimane una nebbia diffusa: però siamo noi, con Otello, a gustare la vita e il suo tabacco dal sapore di sogno. Ultimo, ma nell’intervallo di una “piccola” ora, perché subito dopo si ricomincerà daccapo.

Fin da ragazza, ho amato la scienza incentrata sui segni, la cosiddetta semiotica. Con lo studioso Francesco Casetti, ho spesso creduto nel fascino e nella suggestione dei mosaici alla base di una storia della semiotica in grado di assumere l’andamento di un mito: è sempre una coppia popolare di eroi, a dare un’immagine adeguata alle favole delle origini, narrate ai bambini: ad esempio Romolo e Remo, fondatori di Roma, Lumière e Méliès, inventori del cinematografo. Così, agli albori di questa disciplina scientifica, troviamo il rosso e il verde dei semafori, il “sì” e il “no” delle risposte, il sistema binario costruito sulle cifre “0” e “1”, la forma e il contenuto, il significato e il significante, e così via.

Tra i nomi illustri della semiotica, lo svizzero Ferdinand de Saussure, agli inizi del ‘900, ha giudicato il segno, se si vuole comprenderlo, un dato indipendente, dal momento in cui non si configura necessariamente come un’etichetta di fattori esterni, non rinvia per forza a un oggetto, concreto o mentale; il ragionamento, è ovvio, è valido in particolare se il significante è di genere poetico. L’arte basta a se stessa.

Dall’altro lato dell’oceano, negli Stati Uniti, il contemporaneo Charles Sanders Peirce ipotizza invece l’oggetto rappresentato dal segno come un principio necessario e primario nel segno stesso.  

Ecco, io credo che Otello Semiti sia, come dire, “peirceiano”, poiché le sue parole sono effettivamente degli elementi immediati, sono parole-cose. E questo non vale unicamente per i versi dedicati con tanto amore alla sua città, alle strade, ai vicoli, alle fonti, ai palazzi.

Il meta-linguaggio di Semiti ha un raggio d’azione più ampio: invita a sopravvivere all’ombra dei fantasmi di chimere remote, senza bisogno di sottomettersi a vincoli inaccettabili. Egli escogita un “gioco” – si legge nei versi de Il fanciullino – “nascondendo” un poco le autentiche motivazioni: non per timore di suscitare l’invidia degli dèi, piuttosto per lasciare a ognuno di noi l’incarico di terminare l’impresa ludica che si muove e si anima tra un vocabolo e l’altro.

Così è celata, nel quadro di natura dell’incipit, nitido e scabro, una solida nota sensuale, visiva, quasi tattile (“sull’arida sabbia”), trascinata in atmosfere sospese e arcane, nelle quali anche Pascoli, abbiamo visto, si impegnava. Ne scaturisce un evocare, un versificare non frantumato né sporadico, al contrario - come abbiamo ricordato poco fa - concreto, verosimile: l’unico sbocco è credere nell’alternativa a una presunta oscurità del mito, cogliendone invece il messaggio diretto e antropomorfico, sviluppato con magia nel brano, dal ritmo e dalla sintassi. Infatti scrive:

“Poi incrociò un viso / birichino, stordito fermò / il suo cammino”.  

L’auspicio è di bloccare (e per fortuna accade), di interrompere il deterioramento e l’impoverimento del simbolismo: infatti, in misura rigorosa e reciproca, si susseguono sfumature soggettive correlate a particolari oggettivi e ideali:  

“Gli occhi seppur stanchi / erano il cielo, il corpo / di statua, il viso da dèa”.  

La poesia Il fanciullino non vuole, dunque, costruire un’unità indiscriminata di sentimenti e passioni, bensì un mosaico le cui impressioni ricavate dal mondo rinviano a una emozionalità di mistero e di pausa, accompagnate da un po’ di angoscia: quando, ad esempio, il giovanissimo protagonista raddoppiato, riflesso e riscattato da ipocrisie fuorvianti, in chiusura si ritrova “innamorato”, e “smarrito, travolto / dal mare”, al punto da rimanerne “basito”.

Il lungo peregrinare è approdato a Itaca? Forse: ma come l’Ulisse dantesco, da suo libero e autonomo discendente, il protagonista di Semiti presto ripartirà, memore dell’appello pascoliano: “Fanciullino mio non / ti potrò mai abbandonare”. Lo potenzia però, e lo rende attualissimo, in una sorta di richiamo ansioso per la sessualità, non più adolescenziale.

La tematica possiede uno dei nuclei espressivi fondamentali dell’opera completa di Semiti: ossia, il non temere, anzi coltivare, un originario parallelismo imperscrutabile tra uomo e ambiente, nel promuoversi lirico di uno scambio tra tempi umani e naturalistici, tipico degli albori della civiltà e della cultura, intriso e vincolato a un insieme di attrazione e turbamento attivi e coinvolgenti.