mercoledì 28 febbraio 2018


 

 

Cinzia BALDAZZI - "Tuscia misteriosa e insolita": un libro di Claudio Lattanzi per Intermedia Edizioni

 

Non solo non credeva ai fantasmi, ma non ne aveva neanche paura.

(Anonimo) 

 



 

La piramide di Bomarzo

 

Nella comunità di Vitorchiano, non distante da Viterbo, transita da decenni la leggenda di una ragazza, morta di stenti in epoca indefinita, perché abbandonata nel nemus ciminum insieme a un flauto, dopo aver rifiutato di andare in sposa a un feudatario tirannico, di lei innamorato. Il signorotto, accecato dall’ansia di vendetta, ordinò fosse rapita e collocata nel bosco, consentendole di portare con sé solo l’amatissimo strumento a fiato. La giovane, disperata, desiderando una via di salvezza, consumò l’epilogo della vita, affamata ed estenuata: tuttavia, nelle ultime ore, la poverina avrebbe intonato una melodia, quasi cercasse di conquistare una sopravvivenza estrema all’annientamento. All’origine dell’episodio, però,  potrebbe trovarsi semplicemente il suono proveniente da un’azienda dove erano in uso carrelli di metallo sospesi in aria i quali, nella lavorazione finale, ondeggiavano al vento.

Claudio Lattanzi, nel libro Tuscia misteriosa e insolita (pubblicato da Intermedia Edizioni), con sottotitolo Esoterismo, leggende nere, enigmi irrisolti, Templari, narra come molti abbiano riferito di aver udito, intorno alla fontana del Duca, nel tragitto tra Vitorchiano e la strada Cimina, note simili a quelle di un flauto, testimoniando come si sia infine attuato, in un modo o nell’altro, l’intento di immortalità della sfortunata e avvenente fanciulla.


Il lago di Vico


Un tale paesaggio selvoso, affascinante e immerso con splendore in certe epifanie di luce della Tuscia, chissà come appariva tra il XVII e il XVIII secolo, colpendo persino nel cuore gli insigni romantici Lord Byron e Percy Bysse Shelley durante il tour nell’Italia centrale: a loro, il lago di Vico svelò, in poesia, i trascorsi e il futuro, la bellezza e i dati oscuri della natura limitrofa. D’altronde Charles Dickens, l’autore del travel journal compilato nel 1846, Pictures from Italy, annotò la celebre versione sulla nascita del bacino: «Sorgeva in tempi remoti una città. Un giorno essa venne inghiottita, e in sua vece quest’acqua sgorgò. Talvolta si poteva scorgere sul fondo, quando le acque erano chiare, la città diruta. Comunque possa questo essere avvenuto, resta il fatto che essa disparve in questo punto dal globo». Anche sottolineando l’errore dell’illustre scrittore vittoriano, indotto dall’aver confuso le rovine sommerse con Sabazia nel lago di Bracciano (citata dallo studioso e geografo del '600 Cluverio di Danzica), rimane indiscusso come sul Lacus Ciminus siano fiorite numerose storie dall’atmosfera magica.

Il libro è «un viaggio sulle orme degli enigmi, nascosti a bizzeffe tra le pieghe di un passato arcaico», offerto da Claudio Lattanzi al lettore: con cura di dettagli e idee all’altezza di suscitare un iter ricco di indici di pertinenza concreti relativi alla piramide di Bomarzo, con scalinate nella pietra boschiva scavate millenni orsono, o di ripercorrere le tracce di una mappa dell’introvabile tomba di papa Alessandro IV, celata da settecentocinquanta anni (almeno si suppone), in un cunicolo segreto nei pressi di Viterbo. Dunque affronteremo il Parco dei Mostri, evocato captando criptiche presenze dentro la Selva Cimina, di arduo accesso, le imponenti “aiole” sommerse nei fondali del lago di Bolsena, non smarrendo la possibilità di ascoltare il mistero della reliquia di Calcata, l’identità di Santa Rosa e la sua trasformazione in simbolo politico, di interrogare gli ineffabili Templari, di sorvolare paesaggi magici e segreti da Calcata a Bagnoregio, da Tarquinia a Sutri, di incontrare l’eremita di Castel Sant’Elia, svelare l’enigma della Cuccumella di Vulci, decifrare le tavolette di Valentano, immaginare le fattezze dell’uomo che parlava con gli Etruschi.


Le "aiole" sommerse nel lago di Bolsena


Notevole in tale ambito è la mitologia sviluppata sul Lacus Ciminius, articolata sull’italico e romano Ercole (in latino: Hercules): ispirato al greco Eracle, venne introdotto forse fra i Sanniti dalle colonie elleniche, in particolare Cuma, mentre i Latini e i Sabini lo ereditarono dal culto etrusco di Hercle. Accogliendo l’opinione del grammatico Servio Mario Onorato (IV/V sec. d.C.), il bacino sarebbe stato creato dall’eroe con un colpo di clava. A Palazzo Farnese, a Caprarola, sul soffitto affrescato da Federico Zuccari è dipinta la leggenda dove è tramandato che Ercole, primo mortale a diventare dio, in virtù delle rinomate dodici fatiche, fosse chiamato dai pastori tra i Monti Cimini afflitti dalla siccità: avendo piantato un pesante bastone nella terra, estraendolo avrebbe fatto sgorgare un vasto flusso acquoso. Per gratitudine, e allo scopo di omaggiarlo, la gente del posto edificò un tempio sul Monte Venere. È evidente il significato allegorico della scena: sul palo di Ercole è raffigurato il giglio farnesiano, segnale delle cospicue opere idriche realizzate, con enormi benefici economici, dal cardinale Alessandro Farnese.

In un’altra forma corrente dell’avventura, il forzuto semidio, partito alla ricerca delle ninfe Melissa e Amaltea, essendo infastidito dalle insistenti richieste del popolo di ottenere una spettacolare prova di vigoria, quasi per stizza conficcò la clava nel suolo. I tentativi degli abitanti di tirarla fuori o muoverla furono inutili. A sera, il semidio, in un secondo sfoggio di energia sovrumana, la strappò con violenza elevandola al cielo, tra le grida della folla esaltata: dalla cavità uscì acqua sufficiente a inondare, in breve, i prati vicini. All’alba successiva i viandanti, invece della zona pianeggiante, erano davanti al lago di Vico.


Ercole nell'affresco di Federico Zuccari a Caprarola


Al pari di svariate vicende concernenti i Τυρσηνοί (dal greco Tyrsenoí - "Tirreni"), anche questa è giunta trasmessa da documenti risalenti all’antica Urbe. L’Etruscus è attestato tra il nono secolo a.C. e il primo d.C., sostituito gradualmente, ma non al completo, dalla lingua latina, conservando validi solo alcuni sostantivi e prestiti: “persona” (dall'etrusco φersu), e appellativi geografici tra cui Tarquinia, Volterra, Perugia, Mantova, Modena (magari Parma) e toponimi in "-ena", del tipo Cesena, Bolsena, Siena, ecc. Il lessema “cimino” deriva dal latino cimmerius, aggettivo equivalente a “oscuro”, “tenebroso”, poiché l’altitudine facilita l’addensarsi di banchi di nebbia, foschia e caligine capaci di sfumare l’hic et nunc circostante. Le sponde lacustri di Vico, dichiara Lattanzi, agevolano la percezione di echi remoti e arcani: «Sono da sempre guardate con un misto di at­trazione e repulsione dalle persone del luogo». Addirittura, «non sono in pochi a provare un brivido sulla schiena a sentir pronunciare il nome di questo lago».

Ai riverberi ambigui e carichi di significato dell’ampio specchio d’acqua di Vico è attribuito un capitolo della Tuscia misteriosa e insolita, là dove si illustra la «fama sinistra che avvolge questo luogo, e che viene confermata dalle numerose testimonianze di chi ha assistito ad episodi a dir poco singolari». Perfino i “pragmatici” Romani erano convinti che il saltus ciminus fitto di castagni, querce e faggi, fosse occupato «da creature spaventose e terrificanti», divenendo un saldo muro di difesa degli Etruschi dall’espansione romana. Nel 309 a.C. Quinto Fabio Massimo Rulliano la attraversò alla guida di una poderosa truppa. Non fu impresa agevole, condotta a termine grazie all’aiuto del fratello e di un esperto servitore: ambedue indossarono indumenti da contadini per risultare anonimi una volta scampati dal malaugurato complesso boscoso. I soldati erano turbati dalla diffusa superstizione di profanare un’area infestata da spettri e spiriti. Tito Livio così la delinea: «Era in quel tempo la Selva Cimina più impraticabile e spaventosa (invia atque orrenda) di quanto non lo siano oggi le foreste della Germania, e nessuno fino allora vi era penetrato, neppure i mercanti, né ardiva qualcuno entrarvi» (IX, 36-39).


La Selva Cimina


Ancora Livio ha illustrato la fatalità toccata al console Postumio il quale sembra vedesse, nel lucus sacro della Gallia, i suoi uomini «fatti a brandelli dagli alberi, che li avevano orrendamente ghermiti». Del resto, nella Scozia del Basso Medioevo, ricreata dal Teatro Elisabettiano di William Shakespeare, una strega, in un funesto presagio, invita Macbeth, barone di Glamis assetato di potere, a non temere la sconfitta se non quando il Great Birnam Wood «muova verso Dunsinane»: benché all’apparenza non degno di fede, nondimeno, il severo annuncio di catastrofe si concretizzerà nell’ordine ricevuto dai soldati di MacDuff e Seyward, disposti intorno al castello del tiranno, di avanzare mascherati con rami e foglie, preludio di disfatta e morte del protagonista.

Un simile genere di timore è pertanto assai plausibile innanzitutto nella forma mentis pagana, tipica del predominio della natura sull’umanità, di frequente affiancato da un’intensa prerogativa spirituale. Lo sviluppo delle città, e il bisogno di utilizzare legno per coprire le esigenze militari, promosse la scomparsa progressiva dell’immensa macchia verdeggiante europea, le cui immagini, con un autoritario panorama spettacolare di alberi giganteschi, erano senz’altro colme di tormentosi riscontri soprannaturali. In tale orientamento, l’uso di saccheggiare e devastare potrebbe rivelare anche una sorta di metodo tradizionale con il quale i soldati davano sfogo alla pressante angoscia in agguato durante le missioni esplorative di boschi paurosi e sinistri, effettuate per vantaggi economici, politici e sociali.

Per formazione individuale e storica, della nostra esistenza ho sempre coltivato influssi materialistici, accanto a sfumature ulteriori non indifferenti di matrice esoterica o trascendentale, giudicando molto positiva, per questo, l’occasione di conoscere circostanze, riti, movimenti di civiltà, descritti in una trama dialettica pertinente entrambi gli orizzonti di contributo, ossia da un lato di impronta storiografica e culturale, dall’altro inerente invece l’universo delle idee in sé. Apprendo quindi con curiosità, nel paragrafo dedicato da Lattanzi alla Selva Cimina, come varie persone, dal 2010, abbiano intravisto «una figura bassa, inferiore a un metro e mezzo di altezza che incede, più che camminare, con andatura incerta e oscillante. Il corpo ha uno strano colore grigio e l’intera figura è completamente priva della minima peluria».


Claudio Lattanzi


Realtà o visione? Deciderlo non è necessario alla comprensione del libro, poiché, per stimolare una convivenza di elementi disparati da sembrare, per errore, antitetici, l’autore sceglie di enfatizzare l’interesse di ricerca sui fenomeni empirici per i quali sono mai emerse strutture logiche e di spessore immanente attendibili: «globi di luce che volteggiano sulle acque», ad esempio, o costante «odore di zolfo», «strane creature» all'imbocco del Pozzo del Diavolo, caverna situata sul prospiciente Monte Venere, e rumori non decifrati in ville minacciate da spettri. Presenze, di sicuro, alquanto infauste anche se, ascoltando il monito dello scrittore e giornalista francese Tristan Bernard, è giusto sostenerne l’atteggiamento ironico, allorché afferma: «È Dio che ha creato il mondo, ma è il diavolo che lo fa vivere».

Seguendo, comunque, un sentiero dal fontanile in località Canale, superata la faggeta del cono vulcanico, alla cima ecco una radura indotta dalla caduta di imponenti specie arboree della famiglia delle Fagaceae. Da qui inizia la discesa nel fatale pozzo luciferino, con l’apertura dotata di una cavità abbastanza spaziosa, rifugio privilegiato da rapaci notturni. Si tratta della grotta maggiore della regione, e la sua frequentazione conduce all'età προϊστορική (proistorikè). Indagini archeologiche ne hanno testimoniato fasi distinte, le più arcaiche attinenti il periodo del Neolitico. In una visuale mirata, si apprezza un gioco magico di colori: nel versante meridionale prevalenti sono la roverella e l'acero, a differenza del lato nord, di solito in ombra, con folti faggi e qualche cerro. La Tuscia, alimentando dunque una gamma affascinante di echi arcani, «seppur esclusa dai grandi itinerari turistici, o forse proprio per questo motivo», precisa Lattanzi, «presenta una quantità sconfinata di misteri collegati ad un passato denso di eventi che si dispiega dagli Etruschi fino all’epoca moderna».


Il Pozzo del Diavolo


Nell’egemonia etrusca, l’appellativo di Tusciae era attribuito all'Etruria. Nella tarda antichità e nell'Alto Medioevo, denotò una distesa assai vasta, comprendente il dominio storico della Toscana, l'Umbria occidentale e il Lazio settentrionale. Tre macro-aree la identificavano: l'attuale provincia di Viterbo (Vetèrbe, in dialetto) e quella di Roma nord giungendo al Lago di Bracciano, il Latium e l’Umbria soggetti al Ducato di Spoleto, e il territorio toscano conquistato dai Longobardi. Oggi il toponimo, in genere modificato in Alto Lazio, indica il viterbese, tra le foci del Chiarone e del Mignone sulla costa tirrenica, bagnata dal corso del Tevere e varcata dalla Cassia, delimitata da un lembo di Maremma, le conche lacustri di Bolsena e di Vico, i Monti Volsini e Cimini.

Leggendo il volume, matura qua e là la suggestione avvincente di poter assistere ad un'esposizione, alternata con cura, di casi ambigui forniti di princìpi attendibili (i quali non per questo, però, perdono la loro carica di inquietudine) insieme all’enunciazione, in chiave coinvolgente, di enigmi irrisolti, cioè caratterizzati da svariate proposte, per ora fallite, di inserirli in un quadro di ragioni, come dire, persuasive. Molteplici accenni a interrogativi rimangono ad hoc senza risposta: in primis, l’episodio del sacro Graal occultato per volere di Federico II in Castel del Monte in Puglia, magari trasferito dallo stesso imperatore nel palazzo fortificato nelle vicinanze del Monastero di Santa Rosa, distrutto e ridotto a resti esigui.

Alla nascita ufficiale della letteratura italiana è collegato invece il controverso destino delle peccatrici del Bullicame, esiliate dalla cittadinanza presso una sorgente sulfurea nel circondario di Viterbo. Nel XIV canto dell'Inferno se ne occupa Dante, alludendo alle acque intrise del sangue dei martiri Valentino e Ilario: «Tacendo divenimmo la 've spiccia / fuor della selva un picciol fiumicello, / lo cui rossore ancor mi raccapriccia. / Quale del Bullicame esce ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giù sen giva quello». Il riferimento alle prostitute è contenuto, centocinquanta anni dopo, nello statuto cittadino del 1469: «Se vogliono bagnarse, vadino dicte meretrici nel bagno di Bulicame». Ma, secondo alcuni commentatori della Commedia, un amanuense avrebbe sbagliato nel ricopiare il testo, autorizzando con un’erronea trascrizione la storia delle “peccatrici” relegate da un'ordinanza nelle fonti non urbane. Consultando la cronaca, erano invece filatrici di canapa, “pettatrici”, la cui industria era fiorente nel viterbese.


La lapide di Defuk


Di pari difficoltà sarebbe stabilire con strumenti oggettivi i “dati anagrafici” del corpo seppellito della basilica di San Flaviano sulla via Francigena, con la stele: «A causa del troppo Est!Est!!Est!!! qui giace il mio signore Giovanni Defuk». Il sepolcro custodirebbe Johannes Defuk, vescovo tedesco al seguito della carovana di Enrico V di Germania, in viaggio per ricevere a San Pietro, dal Papa, la corona imperiale. Amante del buon vino, l'alto prelato aveva incaricato il servitore Martino di precederlo con il compito di localizzare cantine di pregio, marcando la porta della taverna con “Est”, ossia “C'è”. Il moscatello di Montefiascone lo entusiasmò, scrivendo per ben tre volte il segnale convenuto: “Est! Est!! Est!!!”.  «Constatato di persona quanto Martino fosse nel giusto», racconta Lattanzi, «fu talmente preso da questo vino al punto che abbandonò la carovana dell'im­peratore e non se ne andò più via. Tanto ne bevve che ne morì. Correva l'anno 1113».

Per secoli, il giorno della scomparsa venne celebrato versando un barile di Est!Est!!Est!!! sulla tomba, avendo il fedele servo fatto incidere l’iscrizione ai piedi del monumento funebre. In coerenza all’intelaiatura strutturale del libro, è offerta subito un'altra ipotesi, presumendo la salma appartenga in realtà a Friedrich von Tanne, vassallo di Filippo I di Svevia e duca della Tuscia, caduto in battaglia in quei luoghi: nell'estate del 1234 l'influente arcivescovo di Salisburgo, parente stretto di von Tanne, onorandolo avrebbe lì tumulato il defunto. La pietra sepolcrale, quindi, è probabile sia «la conseguenza di una sepoltura postuma», illustrando «inoltre il motivo per cui il personaggio scolpito sulla lapide, pur essendo identificato sicuramente come un laico, venga spesso ricordato dalla tradizione come un religioso».


Le armi delle "chemical city"


Per concludere, è il momento di tornare al Lacus Ciminius e al suo alone elusivo con sapienza chiarito da Lattanzi. Una mattina di gennaio del 1996, un ciclista, costeggiando il lago vicino a Ronciglione, sentì mancare all’improvviso le forze. Dopo la denuncia alla Procura di Viterbo, si pensò ad un avvelenamento da gas tossici. Il segreto, mantenuto per decenni, fu rivelato: nella vasta regione adiacente, nel mezzo della selva, era situata una fabbrica di armi chimiche, operativa dal ventennio fascista fino agli anni Settanta. Le terribili esalazioni avrebbero originato anche una serie di anomali infortuni stradali registrati nella stessa zona per lungo tempo. Bunker, magazzini sotterranei, caserme, uffici: era stato allestito e nascosto un enorme spazio adibito a esperimenti e stoccaggio di testate a caricamento speciale.

La chemical city mussoliniana era divenuta polo strategico per inserire nel mercato migliaia di tonnellate di prodotti bellici a base di iprite, admsite, fosgene, lavorate in vani insicuri e tutelati da scarsissima igiene. La bonifica del sito iniziò in totale segretezza: gli abitanti non hanno mai avuto il minimo sospetto di quel terrificante arsenale celato nell’area a ridosso del bacino lacustre.

Il messaggio implicito di Claudio Lattanzi, non espresso ma ricavabile, è che, al di là di monoliti e criptici fantasmi, figure diaboliche e globi luminosi, sono le gesta sconsiderate dell’uomo a incutere davvero paura.

 



Claudio Lattanzi

Tuscia misteriosa e insolita.

Esoterismo, leggende nere, enigmi irrisolti, Templari.

Orvieto, Intermedia Edizioni, 2016, pp. 128, € 12,00

 

      

sabato 24 febbraio 2018


 

Cinzia BALDAZZI - “Se questo è un uomo” al Teatro Ghione
Nel reading a cura di Daniele Salvo rivive l’orrore dei lager narrato da Primo Levi.
 

Per gli uomini come sono oggi c’è solo una novità radicale – ed è sempre la stessa: la morte.
Walter Benjamin, suicida nel 1940 per scampare ai nazisti

 

Commentando il reading curato, diretto e interpretato al Teatro Ghione di Roma, dedicato a Se questo è un uomo di Primo Levi, Daniele Salvo ha dichiarato:  

A volte è necessario fermarsi, a riflettere e testimoniare: il teatro non è solo intrattenimento, ma è qualcosa di più. 
 
Ognuno condivide un’opinione analoga, soprattutto perché un simile repertorio artistico possiede ben oltre due millenni di esistenza: dunque, lo abbiamo seguito e lo seguiamo - nelle secolari e molteplici tecniche strutturali e semiotiche - credendo voglia svelare prospettive ulteriori su di noi, sulla bontà e sul potere del male; seppure, in alcune specifiche occasioni, il messaggio scenico in sé è destinato a non raggiungere il traguardo di rendere con efficacia totale il complesso umano, intimo e collettivo, personale e storico prescelto. Infatti, è precisato:  

Il teatro non è sufficiente, non è nemmeno sufficiente a contenere l’emotività e la forza di parole come quelle di Se questo è un uomo: ci sono degli uomini che sono morti per noi, per assicurarci o rassicurare la nostra libertà che oggi noi pensiamo sia gratuita e assolutamente data. Non è così.

Salvo è nel giusto e negli anni ha sempre mostrato di coltivare una Weltanschauung (chiave ideale del mondo, con il ruolo da noi investito nella vita) adeguata a parametri utopici confortati da rispetto e rigore per l’insieme di pertinenza rievocato. E il “rigore” conoscitivo è senz’altro nucleo fondamentale dell’intera poetica leviana, in un procedere unito a sobrietà ed equilibrio nello schema paradigmatico lessicale e sintattico, dove trapela uno studio acutissimo (anche scientifico e antropologico) delle leggi liberticide alla base della società “fuori dal comune” costituita dai lager. L’agghiacciante rapporto-cronaca di Primo Levi dell’esperienza di sterminio concepita dal nazismo, rivive con impeto pressante al Teatro Ghione nella lettura di stralci del testo suddiviso in canti in progressione cronologica, con il regista affiancato da Patrizio Cigliano, Martino Duane e Simone Ciampi.
 
 
È spontaneo chiedersi chi fossimo, siamo mai stati, oppure eravamo, dall’avvìo con la reclusione a Fossoli, nel modenese, quindi ad Auschwitz, nel febbraio 1944, durante il viaggio infernale di Primo Levi verso l’incognito, in un mosaico atroce nell’attualità, con un passato rimosso e un futuro non previsto:

Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere. 

Ne emerge un racconto corale in cui sono intrecciate le voci del campo di lavoro di Monowitz, il distaccamento di Auschwitz, in Alta Slesia, sorto nel 1942 allo scopo di utilizzare con maggiore profitto i deportati nell’impianto Buna-Werke per produrre gomma sintetica. In dodici mesi di tremendi crimini contro l’umanità, lo scrittore conquistò la salvezza essendo un ingegnere chimico: svolgendo una mansione necessaria in un’epoca contingente, fu sottratto alla condanna a morte certa dei cosiddetti Muselmänner. 

Per mia fortuna, sono stato deportato ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.

 
Sul palcoscenico del Ghione, all’Io narrante è adibito il compito di esporre il crudo reale, nella trama densa di allusioni a un’ineluttabile perdita di ogni diritto a esistere: gli ordini impartiti dai nazisti lo attestano, sostituendo l’identità dello Häftling, il prigioniero, con una cifra numerica tatuata sul braccio (il 174-517 è di Levi). Sull’uniforme, invece, è cucita la “categoria”: criminale, politico, ebreo, priva di differenze.

Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
 
L’atmosfera oggettiva è di creature animate-inanimate, in spietata e mera sopravvivenza, con l’unico obiettivo di sfiorare una meta catartica, di riparo, di scudo purificatore dalle peggiori cattiveria e ferocia che possano essere concepite. Non a caso, nell’ultima opera di Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986), risultava evidente quanto l’autore, superstite di una carneficina, di un massacro pianificato, mirasse a edificare una forma conclusiva di catarsi. Un’inclinazione del genere è illuminata nella denuncia implicita nell’epigrafe del saggio, presa in prestito dalla Ballata del vecchio marinaio (The Rime of the Ancient Mariner, 1798) di Samuel T. Coleridge:  

Da quel momento, ad un’ora incerta
quella tormentosa angoscia ritorna:
e finché non ho finito di raccontare la mia storia spaventevole
questo cuore dentro di me brucia. 

 
Del resto, pochi mesi prima, la silloge poetica leviana pubblicata da Garzanti prendeva in prestito proprio il titolo Ad ora incerta (“Since then, at an uncertain hour”). Nel brano del visionario romantico di fine ‘700, abitante della suggestiva e carismatica terra del Lake District, il protagonista subisce un funesto maleficio dovuto all'abbattimento immotivato di un albatro. L'assassinio del solenne volatile, paragonato a «un'anima cristiana», simboleggia un peccato contro Dio e la Natura. L’intreccio pare alluda alla vita e allo scopo dell'artista: allontanato dalla ricerca della Verità, è salvato dal potere della fantasia e rientra per narrare l’avventura infausta ai propri simili.
Nella traccia della parabola sembra scorrere parallela la tragica esperienza di Levi, sopravvissuto al terrore e alle minacce del filo spinato e propenso a nuovi orizzonti grazie al linguaggio letterario fonte di meta-reale, da cui, però, nonostante l’impegno, rimane preclusa una benché minima soglia di riscatto. Se questo è un uomo, sigla del romanzo e della poesia in epigrafe, richiama drammaticamente l’esclamazione indirizzata dall’eremita all’anziano marinaio di Coleridge: “Che razza d’uomo sei tu?” (“What manner of man art thou?”). Il suicidio dello scrittore torinese testimonia dunque la tragedia di “quella” dimensione catartica mai raggiunta. E in qual modo sarebbe stato possibile, se ha ragione Daniele Salvo ad affermare:  

La nostra realtà quotidiana è fatta di illusioni, immagini preconfezionate. Ci sentiamo superiori, dispensiamo giudizi, ci agitiamo al caldo delle nostre case e delle nostre famiglie. Ci “intratteniamo” pensando di “ingannare il tempo”. 

 
Ciò propone e rielabora con sofferenza attuale il celeberrimo incipit del componimento omonimo collocato da Levi in qualità di apertura del libro (ispirata all'antica preghiera della liturgia dello Shemà) e, tra i banchi di scuola, ovunque accolta con disagio e incredulità:  

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e i visi amici:
considerate se questo è un uomo,
che lavora nel fango,
che non conosce pace,
che lotta per mezzo pane,
che muore per un sì o per un no. 

Con un destino non disposto a favorire noi donne: 

Considerate se questa è una donna
senza capelli e senza nome,
senza più forza di ricordare. 

Le pagine “recitate” di Se questo è un uomo procedono esemplificando, con l’arma del raziocinio, l’assurdità e il vastissimo indice irrazionale della barbarie eretta a crimine organizzato in una logica normativa riconosciuta attendibile. Nell’evocare toccante, la dignità degli ebrei catturati è sviluppata in un’aura descrittiva di strenuo e ribadito sacrificio accettato nel preservare il genere umano nell’auspicio di spazi liberatori di cordialità e ragione, laddove, nell’inferno dei lager, perversione e violenza incontrastate tra le stesse vittime purtroppo erano, non di rado, interiorizzate e riprodotte.
 
L’ebreo Theodor W. Adorno, mio ammirato maestro e di moltissimi filosofi e intellettuali nel mondo, agli inizi ha condannato l’estetizzazione della Shoah:  

La critica della cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie.  

Comunque Adorno, tra i padri della Scuola degli Studi Sociali di Francoforte, in epoca successiva chiarì meglio i numerosi fraintendimenti causati dalla sua opinione, arrivando, nel 1966, a sostenere:  

Il dolore incessante ha altrettanto diritto di esprimersi quanto il torturato di urlare; perciò forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere poesie. 

Concludo meditando su un pensiero ulteriore di Salvo:  

Cosa significa oggi, settant’anni dopo, affrontare ancora una volta lo sterminio nazista ed interrogarsi sui motivi e sulle ragioni storiche che portarono l’umanità al periodo più buio della sua storia? In periodo di revisionismo, memoria a breve termine, canzonette, fiction televisive, incontrare la voce di Primo Levi porta a profonde riflessioni sul senso della nostra vita. 

 
Ne sono convinta: ascoltarne il messaggio implica valutare, rifiutando l’ipocrisia, la persistenza del razzismo, nei ghetti neri situati, ad esempio, negli Stati Uniti: e, da noi, soffermarsi sull’intolleranza mostrata ai “diversi” e cercare di comprendere la misura in cui solo con l’appello alla razionalità tale infamia potrebbe essere evitata. Nella civiltà occidentale, Marco Polo e Giovanni Boccaccio non reputavano i cristiani superiori ai cinesi o ai musulmani, eppure, ai loro tempi, non sono mancate sanguinose persecuzioni di ebrei o eretici: occorre recepire con prudenza come il “surplus” offerto da una cultura magari isolata non sia in grado di prevalere. Adesso, con la tecnologia egemone sulla retorica dei mass-media, stabilito un potere colonizzatore dell’inconscio, e non dialettico con le singole coscienze, è indispensabile porre con coraggio, al centro dell’insieme, una grande fratellanza.
Raccontava Primo Levi:  

Sono stati proprio i disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di questo. 

In solidarietà, allora, tentiamo tutti di esserlo. 

 

Se questo è un uomo
dall’opera di Primo Levi
reading a cura di Daniele Salvo
con Daniele Salvo, Martino Duane, Patrizio Cigliano, Simone Ciampi
GHIONE produzioni
 
 

giovedì 22 febbraio 2018


Paola CAPOCELLI – Quando è la malattia a giocare... (racconto breve)





Non so se ricordare, rimpiangere, maledire i giorni divorati dal tempo. So di dover vivere, rischiare l'anima e la mente, oltre ogni ragione che mi impone la sua evidenza.

Sono Lea, giovane, brillante donna, ex in tutto, tranne che nel corto circuito che strazia il mio cervello. Esso è recente, invadente, costante induzione di sbagliate sinapsi, ladre senza certezza della pena. Dimentico, mi perdo, mi angoscio, inadatta a quel mondo di cui non sono più pilastro, ma friabile orpello. Mi sento in colpa perché non riesco più a lavorare, a trovare la mia casa senza chiedere aiuto; mi sento in colpa perché comprendo il mio destino, ma non in perché esso abbia giocato cosi sporco, fino a sradicarmi da me stessa... Sono ancora lucida - un po' - i miei occhi mi sembrano ancora miei e appaiono come sentinelle stanche, in attesa del colpo di grazia verso il limbo della mia SOCIALMENTE SCOMODA malattia.

Ma questo è solo l'inizio. Quotidianamente respiro un'aria compassionevole, ma non riesco a capire fino in fondo il perché: non sono parole, ma sguardi, afflitti da un liquido e abissale senso di pietà, di lutto in vita, che ritengo di non meritare, anche perché mi sento ancora benino e mi impegno ad essere fottutamente utile alla società. Sono un'insegnante e il mio lavoro mi impone lucidità e competenze da cui non posso prescindere, un quotidiano confronto con i miei studenti, assetati di sapere e novità. Per loro leggo spesso, con grande passione, empatia: essa è, con la letteratura, l'unica malattia che ho in animo di trasmettere loro. L'aula, un ambiente senza sorprese, sicuro e accogliente, echeggia solenne di generazioni innaffiate di sogni e consegnate in apparente buona salute alla vita, impegno dei miei anni migliori. 

Quotidianamente mi accompagna la borsa delle certezze, una penna, una rubrica - meglio aver sempre un numero amico - e, da un breve lasso di tempo, una grande stanchezza che, molle, mi possiede. Al mattino devo togliermi di dosso questa zavorra e ritrovare i miei fragili frammenti; non mi arrendo, non voglio disperdere la mia essenza di donna, la mia consapevolezza, frutto di carne e sangue. Il mio consueto cammino, i saluti di cortese abitudine, l'ingresso, i gradini e quel corridoio che d'improvviso, in quel mattino, sembrò ingoiarmi il cervello, lasciando un vuoto che, tuttavia, mi trovò per nulla condiscendente. Cercai, nei nervi tesi del mio volto, un sorriso convincente da indossare e una logica da confutare coi miei studenti. La mia voce divenne ovatta e  in pochi minuti, un' abissale vertigine mi prese, facendomi svenire come corpo morto. 

Mi risvegliai in ospedale, chiesi spiegazioni. Ero stata ingoiata da una voragine di disorientamento spaziale a cui, dopo serrati accertamenti, fu attribuita la generica definizione di malattia neurodegenerativa. Perché?

Non me lo perdonai. Non capivo, e iniziai a vestirmi di solitudine, rabbia, insofferenza. Dovevo difendermi.

Ero stata sempre pronta a indossare la vita, ma quest'abito, nuovo e indesiderato, mi avrebbe allontanata lentamente da essa. Dopo un breve periodo di riposo, tra le asfissianti premure del mio impaurito compagno, volli riprendere il lavoro. Trovai uno stuolo di saggi inquisitori che, in visibile affanno e mal gestito imbarazzo, caldeggiava le mie dimissioni. Le ottennero senza troppa fatica e, come buon senso imponeva, la mia frana esistenziale incominciava a essere drammaticamente veloce: tentai di contenerla, di tenere il controllo delle mie maledette autostrade neuronali, ma invano... La memoria si svuotava all'istante, avevo bisogno di continue conferme, persino sull'identità di coloro che mi erano intorno. Una nebulosa, senza inizio ne' fine, un vortice di frustrante disordine al quale dovevo cominciare a rassegnarmi.

Mai avrei pensato di dovermi arrendere, visto che ero sempre stata la donna dell'ultima rima e dell'ultima nota nell'intera sinfonia della mia vita. Il mio tempo mi fu, da quel momento, paradossalmente restituito: ormai il mio micromondo non attendeva più niente da me ne' io da esso. Ogni mattina, monitorata da un piccolo cerca persone, cominciai a correre, sfogando il mio impotente sgomento nella velocità dei miei passi, nel sudore che speravo liquefacesse ogni molecola difettosa, restituendomi il mio diritto alla vita. La stanchezza rubava i pensieri e io mi sentivo vuota e leggera. Il furto della memoria mi portava in una solitudine parallela alla mia vita e in un silenzio quasi vergine. Ero in uno stato di primitiva assenza e di infantile essenza, preda di curiosità verso esperienze mai considerate prima. 

Iniziarono ad attrarmi i colori, le linee, i disordini creativi, l'assenza di recinti e la possibilità di esprimermi senza doveri, senza giudici. Erano i miei sogni a colori, le surreali e lucide allucinazioni che creavo nel mio nuovo mondo, in cui chiaro era solo il mio nome, ma non chi fossi davvero. Non ero più io, ma l'altra “me”, una nuova “me” che colorava con le mani, schiaffeggiando i fogli, ricreando inconsapevolmente tinte insolite, forme irregolari, accostamenti azzardati. Senza progetti il colore divenne la mia seconda possibilità, senza rischi nei confronti del mondo. 

Mi sembrava di rinascere, di uscire dalla nicchia della mia sconfitta senza colpe. Per anni accompagnai i miei sventurati neuroni in questo viaggio a colori, creando intere collezioni di apparente follia che furono il mio nuovo visto d'ingresso nel cosmo sociale che mi aveva posizionata sul ciglio incerto di una strada al buio.

Avevo smesso di nutrirmi di sterile sofferenza per rivivermi, rinascere, per caso, senza logoranti inquietudini, perché io ero “altro”, nuova e possibile, oltre ogni previsione, convinta di aver avuto un'altra possibilità. Le mani non risentivano del mio lieve tremore, il colore sembrava piegarsi ad esse, al loro strano andamento. Preferivo lavorare i colori del tepore d'autunno, creare senza uno scopo, senza un progetto, senza più il mio nome.

Non ero più Lea: quella sventurata era stata ripudiata da una creatura nuova, un'abile, incosciente donna, povera di neuroni, ma ancora ricca di un cuore lungimirante.






Napoletana, classe 1972, madre di tre figli, Paola Capocelli è insegnante di Lettere alla scuola media. Ha una formazione filosofica, che si affianca alla passione per la scrittura e la comunicazione. È presente in numerose antologie poetiche, tra cui Zephiroun (Aletti Editore). La sua prima silloge è Metamorfosi (2016, TraccePerLaMeta Edizioni). È in corso di pubblicazione la raccolta Nel Grembo della parola (2018, Monetti Editore) con post-fazione di Cinzia Baldazzi.

 

L'essere umano è memoria. L'identità di un uomo o di una donna, persino il concetto stesso di identità non avrebbero alcun senso - nulla avrebbe senso - senza la memoria.La frase precedente, ed ogni frase detta o scritta prima di essa si perderebbe nel nulla.


Questo rende le malattie neurodegenerative un male particolarmente temibile: nella memoria, i volti dei cari si slacciano dai loro nomi e dagli eventi che li hanno resi parte della propria vita. Sorpresi da questo male, saremmo forse ancora circondati dai nostri affetti ma essi, stando abbracciati a noi, non potrebbero più davvero toccarci.


Mentre il nostro cervello andrebbe deformandosi, rimarrebbe solo la memoria degli altri a continuare a darci una identità. Cosa succederebbe dentro di noi in questo terribile scenario, cosa penseremmo di noi, cosa e come si susciterebbero i ricordi della nostra vita vissuta guardandoci allo specchio, non è dato sapersi con certezza.

Questo delicato racconto, che non chiama mai la malattia per nome, quasi a dimenticarla, quasi prendendosi gioco del suo nefasto effetto sulla memoria;questo racconto, scritto camminando a passi ondulati attorno al confine tra prosa e poesia;questo racconto di Paola Capocelli ci presenta uno scenario diverso.


Persa la propria identità lavorativa, persa la propria stabilità familiare, persa la propria quotidianità, la protagonista finisce in un limbo dove ci si potrebbe facilmente disperare; ma in quel luogo questa donna, contro ogni previsione, trova un'opportunità. Sorridere a Caronte, sporcarsi le mani di colore, diluirlo in acque letee e lasciarlo libero di imbrattare fogli. Non importa il risultato: non importa imprimere un'opera finita nella memoria dei posteri; la memoria è perduta. La parola “memoria” è perduta.


La propria vita non ha passato, non ha futuro: l'opportunità nell'aver perso tutto questo è che la vita, ora, diventa solo un unico gesto da vivere nel presente. Un presente che si fa tanto puntuale, assoluto, da divenire eterno in ogni attimo.


Arriverà il traghetto per l’altrove. A quel punto, si sarà scoperta per la prima volta la creatura nuova che si era. Ancor prima del proprio primo ricordo. (matteo tonnicchi)




mercoledì 21 febbraio 2018


“Cattivi dentro”
Quattro incontri a cura di Lorenzo Spurio


 

Ciclo di incontri tematici e di approfondimento attorno al libro
 
Cattivi dentro.
Violenza, dominazione e deviazione in alcune opere scelte della letteratura straniera
di Lorenzo Spurio.

Quattro incontri da febbraio a maggio a Moie (AN), con letture e brani di film. 

 
 

Sabato 24 febbraio alle ore 17:30 presso la Biblioteca La Fornace di Moie di Maiolati Spontini (AN), con il Patrocinio del Comune di Jesi e della Provincia di Ancona, si terrà il primo appuntamento del ciclo di eventi letterari attorno al recente saggio Cattivi dentro. Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere della letteratura straniera (Arezzo, Helicon, 2018) di Lorenzo Spurio.
L’opera, che si apre con una breve nota critica di Lucia Bonanni, è risultata vincitrice assoluta del Premio Letterario Casentino di Poppi (AR) nella passata edizione, sezione saggistica per inediti. L’autore è stato insignito del premio il 18 giugno 2017 presso l’Abbazia di San Clemente.
Il volume raccoglie una serie di saggi che analizzano autori e opere della letteratura straniera (anglosassone ma non solo) focalizzandosi sull’approfondimento di contesti ambientali emarginati, situazioni di anaffettività e distanza sociale, regressione e imbarbarimento, nonché di violenza, sadismo e paranoia. Tra i vari saggi, il poeta e critico letterario jesino ha dedicato letture esegetiche e annotazioni critiche a opere di William Golding, Ian McEwan (sul quale ha precedentemente discusso la tesi di laurea magistrale e pubblicato varie monografie in volume tanto da risultare uno dei maggiori studiosi nel nostro paese), Anthony Burgess, Christine Angot, Chritopher Hitchens, Jeffrey Eugenides e altri, compresi alcuni classici intramontabili di età precedenti alla nostra: Federico García Lorca, Henrik Ibsen e Virginia Woolf.
D’accordo con l’organizzazione della Biblioteca La Fornace di Moie, Lorenzo Spurio ha deciso di proporre la presentazione del libro in quattro momenti per poter approfondire, di volta in volta, anche per mezzo di supporti audio-visivi, alcune tematiche da un punto di vista letterario, permettendone anche una riflessione delle problematiche in campo sociale, nella nostra attualità. Ogni incontro, infatti, oltre a una trattazione del tema in oggetto da parte del curatore, con proiezione di passi dei relativi film da cui sono tratte le opere e letture di brani, provvederà a fornire interventi più tecnici con l’intervento di docenti e professionisti.
Il calendario dell’intero ciclo di eventi è così organizzato: sabato 24 febbraio “Bambini cattivi: disadattamento e incomprensione”, sabato 17 marzo “Dominazione e violenza sessuale: alcune tracce narrative”, domenica 8 aprile “Essere soggiogati: il gruppo sociale sedotto dal tiranno”, domenica 6 maggio “Così esco dal mondo: alcuni suicidi letterari”.
Il tema del primo incontro, dal titolo volutamente provocatorio, è “Bambini cattivi: disadattamento e incomprensione” (24 febbraio). Il critico Lorenzo Spurio relazionerà in merito alle narrazioni Il signore delle mosche di William Golding, L’inventore di sogni di Ian McEwan e Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon nelle quali, in modi e con intenzioni differenti, risulta centrale il tema dell’infanzia. «Si parlerà di disagio infantile e giovanile, bullismo, cattivo insegnamento, sotto l'etichetta di "bambini cattivi”», racconta Spurio: «È chiara la provocazione: i bambini non sono per nascita cattivi, ma possono diventarlo in determinate condizioni».
La poetessa pesarese Michela Tombi effettuerà le letture di alcuni brani scelti dei tre romanzi mentre la poetessa Maria Luisa D’Amico, con una grande esperienza di insegnamento alle spalle, affronterà alcuni aspetti relativi alle problematiche di ragazzi in età scolare.
L’evento è liberamente aperto al pubblico.


 

IL CALENDARIO

Primo incontro: sabato 24 febbraio 2018 ore 17:30
BAMBINI CATTIVI: DISADATTAMENTO E INCOMPRENSIONE
L’incontro è teso a indagare le condizioni di privazione, disagio e delirio dell’universo infantile focalizzandosi sull’analisi delle opere Il signore delle mosche di William Golding, L’inventore di sogni di Ian McEwan e la sua prima produzione breve e Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon con letture di brani scelti e proiezione di estratti dei relativi film o altro materiale documentaristico.
Overture poetica sul tema dell’infanzia di Elvio Angeletti.
Interventi di Maria Luisa D’Amico (ex insegnante e poetessa) e Alessandra Montali (insegnante e scrittrice).
Letture di Michela Tombi (poetessa).
 

Secondo incontro: sabato 17 marzo 2018 ore 17:30
DOMINAZIONE E DEVIANZA SESSUALE: ALCUNE TRACCE NARRATIVE
L’incontro è volto a fornire un excursus di brani narrativi di opere che girano attorno al tema del sesso, impiegato come forma di violenza, subordinazione e devianza con riferimenti ad autori internazionali e particolare attenzione a Una settimana di vacanza della francese Christine Angot.
Intervento di Laura Molinelli (Gruppo Culturale “Quello che le donne non dicono”).
Letture di Patrizia Giardini (recitatrice).
 

Terzo incontro: domenica 8 aprile 2018 ore 17:30
ESSERE SOGGIOGATI: IL GRUPPO SOCIALE SEDOTTO DAL TIRANNO
L’incontro è teso a indagare il rapporto sociale che si instaura tra il cattivo, nella forma del boss o del dittatore e della pericolosità della trasmissione di idee irresponsabili e antidemocratiche. Dalla politica colonialista dipinta in Cuore di tenebra di Joseph Conrad alla brutalità di una gioventù sadica in Arancia meccanica sino all’esperimento nazista ne L’onda di Todd Strasser. A supporto verrà impiegato materiale visivo con estratti scelti dei relativi film.
Intervento di Stefano Bardi (collaboratore rivista Euterpe).
Letture di Gioia Casale (Consigliere Ass. Cult. Euterpe).
 

Quarto incontro: domenica 6 maggio 2018 ore 17:30
COSÌ ESCO DAL MONDO: ALCUNI SUICIDI LETTERARI
Attenzione verrà posta sul suicidio letterario vale a dire nei confronti di personaggi che, calati nelle vicende proprie dei dati intrecci, compiono l’insano gesto: Adela in La casa di Bernarda Alba di Federico Garcia Lorca, Eyolf in Ibsen, i suicidi a catena nel romanzo generazionale di Jeffrey Eugenides. La serata provvederà anche a un excursus attorno alla significativa incidenza della pratica autolesionistica in alcuni insigni letterati, con un approfondimento al caso Virginia Woolf.
Interventi di Valtero Curzi (filosofo e poeta) ed Elena Coppari (scrittrice).
Letture di Amneris Ulderigi (recitatrice e performer). 

 
Associazione Culturale Euterpe
Tel. 327 5914963  

Lorenzo Spurio
Tel. 328 3929819

 

IL LIBRO
 
Lorenzo Spurio
Cattivi dentro
Dominazione, violenza e deviazione in alcune opere della letteratura straniera
Arezzo, Helicon, 2018, pp.243, € 15,00
 

Dalla quarta di copertina - Testo di Lucia Bonanni  

Per associazioni di significato tra immagine e scrittura, la copertina di questo libro propone una fotografia che fa parte del progetto “The Factory Photographs” del regista David Lynch e riporta uno dei residui industriali delle zone in disuso. La foto, rigorosamente in bianco e nero, si distingue per lo stile visivo e narrativo, la componente surrealista e le suggestioni enigmatiche con rimando ai luoghi urbani e alle raffigurazioni della mente. Il libro risulta essere una coralità tematica che allo stile letterario coniuga pensieri e immagini quali simbologie degli aspetti più intimi della psiche con lo slacciamento dalle convenzioni sociali, il disagio, la violenza e l’emarginazione. Nel saggio di Lorenzo Spurio la marginalizzazione è causa di dinamiche sociali che non danno luogo alle interazioni e all’adattamento all’interno degli spazi pubblici neppure in quella fascia urbana definita come “zona di transizione” e che fa da confine tra la città e la periferia. L’analisi attenta e particolareggiata dei fatti e dei personaggi presenti nei testi in esame verte su quella “malattia culturale” che investe adulti deviati e giovani disillusi il cui processo esistenziale evidenzia la diversità che assume una propria connotazione rispetto al tema del disagio e a quello del conflitto. Come nella realtà oggettiva, i bambini e i ragazzi imparano da tutti, specialmente dagli adulti, ed il loro modello antropologico si riassume nella speculazione, nello sfruttamento e nell’esclusione. Quella analizzata dal critico è una folla atipica, organizzata intorno a dinamiche relazionali che non seguono un ordine di regole prestabilite, ma le negano e le sovvertono fino a giungere a esiti estremi, reiterati nel tempo e all’interno di un ribellismo esasperato e pericoloso. Ecco allora che nella disamina ermeneutica le “figure dalle strane movenze” non sono altro che espressione dei comportamenti borderline dei “Cattivi dentro” che l’autore osserva nelle loro attitudini negative e nei loro atteggiamenti spersonalizzanti in un percorso di scrittura originale, metodico, interpretativo e dialettico.


INDICE DEL LIBRO
INTRODUZIONE
NOTA DELL’AUTORE
PREFAZIONE a cura di Lucia Bonanni
Cap. 1 Imbarbarimento e fantascienza in L’isola del dottor Moreau di H.G. Wells
Cap. 2 L’età del tempo perduto: Il signore delle mosche di William Golding
Cap. 3 Ritorno alle barbarie: L’isola di cemento di J.G. Ballard
Cap. 4 L’esigenza del capo di fare il cattivo: Arancia meccanica di Anthony Burgess
Cap. 5 L’ideologia che mai muore. La sperimentazione del male in L’Onda di Todd Strasser
Cap. 6 Una settimana di sesso. Appunti su Una settimana di vacanza di Christine Angot
Cap. 7 Consigli a un giovane ribelle di Christopher Hitchens
Cap. 8 La perdita del guinzaglio della psiche: Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Mark Haddon
Cap. 9 Il potere che mai si scalfisce: La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca
Cap. 10 Il cuore nero del colonizzatore in Africa: Cuore di tenebra di Joseph Conrad
Cap. 11 L’inventore di sogni di Ian McEwan: da bambino a uomo maturo
Cap. 12 Violenza e deviazione: incroci creativi nel primo Ian McEwan
Cap. 13 Panino al prosciutto: l’infanzia e l’adolescenza di Chinaski
Cap. 14 Il suicidio come forma di liberazione dal male. L’annegamento nell’Ouse e l’ultimo carteggio su Virginia Woolf
Cap. 15 Periglioso exempla in una casa d’assenza: il suicidio in Le vergini suicide di Jeffrey Eugenides
Cap. 16 Il proposito del bene e la forza del male: Il piccolo Eyolf di Henrik Ibsen annegato nell’acqua dell’indifferenza