martedì 6 febbraio 2018


“Scaffale” di Marco CAMERINI - “Lincoln nel Bardo” di G. Saunders
 

L’esordio narrativo dello scrittore texano George Saunders rievoca, tra storia e invenzione, la morte di Willie, figlio dodicenne del presidente Abraham Lincoln, in piena Guerra di Secessione. 
 
 
C’è la Storia nel primo, particolarissimo e intrigante romanzo di George Saunders Lincoln nel Bardo (Feltrinelli, 2017), analizzata con l’apporto di un ricco apparato di saggi e documenti ufficiali e privati, dai fondamentali contributi della studiosa M. Leech (moglie di R. Pulitzer e vincitrice dell’omonimo premio nel 1943 per Reveille in Washington 1860-1865) a quelli di E. Keckley, confidente dei Lincoln (schiava affrancata e autrice dell’autobiografia Dietro le scene: trenta anni da schiava e quattro anni alla Casa Bianca), sino alle preziose testimonianze di maggiordomi, domestici, membri dell’entourage presidenziale, tutor, senatori, medici e finanche guardiani cimiteriali, raccolte dallo scrittore con apprezzabile sforzo critico-filologico.
È storia che il dodicenne Willie (William) Lincoln, figlio di Abraham e Mary T. Lincoln - dall’indole affabile, “solare, schietto, gentile, impavido, precocemente sensibile all’ingiustizia”, con l’impronta della magnetica, curiosa e vivace personalità paterna - sia morto il 20 febbraio 1862 di febbre tifoide, quando la Guerra di Secessione, “imprecisata specie di catastrofe epica e bellicosa, enorme organismo ingovernabile”, non aveva ancora un anno. È storia che il decesso sia avvenuto in una notte di luna piena [1] nel vivo di uno dei discussi ricevimenti organizzati dalla famiglia presidenziale, “arcobaleno anomalo di profumi, ventagli, parrucchini, smorfie, fiori esotici nel quale ogni nazione, razza, grado, età, statura, ampiezza, tonalità, pettinatura, postura e fragranza sembrava rappresentata”, “ostentazione immonda in tempo di guerra” (p. 21) con sontuosi buffet di variegate e grottesche sculture in zucchero - navi da guerra, pagode cinesi, villette svizzere… da mandare in estasi Gadda - alveari di charlotte russa sciamanti realistiche api, trionfi di fagiani, pernici, prosciutto della Virginia e migliaia di ostriche appena sgusciate… mentre Willie moriva…”uno sbaglio far baldoria in quel modo”. [2]
È storia che, sepolto il figlio nel giorno in cui venivano resi pubblici gli elenchi dei caduti dopo la sanguinosa vittoria dell’Unione a Fort Donelson, il Presidente dagli occhi limpidi, espressivi, tristi, del colore più vario (grigio, castano, azzurro?... vi sono dedicate p. 202 e 203), profondamente triste e pensoso, altruista ma anche monomaniacale, ambizioso e non disposto ad accettare critiche alla gestione sconsiderata del conflitto come all’educazione dei figli, “l’uomo meno bello che molti avessero visto” ma di un ipnotico fascino tutto interiore, abbia chiesto e ottenuto (non senza difficoltà e resistenze) che ne venisse aperta la bara, mentre la moglie metteva fine, per la sofferenza, alla sua vita attiva di madre precipitando nella catatonia della nevrosi. È storia persino che un uomo snervato e trasformato dal dolore in un bambino debole e passivo “continuasse a colmare, per più giorni, la piccola forma di attenzioni, accarezzandone i capelli, lisciando e risistemando le sue pallide mani di bambola”, come confermarono i guardiani cimiteriali in occasione delle notturne e solitarie visite di Lincoln.
 
 
Il disperato tentativo di un padre, divorato dal rimorso senza poterlo ammettere, di arrestare lo spirito del figlio al di qua del labile confine tra l’esistenza e il trascendente - zona franca e sospesa in cui tutto è al limite e le fibre pronte a transitare (per citare gli splendidi versi di Rebora) vengono trattenute dall’egoismo umano di chi (soprav)vive - avvia l’originale trama fantastica di Lincoln nel Bardo, un libro formalmente sperimentale e di non facile lettura che molto (sin troppo, l’autore ne converrà) deve all’Antologia di Spoon River.
Fra gli Inferi popolati di cani e avvoltoi, megere che s’ingozzano di torta nera e fanciulle/streghe, sullo sfondo di antri arancioni, ponti crollati, campi di granoturco funestati dall’alluvione, ombrelli squarciati da venti silenziosi e la Cappella, da cui lo spirito di Willie non può separarsi, sotto gli sguardi atterriti di tre guide/garanti/custodi/ dell’Oltremondo cimiteriale - personaggi dialoganti e voci narranti onniscienti (hans vollmann, roger bevin III e il reverendo everly thomas… minuscoli i nomi, quando si è di Là) - alla fine si materializza la “Comunità dei Morti”. Speranzosi di non risultare poi così sgradevoli, compaiono “in limine” incoraggiati dalle visite del loro Presidente, strisciano, sostano timidamente torcendosi le mani increduli di felicità al pensiero che qualcuno “di quell’altro posto” si degni di toccare uno di loro e sussurrare dolci parole all’orecchio come se una salma fosse ancora degna di rispetto. Maltrattati, trascurati, ignorati, fraintesi, a volte anche utili, notevoli, magari anche amati ma sempre insoddisfatti e, comunque, mai abbracciati con tanto trasporto: “Ti cucivano, ti pittavano alla bisogna ma appena eri come volevano non ti toccavano più in quel modo”.
Sono molti, si affollano per sfiorare il giovanissimo Lazzaro e, grazie a lui, ricordare, rimproverare, chiarire, chiedere (anche perdono), ristabilire (spesso giustizia) mentre l’onda di rimpianti e pulsioni terrene monta rischiando di sommergere un ordine superiore troppo fragile perché ancora tutto immanente e il debito verso E. Lee Masters si fa davvero ingombrante: mr.maxwell boise, derubato e accoltellato, eddie e betsie baron, dimenticati da figlie dissolute e arriviste, merkel, amante del bello e preso a calci da un toro, i coniugi west (sempre meticolosi nel maneggiare il camino, non si spiegano l’incendio della propria casa, salvo trovarsi a fianco l’incendiario con le sue ragioni), mrs. delaney che, Francesca rovesciata, confessa la relazione assai poco dantesca con un cognato avido e corrotto, elise traynor, “andata via a 14 anni da luminose promesse d’infinite sere d’amore”, jane ellis “bambina dalle grandi speranze e dalle amare illusioni” ancora innamorata delle sue tre bambine…poi “i Piccoli” che, adorati da tutti, grandi “come un filone di pane”, spandono una luce candida mentre cercano l’abbecedario e “i tre Scapoli” (amati da nessuno, annunciati da una pioggia di cappelli, continuano giocosi a cercarlo l’amore), insieme a troppe donne morte precocemente senza saldare i conti con la vita, scienziati brillanti e misconosciuti, prostitute e rapinatori che avrebbero molto da dire a proprio discapito.
 
 
Verso questa eterogenea compagine che una vena di malcelata ironia rende, alla fine, assai poco inquietante - in un crescendo onirico che sublima la prosa (mai stata veramente tale) in lirismo metafisico a tratti francamente ermetico - avanza, seducente tentazione del ritorno all’esistenza mentre “miriadi di rampicanti cristallizzano gli spiriti in una spirale di eterna morte”, la “Processione dei Vivi” fra canti colmi di nostalgia, speranza, incoraggiamento, pazienza, calde brezze odorose, cibi seducenti in coppe di smeraldo e magici ruscelli ove tutto scorre meno che acqua. Ostinatamente cercati/chiamati da ombre che hanno creduto (come dar loro torto?) di poter accampare i medesimi, miracolosi diritti di un figlio tardivamente amato, sono figlie ritrovate (spesso solo somiglianti… dieci “false madri” per Willie!), bellissime, giovani spose, mariti più splendidi e seducenti, amanti pudicamente celati/rimossi che, in una cascata di petali rossi, rosa, gialli, bianchi viola e oro, giungono a (ri)portare - per se stessi, prima che per i defunti - le lusinghe della terra, occasioni perdute, premure trascurate, gioie dimenticate o negate in un concitato ponte-passaggio fra “il qui e l’oltre dove c’è solo barbarie e illusione”.
Un rumore di fiammata e la “materialucente” di un’anima si espande nel barlume, solo nel fugace barlume, di quella nuova esistenza/reicarnazione che segue alla morte nel Bardo (transizione) del tibetano Libro dei Morti. Ma probabilmente non può né deve essere così. Il finale di Lincoln nel Bardo - doverosamente ribadita la ripresa evidente di un modello insuperabile - va letto anche solo per essere discusso e riesce comunque a coniugare storia e invenzione grazie a uno stile assolutamente originale (eccellente la traduzione), è forse scontato ma letterariamente non banale e vede protagonista proprio il piccolo Willie, degno erede di tanto genitore.
Non vogliamo togliere al lettore il piacere di scoprirlo. Ha a che fare con la codardia, la dignità, la misericordia dell’accettazione, una battaglia vinta e un sole che sorge… 




[1] Tutti gli storici e i testimoni presenti si soffermano su questo particolare: si trattava di una luna “stupenda, dorata […] abbagliante ad ogni finestra […] simile ad una vecchia mendicante desiderosa di essere invitata ad entrare”.
[2] Virulente e documentate le accuse ai Lincoln di aver organizzato l’ennesima festa mentre il figlio versava già in pessime condizioni. Nemmeno la stampa satirica si risparmiò: feroce e tristemente nota la vignetta citata da Saunders in cui il piccolo rivolge al padre la battuta: ”Un bicchiere, prima che io vada…”.
 
George Saunders
Lincoln nel Bardo (Lincoln in the Bardo)
trad. Cristiana Mennella
Milano, Feltrinelli, 2017, pp.352, € 18,50 

 
 

 

2 commenti:

  1. La grottesca tragedia della vita ci ha chissa' quante volte imposto di vedere e soffrire per scene come questa..Vita e morte..Giustizia e i giustizia..In tutto,cio' che prevale sono gli affetti.Che danno,solo essi,un senso vero. Alle cose...

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    1. Giusto, Valentina: gli affetti, con la loro emozionante precarietà unita a un indubbio respiro di natura universale.

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