venerdì 9 febbraio 2018

Marco MARESCA - Brutta (racconto breve)






Lo specchio era il mio peggior nemico. O il miglior alleato, dipende dai punti di vista. Ogni giorno, e più volte al giorno, mi osservavo attentamente. Prima guardavo la mia figura per intero, poi scendevo nei particolari. Cercavo un appiglio per cambiare opinione su di me, per convincermi di poter forse, un giorno, arrivare a piacere a qualcuno.
Per anni ho implorato lo specchio di aiutarmi, di farmi vedere quello che da sola credevo di non riuscire a vedere. L’ho pregato di farmi cogliere un particolare interessante, qualcosa degno di attenzione, un motivo per accettarmi ed essere accettata. Ma tutto ciò non è mai accaduto.
Sono brutta, questa è la verità. Ci ho messo un po’ per capirlo, ma alla fine ce l’ho fatta. È stata come una rivelazione. Dopo che ho compreso questo, curiosamente, sono stata più serena. Ho smesso di cercare. Come chi cerca per una vita Dio e alla fine si rende conto che non esiste, e questo lo rasserena, lo fa stare meglio, dà finalmente un senso alla vita che prima, perso dietro a una inutile ricerca, non riusciva a raggiungere.
Sono brutta, ma sono serena. Ho smesso di cercare in me una bellezza che non esiste.
La scorsa settimana, però, mia madre è venuta a trovarmi. Non lo fa quasi mai, così come non mi telefona, per cui appena è entrata le ho chiesto che cosa l’avesse portata a venire. Lei, risentita, mi ha risposto che non le serve un motivo per andare a trovare sua figlia. Io ho fatto finta di crederci e abbiamo cambiato discorso. Poi, dopo nemmeno dieci minuti, eccola che non resiste. E mi rivela il motivo per cui è passata.
Da qualche giorno il suo macellaio di fiducia, il signor Venanzio, le va ripetendo la stessa cosa, e cioè che io sono andata a fare la spesa da lui. Mia madre gli dice ogni volta che non è possibile, perché non io non abito proprio lì vicino, e che peraltro faccio un lavoro che non mi fa rientrare a casa prima delle otto di sera. Ma lui insiste, e dice che sono venuta proprio io.
Mentre mia madre parlava, mi sono accorta che aveva cambiato espressione del viso. Era diventata triste. Alla mia domanda, ha risposto che lei abita sopra il macellaio e non capisce perché, se sono andata a fare la spesa da Venanzio, non mi sono fatta viva. A nulla è valso spiegarle che io non ci vado mai da Venanzio, e che la carne, come sa bene, la prendo soltanto dal mio macellaio, quello che sta dalla parte opposta del mio isolato. Però lei si è convinta che io vengo sotto casa sua ed evito di incontrarla. Ha detto persino di avermi visto mentre andavo via.
Quella sera abbiamo cenato in silenzio, poi lei se n’è andata. Io sono rimasta perplessa, e dopo una breve riflessione, ho deciso di andare a vedere che cosa stesse succedendo. Mia madre mi aveva detto che io andrei da Venanzio sempre alla riapertura pomeridiana. Così, il giorno dopo, sono andata.
Credo che chiunque mi guardi in questo momento, riesca ancora a vedere nei miei occhi lo sconcerto che ho provato nel vedermi all’interno della macelleria a parlare con Venanzio. Ero proprio io che stavo ordinando cotolette e macinato. Sono rimasta immobile per un tempo indefinito, poi ho iniziato a scuotermi. Chi era quella donna? Se non io, chi?
C’è voluto un po’ prima di capire. Nel frattempo sono rimasta fissa sul volto di quell’io che non ero io. Perché non c’era dubbio che ero io, però era altrettanto vero che io stavo fuori dalla macelleria a guardare.
Ho guardato meglio. I capelli erano come i miei, dello stesso taglio e colore, però avevano un modo di cadere sulle spalle che non riconoscevo, che li rendeva luminosi, attraenti, carezzabili.
Anche gli occhi, evidenziati con cura da linee e ombre, emanavano luce. Sembravano sorridere più della bocca, che pure, mentre parlava, sorrideva. La bocca, appunto. Carnosa ma non troppo, come la mia, e senza rossetto, non si chiudeva mai del tutto, lasciando trapelare una sensualità che non riconoscevo.
Ma quello che mi ha stupito di più è stato il suo modo di muoversi. Ho avuto l’impressione di trovarmi di fronte a me stessa recitante su un palco. La testa, il corpo, le mani, perfino le gambe, tutto si muoveva in modo teatrale, col fine di apparire, di rendersi manifesta. Era invitante, piacevole da vedere. Faceva venire voglia di toccarla, di abbracciarla, di accoccolarsi accanto a lei. E Venanzio non era immune a quel fascino. La guardava, era evidente, così come era evidente la sua voglia di uscire dal bancone e toccarla.
Dopo alcuni minuti di questa visione, ho capito che mi piaceva. Ma com’era possibile? Era come me, sembrava la mia gemella. Eravamo identiche. Chiunque avrebbe potuto sbagliarsi. Anche mia madre ci aveva confuse.
Mi piaceva una come me. A me, a cui non piacevo assolutamente, e che avevo fatto del mio essere oggettivamente brutta una bandiera, un inno nazionale.
Sono rimasta un tempo lunghissimo in auto, senza pensare, fissa a guardare dentro la macelleria, anche dopo che lei se n’era andata. Cosa mi stava succedendo? Proprio non riuscivo a pensare.
Poi, improvvisamente, mi sono scossa. Ho messo in moto e sono partita. Ho guidato lentamente fino a casa. Ho posteggiato, sono scesa e mi sono diretta verso il portone. Però non sono entrata. Ho tirato dritto, ho svoltato a destra e, giunta all’ingresso della mia macelleria, sono entrata.




Nel castello di Nymphenburg, vicino Monaco di Baviera, è conservata una collezione di ritratti di donne bellissime messo insieme da Ludovico I. Questo fu il re che vide l’esplodere delle ribellioni del 1848, le quali trasformarono le monarchie assolute presenti nell’allora frammentata Confederazione degli stati tedeschi in monarchie costituzionali.

Non è quindi figlia dei soli tempi moderni quest’ossessione per l’estetica, sopratutto femminile. La differenza sostanziale con i tempi moderni è che mentre un tempo queste esaltazioni dell’apparenza erano limitate ai salotti più esclusivi, con il progredire delle tecnologie esse hanno dilagato nei mezzi di comunicazione di massa. Questa ossessione è divenuta un vero e proprio mito quotidiano della Bellezza nel momento in cui le tecnologie hanno permesso di alterare in maniera sofisticata le fotografie, rendendo la perfezione non più relegata ad atmosfere rarefatte e distanti di quadri ad olio, ma accettata come standard nelle tangibili e realistiche fotografie che ci scorrono dinnanzi agli occhi tutti i giorni: su schermi di computer e televisione, pannelli pubblicitari, copertine patinate; dietro ai quali se non c’è più tela bianca, c’è un’ancora più comune carta, o ancora più evanescenti impulsi elettrici. Sono queste immagini di finte donne meravigliose, angeliche o diaboliche o tutte le sfumature intermedie che Photoshop è in grado di offrire, l’impossibile canone col quale le donne di tutti i giorni e di ogni estrazione sociale sono costrette a misurarsi.

E questo diventa ancora più vero e frustrante nell’era di internet, dove la propria foto su un profilo, una singola foto, può decidere in un brevissimo istante se qualcuno voglia fidarsi di noi, entrare in contatto con noi, giudicare i nostri costumi e la nostra personalità.

È un grande atto di coraggio e di ribellione porsi di fronte allo specchio e dire liberamente “sai cosa c’è? Sono brutta”, come fa la protagonista del racconto di Marco Maresca. Riconoscere di essere distanti dai canoni estetici, affermare che il proprio viso non è colore su tela, o carta, o dato da impulsi elettrici, che non è un mezzo di propagazione luminosa da alterare con fondotinta, ombretti, rossetti e mascara, è liberatorio.  Emancipare il proprio viso per essere quella parte del nostro corpo fatta di terminazioni nervose, muscoli e sangue collegata da vicino con la sede dei nostri pensieri ed emozioni, è anche un momento di progresso individuale.   

Quindi, pur vedendo una propria sosia apparentemente più gradevole da guardare, tanto vale non farci tanto caso e tornare alla propria macelleria, dove ci conoscono meglio.(matteo tonnicchi)

3 commenti:

  1. Si cerca qualcosa quando si è convinti che esiste. Si smette di cercarlo quando si arriva all'estrema convinzione che non esiste. Di qui l'inutilita della ricerca. La fine dell'attesa, il crollo della speranza. Non solo, ma cercando un qualcosa in positivo, si ha la sorpresa di trovare l'opposto di quel qualcosa. Allora si accetta questo risultato o può anche accadere che ci si accorge di aver trovato quel qualcosa, senza esserne consapevoli, perché il nostro cercare è un cercare legato al nostro pensiero di mettere in relazione le cose, di confrontarle. Invece se rivediamo il nostro modo di pensare,tutto cambia. Ad esempio il brutto diventa bello perché ci piace. Il racconto mi ha portato a riflettere su questo.

    RispondiElimina