Paola CAPOCELLI – Quando è la malattia a giocare... (racconto breve)
Non so se ricordare, rimpiangere, maledire i giorni divorati dal tempo. So di dover vivere, rischiare l'anima e la mente, oltre ogni ragione che mi impone la sua evidenza.
Sono Lea, giovane, brillante donna, ex in tutto, tranne che nel corto circuito che strazia il mio cervello. Esso è recente, invadente, costante induzione di sbagliate sinapsi, ladre senza certezza della pena. Dimentico, mi perdo, mi angoscio, inadatta a quel mondo di cui non sono più pilastro, ma friabile orpello. Mi sento in colpa perché non riesco più a lavorare, a trovare la mia casa senza chiedere aiuto; mi sento in colpa perché comprendo il mio destino, ma non in perché esso abbia giocato cosi sporco, fino a sradicarmi da me stessa... Sono ancora lucida - un po' - i miei occhi mi sembrano ancora miei e appaiono come sentinelle stanche, in attesa del colpo di grazia verso il limbo della mia SOCIALMENTE SCOMODA malattia.
Ma questo è solo l'inizio. Quotidianamente respiro un'aria compassionevole, ma non riesco a capire fino in fondo il perché: non sono parole, ma sguardi, afflitti da un liquido e abissale senso di pietà, di lutto in vita, che ritengo di non meritare, anche perché mi sento ancora benino e mi impegno ad essere fottutamente utile alla società. Sono un'insegnante e il mio lavoro mi impone lucidità e competenze da cui non posso prescindere, un quotidiano confronto con i miei studenti, assetati di sapere e novità. Per loro leggo spesso, con grande passione, empatia: essa è, con la letteratura, l'unica malattia che ho in animo di trasmettere loro. L'aula, un ambiente senza sorprese, sicuro e accogliente, echeggia solenne di generazioni innaffiate di sogni e consegnate in apparente buona salute alla vita, impegno dei miei anni migliori.
Quotidianamente mi accompagna la borsa delle certezze, una penna, una rubrica - meglio aver sempre un numero amico - e, da un breve lasso di tempo, una grande stanchezza che, molle, mi possiede. Al mattino devo togliermi di dosso questa zavorra e ritrovare i miei fragili frammenti; non mi arrendo, non voglio disperdere la mia essenza di donna, la mia consapevolezza, frutto di carne e sangue. Il mio consueto cammino, i saluti di cortese abitudine, l'ingresso, i gradini e quel corridoio che d'improvviso, in quel mattino, sembrò ingoiarmi il cervello, lasciando un vuoto che, tuttavia, mi trovò per nulla condiscendente. Cercai, nei nervi tesi del mio volto, un sorriso convincente da indossare e una logica da confutare coi miei studenti. La mia voce divenne ovatta e in pochi minuti, un' abissale vertigine mi prese, facendomi svenire come corpo morto.
Mi risvegliai in ospedale, chiesi spiegazioni. Ero stata ingoiata da una voragine di disorientamento spaziale a cui, dopo serrati accertamenti, fu attribuita la generica definizione di malattia neurodegenerativa. Perché?
Non me lo perdonai. Non capivo, e iniziai a vestirmi di solitudine, rabbia, insofferenza. Dovevo difendermi.
Ero stata sempre pronta a indossare la vita, ma quest'abito, nuovo e indesiderato, mi avrebbe allontanata lentamente da essa. Dopo un breve periodo di riposo, tra le asfissianti premure del mio impaurito compagno, volli riprendere il lavoro. Trovai uno stuolo di saggi inquisitori che, in visibile affanno e mal gestito imbarazzo, caldeggiava le mie dimissioni. Le ottennero senza troppa fatica e, come buon senso imponeva, la mia frana esistenziale incominciava a essere drammaticamente veloce: tentai di contenerla, di tenere il controllo delle mie maledette autostrade neuronali, ma invano... La memoria si svuotava all'istante, avevo bisogno di continue conferme, persino sull'identità di coloro che mi erano intorno. Una nebulosa, senza inizio ne' fine, un vortice di frustrante disordine al quale dovevo cominciare a rassegnarmi.
Mai avrei pensato di dovermi arrendere, visto che ero sempre stata la donna dell'ultima rima e dell'ultima nota nell'intera sinfonia della mia vita. Il mio tempo mi fu, da quel momento, paradossalmente restituito: ormai il mio micromondo non attendeva più niente da me ne' io da esso. Ogni mattina, monitorata da un piccolo cerca persone, cominciai a correre, sfogando il mio impotente sgomento nella velocità dei miei passi, nel sudore che speravo liquefacesse ogni molecola difettosa, restituendomi il mio diritto alla vita. La stanchezza rubava i pensieri e io mi sentivo vuota e leggera. Il furto della memoria mi portava in una solitudine parallela alla mia vita e in un silenzio quasi vergine. Ero in uno stato di primitiva assenza e di infantile essenza, preda di curiosità verso esperienze mai considerate prima.
Iniziarono ad attrarmi i colori, le linee, i disordini creativi, l'assenza di recinti e la possibilità di esprimermi senza doveri, senza giudici. Erano i miei sogni a colori, le surreali e lucide allucinazioni che creavo nel mio nuovo mondo, in cui chiaro era solo il mio nome, ma non chi fossi davvero. Non ero più io, ma l'altra “me”, una nuova “me” che colorava con le mani, schiaffeggiando i fogli, ricreando inconsapevolmente tinte insolite, forme irregolari, accostamenti azzardati. Senza progetti il colore divenne la mia seconda possibilità, senza rischi nei confronti del mondo.
Mi sembrava di rinascere, di uscire dalla nicchia della mia sconfitta senza colpe. Per anni accompagnai i miei sventurati neuroni in questo viaggio a colori, creando intere collezioni di apparente follia che furono il mio nuovo visto d'ingresso nel cosmo sociale che mi aveva posizionata sul ciglio incerto di una strada al buio.
Avevo smesso di nutrirmi di sterile sofferenza per rivivermi, rinascere, per caso, senza logoranti inquietudini, perché io ero “altro”, nuova e possibile, oltre ogni previsione, convinta di aver avuto un'altra possibilità. Le mani non risentivano del mio lieve tremore, il colore sembrava piegarsi ad esse, al loro strano andamento. Preferivo lavorare i colori del tepore d'autunno, creare senza uno scopo, senza un progetto, senza più il mio nome.
Non ero più Lea: quella sventurata era stata ripudiata da una creatura nuova, un'abile, incosciente donna, povera di neuroni, ma ancora ricca di un cuore lungimirante.
Napoletana, classe
1972, madre di tre figli, Paola Capocelli è insegnante di Lettere alla scuola
media. Ha una formazione filosofica, che si affianca alla passione per la
scrittura e la comunicazione. È presente in numerose antologie poetiche, tra
cui Zephiroun (Aletti Editore). La
sua prima silloge è Metamorfosi
(2016, TraccePerLaMeta Edizioni). È in corso di pubblicazione la raccolta Nel Grembo della parola (2018, Monetti
Editore) con post-fazione di Cinzia Baldazzi.
L'essere umano è memoria. L'identità di un uomo o di una donna, persino il concetto stesso di identità non avrebbero alcun senso - nulla avrebbe senso - senza la memoria.La frase precedente, ed ogni frase detta o scritta prima di essa si perderebbe nel nulla.
Riporto il commento di Mapi Tenerife:
RispondiEliminaMagnifica esposizione dei sentimenti che accompagnano l’inganno della vita. Reagire non è da tutti e saperlo fare, trovando una nuova se stessa, diventa vera "aggressione" della vita.
Grazie Mapi. La vita ci presenta sempre sfide nuove, e la differenza si vede quando le si affrontano.
EliminaBellissima e toccante. "So di dover vivere...", dice tutto.
RispondiEliminaHai ragione, Sergio, dice veramente: "tutto".
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