venerdì 16 febbraio 2018


Cristina PRINA – Niente pioggia stanotte (racconto breve)

 
 
 
 
«Quanto vuoi?».
Mi giro di scatto. Lo guardo. 
Avrà trent’anni, l’aria strafottente e distratta di chi pensa di avere il mondo in mano. Maschio di razza, si vede. Tratti decisi, un filo di barba scura del giorno prima, catenina d’oro che sbuca da una camicia sapientemente sbottonata su di un torace villoso ma non troppo. Jeans di marca probabilmente, non so. Si sporge verso il finestrino lato passeggero e mi fissa impaziente, senza neanche vedermi. Talmente sicuro del mio ruolo che neanche riesce a scorgere le differenze tra me e una puttana.
Ma perché sono qui, sotto un lampione, a quest’ora della sera? Che inutile domanda. Lo so perfettamente perché. Sto, anzi stavo, aspettando lui. Non verrà, lo so. Ora lo so. Sono due ore e un quarto, ormai, che sto sfidando freddo, umidità e gente curiosa attendendo il suo arrivo. Ci vediamo alle nove mi ha detto stamattina quando ci siamo sentiti per telefono. Qualcosa nel tono della sua voce mi aveva fatto suonare un campanello d’allarme, in effetti, ma spesso tendo a drammatizzare le cose quindi mi sono detta che erano solo mie fantasie. Paranoie, anzi. E con Vittorio me ne faccio in continuazione. Forse le delusioni precedenti, forse il mio carattere insicuro su tutto, forse perché lui è così bello, affascinante. E io, invece, così anonima. Non bella, non particolarmente intelligente, non brillante, poco di compagnia e decisamente priva di senso dell’umorismo. Cosa ci avrà trovato in me? Non lo so e, finora, non l’ho voluto sapere. Mi sono detta che per una volta nella vita avrei solo dovuto chiudere gli occhi e non farmi domande, prendendo ciò che mi veniva dato.
Quindi, ora, sono qui. Alle undici e un quarto di un venerdì sera. In questa strada poco frequentata, alla mercé di gente di tutti i tipi. Gente che passa frettolosa diretta chissà dove. Sembra che chiunque abbia un posto dove andare, di corsa. Che ognuno di loro sappia esattamente ciò che ha lasciato e ciò che troverà. Tutti. Tranne me.
Io sto qui, infreddolita, nervosa. Il cellulare in mano. Inutile apparecchio. Non ha suonato, non si è illuminato. Nessun segnale di vita. Ho chiamato io, ogni mezz’ora all’inizio. A intervalli sempre più brevi e isterici, trascorsa la prima ora e mezzo. Ormai ho rinunciato. Lo tengo in mano solo per scena. Se qualcuno passa, mi vede con il cellulare in mano e pensa: è appena arrivata e sta chiamando qualcuno che ora arriverà. Ogni tanto lo porto, spento, all’orecchio, tanto per sviare i sospetti. Con la fottuta paura che possa squillare, facendomi fare una figura di merda.
«Oh, allora … ? Ma che ti credi, che ce l’hai solo tu?».
No, certo. Lo so che sono una delle tante e neanche delle migliori. Solo che non sono una puttana, amico mio. Ma che te ne frega a te? Sicuramente appartieni a quella razza di uomini che ci giudicano tutte uguali per via di una minigonna o di un seno un po’ troppo in vista.
Anche Vittorio è un po’ così, in fondo. A parole no. Assolutamente. Io ho un gran rispetto per le donne …
Sì, certo. Per chi? Le sante, le madonne. La madre, forse. La sorella no, è figlio unico. E comunque le donne, per lui, meritano rispetto a patto che … quel “che” così pieno di aspettative lo rende maschilista. Come è giusto che sia. È un uomo.
Anche il suo amore per me era “a patto che”. Condizioni, sempre condizioni. Ti amo se tu, ti voglio bene se …
Io, invece, sempre là, pronta ad amare senza domande, senza se. Senza condizioni.
Io, sempre a perdonare mancanze, debolezze, difetti. A giustificare, a trovare scappatoie e alternative al suo egoismo. Alla sua indifferenza.
Peggio per me.
Ora sto qui. Ed è quasi mezzanotte. E mi domando che cazzo ci sto ancora a fare sotto questo lampione triste più di me ad aspettare un uomo che non verrà mai. Lo so e non voglio saperlo. Vigliacca. Illusa.
Non verrà. Non ha trovato il coraggio di dire “basta”. L’ha detto a modo suo.
«Senti, bella, io me ne vado. Se non hai voglia di lavorare, che cazzo esci a fare la sera?», mi apostrofa il tizio sull’auto.
«Me lo stavo domandando anche io. Infatti ora vado via. Ma tu sei un coglione».
Rido, sto ridendogli in faccia.
Lui, evidentemente sorpreso dalla mia risposta, mi guarda trasecolato. Forse, ormai, non sperava più in un mio cenno di vita. Mi osserva meglio, sembra finalmente valutarmi.
«Ehi, ma tu non sei una puttana…».
«Ma dai. Che genio», gli rispondo, «da cosa l’avresti capito?». Ormai sono in bilico tra disperazione e menefreghismo. Peggio di così, questa serata, non potrebbe andare. Quindi, tanto vale levarmi una piccola soddisfazione.
«Beh, non so. Ti ho vista qui, sotto il lampione, di sera. E poi la minigonna, gli stivali. Sì, insomma. Scusami. È che da queste parti ne girano tante. A me, poi, neanche piacciono troppo. È che stasera la mia ragazza mi ha lasciato e volevo vendicarmi andando con una di quelle, capisci? Ma era un’idea stupida, me ne rendo conto. Scusami ancora».
Sta per ingranare la marcia ed andar via. No. Non voglio che vada. È carino. È solo, come me. È triste, come me.
«Ti va un cornetto di mezzanotte?», gli domando.
Mi guarda, ora mi vede. Lo so. Sorride. Un mezzo sorriso.
Come inizio, può bastare.
«Offro io», mi dice, aprendomi lo sportello.
Comincia a piovere. Giusto in tempo.
 

La storia dell’architettura e della moda femminile occidentali sono naturalmente collegate: dalla caduta dell’Impero Romano, abbiamo visto guglie gotiche tendere sempre più verso l’alto, sempre più appuntite e flesse tra rosoni e vetri istoriati, quindi le donne indossavano abiti semplici resi più slanciati da linee lunghe; poi, con i secoli, strutture assoggettate dalla logica rinascimentale, quindi abiti più aderenti alle geometrie della figura umana; poi ambienti pervasi da una scenica teatralità seicentesca, quindi gonfi abiti con elaborate e pesanti stoffe; poi la decorazione grottesca si indora e diventa  estroso rococò, e l'abito si fa arioso e svolazzante. Ad un certo punto, dal Neoclassicismo in avanti, notiamo due processi paralleli: un revival di tutti i periodi precedenti da un lato, in architettura e nella moda, ed il farsi sempre più austero ed essenziale delle linee e delle decorazioni.
Ora siamo in un’epoca dove si bada molto all’utilità pratica, e l'orpello è visto con sdegno. Non si può più dare la colpa a una donna se viene confusa con una prostituta, come nel racconto di Cristina Prina, se le mode che la rivoluzione sessuale unita al bisogno di essenzialità non le permettono di coprirsi troppo.
Se ci si veste per sedurre, ci si scopre, lasciandosi addosso solo quello che serve. C'è grande libertà nel farlo, seppure qualcuno ancora si confonda o si voglia confondere.
Oltre ad antichi corpetti soffocanti e pesanti armature di fanoni, tuttavia, si è perso anche qualcos'altro in favore dell’essenzialità: le dolci lungaggini del corteggiamento. È fin troppo facile oggi trovarsi come la nostra protagonista, sotto la pioggia, a piatire risposte sul display di un telefono, con la piena consapevolezza data dalla infallibilità della tecnologia che il destinatario vede i nostri tentativi e li ignora, in un violento silenzio.
Non importa quindi se, per caso, una cenerentola sia vestita da santa, principessa o puttana e se, per caso, il suo principe venga a soccorrerla da un castello, un palazzo o una macchina sotto la pioggia.
Quando ci si trova, anche per caso, si è al di fuori del tempo. (matteo tonnicchi)
 









 

2 commenti:

  1. Il contenuto di questo racconto breve, ricco di un brio che stempera decisamente le note amare che lo caratterizzano, mi rimanda al tema della maschera. Quella maschera che ciascuno di noi porta come una seconda pelle celando la propria identità più profonda agli altri , se non addirittura a se stessi. E non si tratta di maschere indossate per ingannare intenzionalmente l’eventuale interlocutore o per mistificare la propria interiorità , ma di atteggiamenti, di parole, di particolari che si ricompongono in un involontario puzzle teso a mascherare pensieri ed emozioni .La maschera spesso non cela solo il volto: nel caso dei due protagonisti, cela l’intera figura: lei , per via della minigonna, degli stivali e del luogo stabilito per l’appuntamento con l’uomo amato, viene scambiata per una prostituta; lui, con la sua camicia “sapientemente sbottonata, quel tanto che basta a mostrare la catenina ed un torace villoso ma non troppo”, ha i connotati del “fighetto” maschilista, magari pure figlio di papà, che cerca un modo come un altro di ammazzare la propria noia. E solo quando l’equivoco si scioglie, ( grazie alla presenza di spirito della donna che sembra finalmente riemergere dal suo stato di prostrazione ) i due si rivelano per quello che sono: due anime dolenti che per un attimo intravedono la “nudità” dell’altro. Al di là di queste riflessioni “ filosofiche “ sulla maschera e sulla conseguente difficoltà di comunicazione che costituiscono una costante della condizione umana, reputo importante sottolineare gli aspetti a mio avviso più gradevoli del racconto : la capacità dell’autrice di tessere un velo di ironia ed auto-ironia in grado di avvolgere l’intera struttura stemperandone l’amarezza intrinseca; l’ abilità nel dare voce all’ansia della protagonista che affida al proprio cellulare le speranza e la cocente delusione per un lui che l’ha lasciata nel più vigliacco dei modi; la scelta di vocaboli ( anche quelli tratti da un gergo quotidiano non proprio aulico), l’uso di frasi nominali per tratteggiare la drammatica comicità della vicenda e , infine, la conclusione- non conclusione che lascia al lettore il diritto e il piacere di scegliere il finale più consono alla propria fantasia e ai propri desideri.

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  2. Mi hai fatto venire in mente le maschere di Pirandello. Grazie per la tua analisi Alice.

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