Cinzia BALDAZZI - “Se questo è un uomo”
al Teatro Ghione
Nel reading a cura di
Daniele Salvo rivive l’orrore dei lager narrato da Primo Levi.
Per gli uomini
come sono oggi c’è solo una novità radicale – ed è sempre la stessa: la morte.
Walter Benjamin, suicida nel 1940 per scampare ai
nazisti
Commentando
il reading curato, diretto e
interpretato al Teatro Ghione di Roma, dedicato a Se questo è un uomo di Primo Levi, Daniele Salvo ha dichiarato:
A volte è necessario
fermarsi, a riflettere e testimoniare: il teatro non è solo intrattenimento, ma
è qualcosa di più.
Ognuno
condivide un’opinione analoga, soprattutto perché un simile repertorio
artistico possiede ben oltre due millenni di esistenza: dunque, lo abbiamo
seguito e lo seguiamo - nelle secolari e molteplici tecniche strutturali e semiotiche
- credendo voglia svelare prospettive ulteriori su di noi, sulla bontà e sul
potere del male; seppure, in alcune specifiche occasioni, il messaggio scenico in
sé è destinato a non raggiungere il traguardo di rendere con efficacia totale il
complesso umano, intimo e collettivo, personale e storico prescelto. Infatti, è
precisato:
Il teatro non è
sufficiente, non è nemmeno sufficiente a contenere l’emotività e la forza di
parole come quelle di Se questo è un uomo:
ci sono degli uomini che sono morti per noi, per assicurarci o rassicurare la
nostra libertà che oggi noi pensiamo sia gratuita e assolutamente data. Non è
così.
Salvo è nel giusto e negli anni ha sempre mostrato di
coltivare una Weltanschauung (chiave
ideale del mondo, con il ruolo da noi investito nella vita) adeguata a
parametri utopici confortati da rispetto e rigore per l’insieme di pertinenza
rievocato. E il “rigore” conoscitivo è senz’altro nucleo fondamentale
dell’intera poetica leviana, in un procedere unito a sobrietà ed equilibrio
nello schema paradigmatico lessicale e sintattico, dove trapela uno studio
acutissimo (anche scientifico e antropologico) delle leggi liberticide alla
base della società “fuori dal comune” costituita dai lager. L’agghiacciante rapporto-cronaca
di Primo Levi dell’esperienza di sterminio concepita dal nazismo, rivive con impeto
pressante al Teatro Ghione nella lettura di stralci del testo suddiviso in
canti in progressione cronologica, con il regista affiancato da Patrizio
Cigliano, Martino Duane e Simone Ciampi.
È spontaneo chiedersi chi fossimo, siamo mai stati,
oppure eravamo, dall’avvìo con la reclusione a Fossoli, nel modenese, quindi ad
Auschwitz, nel febbraio 1944, durante il viaggio infernale di Primo Levi verso
l’incognito, in un mosaico atroce nell’attualità, con un passato rimosso e un futuro
non previsto:
Dalla feritoia,
nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi cèche, infine
polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno
percorreva interminabili pinete nere.
Ne
emerge un racconto corale in cui sono intrecciate le voci del campo di lavoro
di Monowitz, il distaccamento di Auschwitz, in Alta Slesia, sorto nel 1942 allo
scopo di utilizzare con maggiore profitto i deportati nell’impianto Buna-Werke per
produrre gomma sintetica. In dodici mesi di tremendi crimini contro l’umanità,
lo scrittore conquistò la salvezza essendo un ingegnere chimico: svolgendo una
mansione necessaria in un’epoca contingente, fu sottratto alla condanna a morte certa dei
cosiddetti Muselmänner.
Per mia fortuna, sono stato deportato
ad Auschwitz solo nel 1944, e cioè dopo che il governo tedesco, data la
crescente scarsità di manodopera, aveva stabilito di allungare la vita media
dei prigionieri da eliminarsi, concedendo sensibili miglioramenti nel tenor di
vita e sospendendo temporaneamente le uccisioni ad arbitrio dei singoli.
Sul palcoscenico del Ghione, all’Io narrante è adibito
il compito di esporre il crudo reale, nella trama densa di allusioni a un’ineluttabile
perdita di ogni diritto a esistere: gli ordini impartiti dai nazisti lo attestano,
sostituendo l’identità dello Häftling, il
prigioniero, con una cifra numerica tatuata
sul braccio (il 174-517 è di Levi). Sull’uniforme, invece, è cucita la
“categoria”: criminale, politico, ebreo, priva
di differenze.
Per la prima volta ci siamo accorti che la nostra
lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo.
Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è
pensabile. Nulla è più nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i
capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci
capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo
trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa
ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga.
L’atmosfera oggettiva è di creature animate-inanimate,
in spietata e mera sopravvivenza, con l’unico obiettivo di sfiorare una meta catartica,
di riparo, di scudo purificatore dalle peggiori cattiveria e ferocia che possano
essere concepite. Non a caso, nell’ultima opera di Primo Levi, I sommersi e i salvati (1986), risultava
evidente quanto l’autore, superstite di una carneficina, di un massacro
pianificato, mirasse a edificare una forma conclusiva di catarsi. Un’inclinazione del genere è illuminata nella denuncia implicita
nell’epigrafe del saggio, presa in prestito dalla Ballata del vecchio marinaio (The
Rime of the Ancient Mariner, 1798) di Samuel T. Coleridge:
Da quel momento, ad
un’ora incerta
quella tormentosa
angoscia ritorna:
e finché non ho
finito di raccontare la mia storia spaventevole
questo cuore dentro
di me brucia.
Del
resto, pochi mesi prima, la silloge poetica leviana pubblicata da Garzanti prendeva
in prestito proprio il titolo Ad ora
incerta (“Since then, at an uncertain
hour”). Nel brano del visionario romantico di fine ‘700, abitante della
suggestiva e carismatica terra del Lake District, il protagonista subisce un funesto maleficio dovuto all'abbattimento immotivato
di un albatro. L'assassinio del solenne volatile, paragonato a «un'anima
cristiana», simboleggia un peccato contro Dio e la Natura. L’intreccio pare
alluda alla vita e allo scopo dell'artista: allontanato dalla ricerca
della Verità, è salvato dal potere della fantasia e rientra per narrare l’avventura infausta ai propri simili.
Nella
traccia della parabola sembra scorrere parallela la tragica esperienza di Levi,
sopravvissuto al terrore e alle minacce del filo spinato e propenso a nuovi
orizzonti grazie al linguaggio letterario fonte di meta-reale, da cui, però, nonostante
l’impegno, rimane preclusa una benché minima soglia di riscatto. Se questo è un uomo, sigla del romanzo e
della poesia in epigrafe, richiama drammaticamente l’esclamazione indirizzata
dall’eremita all’anziano marinaio di Coleridge: “Che razza d’uomo sei tu?” (“What manner of man art thou?”). Il suicidio dello scrittore torinese testimonia dunque
la tragedia di “quella” dimensione catartica mai raggiunta. E in qual modo sarebbe
stato possibile, se ha ragione Daniele Salvo ad affermare:
La nostra realtà
quotidiana è fatta di illusioni, immagini preconfezionate. Ci sentiamo
superiori, dispensiamo giudizi, ci agitiamo al caldo delle nostre case e delle
nostre famiglie. Ci “intratteniamo” pensando di “ingannare il tempo”.
Ciò
propone e rielabora con sofferenza attuale il celeberrimo incipit del componimento
omonimo collocato da Levi in qualità di apertura del libro (ispirata all'antica
preghiera della liturgia dello Shemà) e, tra i banchi di scuola, ovunque accolta
con disagio e incredulità:
Voi che vivete
sicuri
nelle vostre tiepide
case,
voi che trovate
tornando a sera
il cibo caldo e i
visi amici:
considerate se
questo è un uomo,
che lavora nel
fango,
che non conosce
pace,
che lotta per mezzo
pane,
che muore per un sì
o per un no.
Con
un destino non disposto a favorire noi donne:
Considerate se
questa è una donna
senza capelli e
senza nome,
senza più forza di
ricordare.
Le
pagine “recitate” di Se questo è un uomo
procedono esemplificando, con l’arma
del raziocinio, l’assurdità e il vastissimo indice irrazionale della barbarie eretta
a crimine organizzato in una logica normativa riconosciuta attendibile. Nell’evocare
toccante, la dignità degli ebrei catturati è sviluppata in un’aura descrittiva
di strenuo e ribadito sacrificio accettato nel preservare il genere umano nell’auspicio
di spazi liberatori di cordialità e ragione, laddove, nell’inferno dei lager, perversione
e violenza incontrastate tra le stesse vittime purtroppo erano, non di rado, interiorizzate
e riprodotte.
L’ebreo
Theodor W. Adorno, mio ammirato maestro e di moltissimi filosofi e intellettuali
nel mondo, agli inizi ha condannato l’estetizzazione della Shoah:
La critica della
cultura si trova dinanzi all’ultimo stadio della dialettica di cultura e
barbarie. Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la
consapevolezza del perché è diventato impossibile scrivere oggi poesie.
Comunque
Adorno, tra i padri della Scuola degli Studi Sociali di Francoforte, in epoca successiva
chiarì meglio i numerosi fraintendimenti causati dalla sua opinione, arrivando,
nel 1966, a sostenere:
Il dolore incessante
ha altrettanto diritto di esprimersi quanto il torturato di urlare; perciò
forse è sbagliato aver detto che dopo Auschwitz non si può più scrivere poesie.
Concludo
meditando su un pensiero ulteriore di Salvo:
Cosa significa oggi,
settant’anni dopo, affrontare ancora una volta lo sterminio nazista ed
interrogarsi sui motivi e sulle ragioni storiche che portarono l’umanità al
periodo più buio della sua storia? In periodo di revisionismo, memoria a breve
termine, canzonette, fiction televisive, incontrare la voce di Primo Levi porta
a profonde riflessioni sul senso della nostra vita.
Ne
sono convinta: ascoltarne il messaggio implica valutare, rifiutando l’ipocrisia,
la persistenza del razzismo, nei ghetti neri situati, ad esempio, negli Stati Uniti:
e, da noi, soffermarsi sull’intolleranza mostrata ai “diversi” e cercare di comprendere
la misura in cui solo con l’appello alla razionalità tale infamia potrebbe essere
evitata. Nella civiltà occidentale, Marco Polo e Giovanni Boccaccio non reputavano
i cristiani superiori ai cinesi o ai musulmani, eppure, ai loro tempi, non sono
mancate sanguinose persecuzioni di ebrei o eretici: occorre recepire con
prudenza come il “surplus” offerto da una cultura magari isolata non sia in grado
di prevalere. Adesso, con la tecnologia egemone sulla retorica dei mass-media, stabilito
un potere colonizzatore dell’inconscio, e non dialettico con le singole coscienze,
è indispensabile porre con coraggio, al centro dell’insieme, una grande fratellanza.
Raccontava
Primo Levi:
Sono stati proprio i
disagi, le percosse, il freddo, la sete, che ci hanno tenuti a galla sul vuoto
di una disperazione senza fondo, durante il viaggio e dopo. Non già la volontà
di vivere, né una cosciente rassegnazione: ché pochi sono gli uomini capaci di
questo.
In
solidarietà, allora, tentiamo tutti di esserlo.
Se questo è un uomo
dall’opera di Primo Levi
reading a cura di Daniele Salvo
con Daniele Salvo, Martino Duane, Patrizio
Cigliano, Simone Ciampi
GHIONE produzioni
Che dire, cara Cinzia, se non che ogni volta trovi sempre le parole più consapevoli per esprimere impressioni e convinzioni difficilmente confutabili; io non ho assistito al reading e proprio per questo la mia opinione si lega e si riferisce esclusivamente alle tue affermazioni.quindi non ci sono stati condizionamenti di sorta. So solo che, dopo aver riletto da pochissimo l'opera principale di P. Levi, ritrovo nel tuo commento tutti gli elementi fondamentali della sua analisi, tutta la carica di disperazione (anzi, forse nemmeno questa, visto lo schiacciamento totale dell'emotività attuata nei campi di prigionia) e tutta l'assurdità che la vita porta con sè quando la follia "umana" supera ogni limite. Sicuramente hai dato voce alle mie sensazioni con una chiarezza che non saprei trovare in me né tanto meno trasformarla in parole; non saprei nemmeno dire quale punto del commento mi abbia colpito in modo particolare, ma non mi è sfuggito il tuo riferimento al rigore antropologico dell'autore, considerando che uno dei capitoli del libro che più mi hanno "parlato" della sua incredibile lucidità , è proprio quello in cui lui "devia" dal filo narrativo principale ed affronta un 'analisi socio-antropologica delle relazioni umane, in una condizione di vita estrema, dove si incontrano e si scontrano innumerevoli gruppi umani ed etnie ciascuno con la propria lingua, le proprie tradizioni e le proprie credenze. Il capitolo, se non erro si apre proprio con l'identificazione della vita nel lager con il più gigantesco esperimento sociale ed antropologico della storia.Grazie, ancora una volta ,di mostrare considerazione per il mio giudizio. Buon proseguimento di serata
RispondiEliminaGrazie ancora una volta per aver accolto con profondità, tra le mie righe il nucleo, le varie sfaccettature del messaggio che intendevo trasmettere. Ovviamente il messaggio è ricavato dall'opera di Primo Levi e dal reading drammaturgico di Daniele Salvo ma anche dal fondo del mio pensiero sulla violenza, il male e la possibilità (e speranza mai persa) di scampare queste sorti.
EliminaGentile Cinzia, io trovo che tutta l'opera di Primo Levi, e la sua messa in opera, altro non siano che il Memento che, ad ogni uomo, che visse o meno queste atrocità, debba essere fatto: che ciascuno essere, anche vivente, è un essere degno e dotato di sua consapevolezza e dignita'.Gli sguardi, persi, disperati, degli uomini e donne che furon deportate, ci invitano a riflettere sulla nostra piu' profonda umanita': noi, possiamo chiamarci uomini, per il solo fatto che viviamo? O un compito piu' alto, di unione delle umane sofferenze, ci eleva?
RispondiEliminaConsideriamo se questi, che agiscono, o con ferocia, o con indifferenza, nelle guerre sparse per il mondo, o commettono crimini, per sete di denaro, o quant'altro...Siano uomini..
Eppure, cara Valentina, sono d'accordo, dovrebbero esserlo...
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