Anna
e la sua valle: i “piccoli” e i “grandi”
Il
“Passim” della poesia – di Cinzia BALDAZZI
Arnad
è un piccolo paese della bassa Valle d'Aosta. Conserva affascinanti
architetture militari, civili e religiose. Appena fuori del paese,
attraverso fitti castagneti si raggiunge il santuario di
Notre-Dame-des-Neiges. Nelle tre maggiori salumerie si vende il
celebre lardo DOP, forse il migliore d'Italia.
Il
caro amico Charles MecCharles, pur vivendo in città, non lo ha
dimenticato. Il suo contributo alla pagina Facebook di Arnad è
costante, tra iniziative attuali e ricordi del passato. Ha riaperto
per noi Novale
d'Arnad,
introvabile libro di novelle pubblicato negli anni '70 dalle
associazioni culturali del posto per tener viva la memoria di luoghi
e persone, e ne ha scelto alcune pagine.
«Anna
è una bambina che nel 1930 frequentava le elementari di Arnad, un
paesino della bassa valle», racconta Charles: «Dire che frequentava
le elementari è fuorviante: in realtà c'era un unica maestra che
seguiva un'unica classe composta da allievi che avevano età
variabile, dai sei anni in su. Anna è figlia di contadini, il suo
mondo sono pomeriggi interi a pascolare... e a pensare».
Per
la rubrica “Il passim
della poesia”, ecco il racconto di Anna, giovanissima narratrice di
novant'anni addietro.
Era
nato da poco, e non sapeva niente: non aveva avuto il tempo neppure
di conoscere la paura, una cosa che gli uomini come gli animali
imparano tra le prime. All'ombra della stalla distingueva, nei primi
giorni, appena quelle grandi masse di carne muoversi e fare versi ora
lamentosi, ora dolci, ora minacciosi: non sapeva che erano mucche,
che davano il latte, che mangiavano erba come la sua mamma capra,
tanto più piccola e silenziosa. Ma era curioso, testardo e
intelligente come ogni vero capretto.
E
un giorno lui, piccolo, sfidò quella cosa grande che si muoveva,
tutta ventre, zampe, corna e coda, tutto un pericolo ed un
ammonimento. Ma lui non sapeva neppure cosa voleva dire essere
piccoli o grandi,
e questa fu la sua fortuna. Si avvicinò cauto, e la mucca non lo
degnò d'uno sguardo, in principio: che poteva mai sapere da lei il
figlio di quella cosa ridicola che era la capra? Un animale al quale
il padrone non dava il fieno, ma la magra olina, e spesso era lui a
doversela andare a cercare ai margini del precipizi!
E
il cucciolo di quella razza inferiore si avvicinò sempre più,
annusò l'odore dolciastro che la grande "cosa" emanava,
osservò incuriosito il pennello strano della coda e quei ridicoli
corni, così diversi da quelli aguzzi ed armoniosi di sua madre. Ed
osò: quella montagna sciocca l'avrebbe lasciato fare, ne era sicuro.
La mucca soffiò infastidita, cercò di sbatterlo giù, mise in moto
anche il pennello della coda, come se si trattasse d'un moscone più
insistente dei soliti. Tanto, non ce l'avrebbe mai fatta: neppure suo
figlio, il vitello, si sarebbe permesso quell'imprudenza...
Ma
si ingannava. Ben presto gli zoccoletti duri del capretto riuscirono
a fermarsi sulla schiena della "Regina della Stalla", lui
che era un ospite appena tollerato! E di lassù, guardò in basso,
come un alpinista che ammira la cima appena scalata. La mucca aveva
alzato il muso, dagli occhi un po' stupidi, e lo guardava stupefatta.
Lui la fissava con i suoi occhietti da piccolo diavolo, e non
fiatava. Ma poi esclamò: «Tu sei grossa, ma legata. Io sono
piccolo, ma libero» (doveva averlo imparato salendo): «Per questo
ti ho sfidata e vinta!» E la mucca: «Ma io ho la mia buona erba...
guardami la pancia... Tu rimarrai una cosetta magra e striminzita,
piccolo per sempre!».
E
il dialogo finì qui, perchè avevano ragione tutti e due. E il
capretto ridiscese e la mucca si rimise a mangiare ingorda, ognuno
racchiuso nel proprio mondo.
Anche
il mondo degli animali è misterioso... Così succede tra gli uomini.
C'è il ricco, il potente, il ben pagato, legati tutta la vita agli
affari, all'ufficio, alla catena di montaggio delle loro industrie,
liberi un giorno soltanto, ma per modo di dire, consapevoli come sono
della loro importanza...
E
poi ci sono gli altri, i piccoli, con la loro vita spesso grama,
difficile; ma sono liberi perchè sanno che essere piccoli o grandi
conta poco per vivere felici. E non so chi ha ragione, forse tutti e
due, chissà. Ma perché - come la mucca e il capretto - non tentano
di guardarsi negli occhi, di darsi l'un l'altro qualcosa? Perchè
devono proprio essere i "piccoli" e i "grandi"?
Non siamo tutti poveri uomini sotto le grandi stelle?
foto di Albert Laurent
Ho trascorso anch’io buona parte della mia infanzia e alcuni anni della mia adolescenza in un pesetto alpino, dove la presenza di mucche e capre era un elemento della quotidianità. Sapevo che le mucche avevano sempre a disposizione la propria balla di fieno in inverno e l’erba fresca degli alpeggi in estate. Le capre erano considerate un po’ animali di serie b e venivano portate al pascolo nei terreni dove l’erba era più rada, dove andava cercata anche tra i sassi o sull’orlo dei precipizi. E a scuola ero brava. Soprattutto in italiano. Ma mai e poi mai avrei pensato o avrei saputo scrivere un racconto come quello di questa giovanissima autrice . Mi pare quasi incredibile che ella abbia maturato così presto una consapevolezza che la mia mente e il mio cuore avrebbero concepito almeno un decennio dopo. Capire così presto che nella vita si può voler restare liberi a costo di rimanere impastoiati nelle stringhe del bisogno , oppure avere tutto il necessario a disposizione a patto di essere tutt’uno con una “mangiatoia”, e che optare per una cosa o per l’altra può essere difficilissimo perché entrambe possono apparire giuste, ha dell’incredibile, soprattutto considerando la probabile assenza di stimoli culturali ed ambientali ,nel senso che comunemente viene dato a questi termini, di cui la ragazzina poteva fruire. Ma ciò che più mi ha colpito nel racconto è la sua estrema attualità: sembra quasi che l’autrice, con occhi da veggente, abbia scorto da lontano i conflitti dell’essere umano di ieri e di oggi, le sue difficoltà ingigantite dalla sterile riluttanza a guardarsi negli occhi, a cercare un punto d’incontro, a ricordare che “ siamo tutti piccola cosa sotto le grandi stelle” . Il problema è tutto qui; qui risiede la radice del male che si riproduce incessantemente generando la separazione tra i “potenti” e gli altri, tra chi pratica l’opportunismo pur di aver la balla di fieno sempre pronta e chi rischia di restare col carniere vuoto pur di non avere “padroni”. E come dice la giovane scrittrice, forse hanno ragione entrambi, perché il più delle volte non siamo liberi di essere mucca o capretta: le circostanze della vita, le frequentazioni abituali, la famiglia , il lavoro che qualcuno ha scelto per noi o che siamo costretti a fare, condizionano la nostra esistenza , nella sua dimensione ad ampio raggio come nella sua quotidianità. La capretta aveva capito di essere libera proprio per quello che era riuscita a fare:ecco un altro breve passo del racconto, che mi sembra assolutamente degno di nota; la tenacia e la volontà di riuscire, unite ad un pizzico di azzardo, avevano consentito ad un piccolo essere di compiere una “grande” azione. Se il contenuto del racconto rivela una capacità di riflessione assai acuta, la forma, l’essenzialità corretta del periodare, l’uso della punteggiatura non sono meno rilevanti( ameno che il racconto non sia stato corretto successivamente da una mano adulta). Ma se anche fosse così, resta indiscutibile la capacità di interpretare in modo tanto dolce ed acuto la realtà circostante suggerendo una soluzione semplicissima ad un problematica complicatissima qual’ è la vita. E infine, una grande curiosità personale: quale sarà stato il percorso di vita della ragazzina? Quello della capretta o quello della mucca?
RispondiEliminaRiporto la risposta ad Alice Di Paolo di Charles MecCharles:
EliminaLeggendo il suo commento dove traspare tutta l'accattivante simpatia verso un mondo cancellato dalla meccanizzazione agricola, ritrovo le mie ansie; dubbi e domande che non avran mai risposta se non in quella speranza che tutto sia andato per il meglio.
Riporto qua sotto il commento di Carmelo Salvaggio:
RispondiEliminaUn racconto lieve eppure emblematico. Una favola vera con tanto di morale ed una acuta attenzione ai particolari ivi compresi i comportamenti umanizzati dei protagonisti.
La vita della società contadina, prevedeva queste gerarchie e sicuramente la capra forte della sua autonomia godeva di più libertà ed un po’ la soffriva sotto l’aspetto delle attenzioni, proprio come oggi avviene nella gestione del cane e del gatto. A quei tempi però la differenza la faceva la sopravvivenza. La diversa natura di bovini e caprini tuttavia non era vissuta in compartimenti chiusi ma in grande armonia tant’è che il capretto, libero di scorrazzare, quel giorno aveva deciso di soddisfare il suo più grande capriccio e di sopravanzare “la grande massa” della paziente mucca.
La morale finale è l’esigenza pura delle persone semplici che, lontane dagli intrighi mentali e politici, prendono esempio dalle cose semplici per creare un parallelo verso un mondo migliore.
Ecco la risposta dell'autore:
EliminaAcuta osservazione: nel mondo contadino la priorità è la sopravvivenza. Diversa e meno nobile l'esigenza odierna impiastricciata di mille se e di mille perché....
Così perdemmo la capacità di trarre insegnamento dalle umili coscienze del tempo passato.