venerdì 2 febbraio 2018

Daniela VIGLIANO - La Finestra (racconto breve)





La stanza d'ospedale, pulita e anonima nella sua asetticità, aveva la finestra affacciata su un giardino. Volgendo lo sguardo verso destra, il capo stanco appoggiato al cuscino, Alma poteva vedere la natura che stava dando il meglio di sé in quel caldo mese di luglio.
Il verde del prato faceva a gara con quello delle foglie degli alberi, ma la sfida non poteva essere considerata che persa, tanto erano molteplici le varietà di colore delle foglie dell'acero, o del piccolo rododendro ormai senza fiori, o della lavanda, che con i toni azzurrognoli del suo sottile e profumato fogliame, creava una macchia più chiara sullo smeraldo dell'erba.
Un'ape, ronzando rumorosamente, si stava avvicinando ai fiori della madreselva, che, profumatissimi, assolvevano al loro compito principale, attirare gli insetti, oltre a quello di regalare profumo e bellezza con i loro colori rosati.
Una piccola lucertola decise che aveva oziato abbastanza al sole e svelta si diresse nel folto dell'erica, forse in cerca di cibo.
Il cielo che si intravedeva tra il fogliame era di un blu cobalto, terso e senza nubi come può esserlo soltanto in una giornata splendida di luglio, calda ma non afosa. Un'unica scia bianca, dritta e lunghissima, testimoniava il passaggio di un aereo. Chissà dove stavano andando i passeggeri? Magari in vacanza in lontani mari del sud, o forse erano soltanto pendolari dell'aria, che salivano in una città del nord e scendevano in una del meridione, manager attivissimi, valigetta alla mano - il loro fedele computer - obbligato a restare spento per tutto il viaggio.
Era con quel tipo di cielo, in quel tipo di giornate che Alma, un tempo, amava trascorrere sola i suoi pomeriggi sul terrazzo. Apriva la sdraio, si legava i capelli alla nuca, tirava indietro la frangia e si disponeva a passare alcune ore a godere del caldo del sole, che le tingeva la carnagione già scura e le riscaldava le ossa doloranti, rammentava, da anni.
Ora era lì, in quel letto da spedale, e non le restava che ricordare. Ricordare quello che era stato della sua vita, del suo matrimonio felice, del rapporto difficile con suo figlio, di quello complicato con i suoi genitori.
Le restava solo quello da fare ormai, da quando aveva saputo di avere un male incurabile, uno di quelli che in un breve lasso di tempo ti portano via le forze, senza che nemmeno tu possa accorgerti di averne sempre meno e di volere sempre meno aiutarti a vivere per quel poco che ti resta.
La chemioterapia aveva definitivamente sostituito con una calottina di cotone i capelli che da una vita erano stati il suo cruccio: fini, indomabili, né ricci né lisci. Insignificanti. Scherzando diceva che se avesse potuto esprimere un desiderio dopo aver trovato la lampada di Aladino, avrebbe chiesto certamente di cambiare i propri capelli con quelli folti e belli di suo marito.
Ormai anche i capelli non contavano più. Ormai non contava più nulla. Doveva solo aspettare. La vita avrebbe fatto il suo corso e, come un fiume che giunto alla foce sta per confondere le sue acque con quelle del mare, allargandosi e perdendo vitalità, diventando più quieto e quasi fermo, così Alma sentiva che stava perdendo forze, sentiva il suo corpo come allargarsi piatto senza energie, sotto il calore delle lenzuola.
Desiderava giungesse presto l'ora delle visite. Voleva vedere suo marito, parlargli, dargli la mano, sentirlo vicino. Voleva dirgli le cose che stava sentendo, quella strana sensazione di nulla, di sentirsi nulla e molle sotto le lenzuola.
Mancava ancora un'ora. Lui sarebbe arrivato puntualissimo, come sempre. E l'avrebbe confortata, come sempre aveva fatto durante tutta la vita.
Si sistemò meglio, per riuscire a vedere non solo una parte di cielo ma anche il muretto che delimitava il cortile della clinica. Lì sopra andava sovente a rannicchiarsi al sole un gatto, che sembrava la guardasse da lontano e, ogni tanto, chiudesse gli occhi, come fanno i gatti per sorridere. Le era simpatico quel gatto. Avrebbe voluto averlo vicino, carezzarlo e sentirne le fusa sotto le mani.
Lo vide: le sorrise. Anche lei gli sorrise, socchiudendo gli occhi.
Quando il marito arrivo, la trovo ancora sorridente, gli occhi chiusi, il capo rivolto alla finestra. Non avrebbe potuto più potuto sorridere a lui né baciarlo. Era arrivato in orario, ma troppo tardi.




Scrivere di malattia e di morte è un’operazione delicata: il tema è profondamente radicato nella parte più intima di ciascuno di noi, e si collega direttamente a domande di natura esistenziale che nel quotidiano, surrettiziamente, nascondiamo nelle profondità dei nostri pensieri. Non potendo ad esse dare risposta, infatti, questa omertà è necessaria per poter proseguire la vita di tutti i giorni concentrandosi su ciò che invece caratterizza la vita.
Lo scrittore che quindi osi questo tema si ritrova a maneggiare un materiale delicatissimo: ne deve scrivere con la massima profondità e quindi colpire il lettore, oppure lasciarsi sfuggire la seppur minima e indiretta leggerezza e sdegnare il lettore.
Questo racconto si apre in una stanza d’ospedale. Già le prime battute sembrano suggerire che dietro le quinte dei pensieri della protagonista, Alma (il cui nome significa “anima”), ci sia già la consapevolezza di una imminente fine.
Il pensiero di questo futuro che va a interrompersi non sembra turbare la donna, non più di quanto facciano i vaghi ricordi del passato. La stanza dove le sue vestigia stanno appassendo è in netto contrasto con l’esplosione di vita fuori dalla finestra: e se di primo acchito le descrizioni dettagliate, dalla precisione quasi botanica, fanno pensare a dei virtuosistici e languidi slanci decadentisti da parte della scrittrice, in seconda analisi ci sembra che il chiamare la natura con i suoi nomi esatti sia semplicemente il modo di Alma per dare un ossequioso addio ai miracoli della vita salutandoli uno per uno, con affetto, quasi rispettosa gratitudine per l’adornare quel momento fatidico.
 Daniela Vigliano non ha scritto nè con profondità nè con leggerezza: non ha affatto scritto, con estrema delicatezza, suggerendoci con più intensità di parole dirette tutti quei dettagli non necessari di una vita che sta finendo.
E quando il racconto volge al termine, in un ultimo anelito di vita Alma cerca un contatto con quella realtà esterna che sta per abbandonare: il gatto, che però rimane fuori; il marito, che però non arriva in tempo. Nemmeno sul piano narrativo c’è uno sviluppo: il racconto termina senza aver avuto un intreccio, e quindi senza risoluzione.
Non può essere altrimenti: la storia di Alma non ha più importanza, nel momento descritto nel racconto; la morte falcerebbe ogni possibile sviluppo. Il mondo della protagonista si è ristretto lì dentro a quella stanza d’ospedale, lì fuori dalla natura gloriosamente viva in quella magnifica estate; con la morte, al brusco termine del racconto, il racconto stesso esce fuori dalla finestra del piano non-esistenziale di Alma, l'anima. (matteo tonnicchi)
 

1 commento:

  1. Io ho soltanto un merito. Aver messo in piedi questo Bando Letterario ed aver dato visibilità ad una serie di autori che sicuramente lasceranno il segno nel tempo. Cinzia e gli altri amici della Giuria, che hanno giudicato i testi della Sezione Narrativa del Veretum, quello di aver scelto le opere migliori. Operazione difficile visto che nella sezione narrativa non ci sono state opere "mediocri", ma tutte opere "sufficienti" e superiori nel punteggio al 60! Ad majora!

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