"Percorsi musicali" di Matteo TONNICCHI - Trilli
Benvenuti al terzo appuntamento di questa rubrica musicale.
A seconda del contesto musicale, il trillo, ovvero il rapido e prolungato alternarsi di due note vicine in altezza, può assumere un carattere diverso: nei passaggi per strumenti la cui fisica limita la durata delle note, come quelli a pizzicamento di corda o a percussione, esso dà l’illusione di prolungare il suono. Nel clavicembalo, dove non sono possibili le dinamiche dei moderni pianoforti, alternare rapidamente due note anche una sola volta dà l’illusione di un accento particolare e improvviso: non a caso, in gergo tecnico, esso viene chiamato mordente. Questo piccolo “morso” all’orecchio, in grado di sottolineare singole note, veniva a volte utilizzato nel periodo Barocco per guidare l’ascolto di temi musicali facenti parte di complesse intelaiature contrappuntistiche.
Eppure, anche tenuto conto di queste finalità pratiche, non è mai passato inascoltato come il trillo abbia una somiglianza con il vibrato della voce umana, col canto degli uccelli, o col suono dello scorrere di fluidi: in questo senso, il suo uso trascende le possibilità pratiche dello strumento e le epoche musicali, e la sua finalità diventa puramente espressiva. Qui vi proponiamo brani estratti dalla letteratura musicale dove l’uso del trillo assume un certo interesse in tal senso.
Eppure, anche tenuto conto di queste finalità pratiche, non è mai passato inascoltato come il trillo abbia una somiglianza con il vibrato della voce umana, col canto degli uccelli, o col suono dello scorrere di fluidi: in questo senso, il suo uso trascende le possibilità pratiche dello strumento e le epoche musicali, e la sua finalità diventa puramente espressiva. Qui vi proponiamo brani estratti dalla letteratura musicale dove l’uso del trillo assume un certo interesse in tal senso.
Brano I
Iniziamo con una bozza, quella di un Preludio che è stato recentemente portato alla luce dopo circa un secolo e mezzo di oblio: la firma del manoscritto è nientemento che quella di Frédéric François Chopin. Egli pose tra i Preludi alcuni brani che nacquero come Studi, e viceversa. Il confine sfocato tra questi due generi, per questo compositore, è dovuto a ragioni da ricercarsi nella stessa storia del pianoforte: durante l’Ottocento questo strumento si stava evolvendo rapidamente dal punto di vista tecnologico; le possibilità manifatturiere date dalla Rivoluzione Industriale permisero l’aggiunta di meccanismi per modellare meglio il timbro sonoro, o per ribattere note più velocemente, o per creare sonorità distinte appena sfiorando i tasti oppure aiutandosi con pedali più avanzati.
Un pianista creativo e geniale come Chopin poteva sfruttare queste novità per elaborare tecnicismi innovativi, finalizzati non solo a stupire il pubblico come fecero altri suoi contemporanei, ma per aprire nuovi orizzonti espressivi. Se questo processo creativo portò Chopin allo sviluppo di una piccola miniatura, dal carattere più intimo, egli la collocò tra i Preludi; se invece portò allo sviluppo di una struttura ampia, più complessa e didatticamente interessante, egli la collocò tra gli Studi. Il Preludio che proponiamo nasce dall’idea di un trillo incessante alla mano sinistra che agita tutta la linea del basso, e si ritrova così a sostenere il brano tremando, quasi ribollendo.
Dal punto di vista tecnico ne esce un vero e proprio esercizio di nervi, e se sviluppato in una forma più estesa avrebbe potuto facilmente diventare un altro degli Studi di Chopin, tra quelli più temibili da suonare. Non sappiamo perché il compositore perse interesse nel completare questa idea, pare scritta in tutta fretta durante la sua permanenza sull’isola di Maiorca, luogo dove egli compose gli altri Preludi che poi vennero pubblicati. Di certo, questa incompiutezza aggiunge un certo fascino al tenebroso trillo che sostiene tutto il brano, vibrando nella parte più scura della tastiera.
Un pianista creativo e geniale come Chopin poteva sfruttare queste novità per elaborare tecnicismi innovativi, finalizzati non solo a stupire il pubblico come fecero altri suoi contemporanei, ma per aprire nuovi orizzonti espressivi. Se questo processo creativo portò Chopin allo sviluppo di una piccola miniatura, dal carattere più intimo, egli la collocò tra i Preludi; se invece portò allo sviluppo di una struttura ampia, più complessa e didatticamente interessante, egli la collocò tra gli Studi. Il Preludio che proponiamo nasce dall’idea di un trillo incessante alla mano sinistra che agita tutta la linea del basso, e si ritrova così a sostenere il brano tremando, quasi ribollendo.
Dal punto di vista tecnico ne esce un vero e proprio esercizio di nervi, e se sviluppato in una forma più estesa avrebbe potuto facilmente diventare un altro degli Studi di Chopin, tra quelli più temibili da suonare. Non sappiamo perché il compositore perse interesse nel completare questa idea, pare scritta in tutta fretta durante la sua permanenza sull’isola di Maiorca, luogo dove egli compose gli altri Preludi che poi vennero pubblicati. Di certo, questa incompiutezza aggiunge un certo fascino al tenebroso trillo che sostiene tutto il brano, vibrando nella parte più scura della tastiera.
Thomas Cole, Monte Schroon, 1838
Brano II
Proseguiamo con un brano di Franz Ferenc Liszt che non si sente spesso nelle sale da concerto: La Predicazione di San Francesco agli Uccelli, dalle Leggende. Si è spesso portati a pensare erroneamente che Chopin e Liszt siano autori simili. Con questo accostamento vogliamo evidenziare una differenza chiave tra i due. Chopin non non avrebbe mai chiamato “Leggende” una sua raccolta, e non avrebbe mai indicato così precisamente una scena. Possiamo dire con certezza che se la bozza di Preludio che abbiamo sentito poco prima fosse entrata di diritto nella raccolta definitiva, sarebbe stata siglata da nulla più che un numero. Esistono nomi per alcuni preludi di Chopin, come ad esempio il numero 15 che viene spesso chiamato “La goccia di pioggia”; questo non rappresenta la volontà dell’autore, ma la forte necessità del Romanticismo di porre una linea narrativa in ogni gesto artistico. Tali titoli sono infatti tutti apocrifi: la poetica chopiniana vedeva nella musica un universo distaccato dalla realtà, avulso da ogni rappresentazione tangibile; questa visione estetica anticipava i teorici dell’estetica musicale successiva, come Eduard Hanslick, di parecchi decenni. Liszt, più ancora di Robert Schumann o Felix Mendelsshon e altri importanti autori suoi contemporanei, era al polo opposto: sembrava quasi che egli volesse dominare la realtà e ogni sua possibile rappresentazione con la musica, e una volta ottenuto questo scopo usare la musica per assoggettare il suo pubblico con immagini vivide, di intenso carattere suggestivo. Questo brano ne è un esempio lampante: se il trillo continuo del precedente brano di Chopin non rimanda ad alcuna scena particolare, in Liszt troviamo trilli che imitano precisamente e intenzionalmente il canto degli uccelli presentato dal titolo. I virtuosismi trascendentali necessari per l’esecuzione del brano sono mirati a rendere gli ascoltatori spettatori di una scena ultraterrena, sia nella realtà dell’esecuzione che nell’immaginazione.
Gustave Courbet, Cesta di fiori, 1863
Brano III
Andiamo un po’ più avanti nel tempo, e precisamente agli albori del XX secolo. Troviamo un Claude Debussy ispirato da un quadro di Jeane-Antoine Watteau dipinto secoli prima della nascita del compositore: si tratta di “Pellegrinaggio all’isola di Citera” una scena del genere settecentesco chiamato “fête galante”.
Questo genere di quadri era amato e promosso da Federico il Grande, imperatore noto per un gusto artistico che univa un carattere conservatore ad un grande desiderio di fuga dalla realtà e di spensierata leggerezza, riflesso forse del suo carattere militare unito alla necessità di distrarsi dai suoi problemi di salute. Al contrario di altri quadri di Watteau più convenzionali, questo presenta chimere e angioletti, che se all’epoca di Federico il Grande erano un’eccentrica stravaganza, per Debussy, musicista sviluppatosi in ambienti simbolisti, offrivano chiavi di lettura più profonde. La gioia dei visitatori dell’isola di Citera viene così tradotta in un brano che inizia proprio con un trillo tensivo, il quale avvolge ritmi di danze popolari italianeggianti, increspato da abellimenti che da soli alludono ad un raffinato contesto armonico costruito attorno a scale musicali antiche, come raffinate e antiche sono le misteriose statue rappresentate nel dipinto.
Jane-Antoine Watteau, Pellegrinaggio all'Isola di Citera (particolare), 1770
Questo genere di quadri era amato e promosso da Federico il Grande, imperatore noto per un gusto artistico che univa un carattere conservatore ad un grande desiderio di fuga dalla realtà e di spensierata leggerezza, riflesso forse del suo carattere militare unito alla necessità di distrarsi dai suoi problemi di salute. Al contrario di altri quadri di Watteau più convenzionali, questo presenta chimere e angioletti, che se all’epoca di Federico il Grande erano un’eccentrica stravaganza, per Debussy, musicista sviluppatosi in ambienti simbolisti, offrivano chiavi di lettura più profonde. La gioia dei visitatori dell’isola di Citera viene così tradotta in un brano che inizia proprio con un trillo tensivo, il quale avvolge ritmi di danze popolari italianeggianti, increspato da abellimenti che da soli alludono ad un raffinato contesto armonico costruito attorno a scale musicali antiche, come raffinate e antiche sono le misteriose statue rappresentate nel dipinto.
Joaquìn Sorolla, Estate, 1904
Brano IV
Per finire, un brano per violino e orchestra. La Sonata per Violino chiamata “Il trillo del Diavolo”, di Giuseppe Tartini. Violinista del periodo Barocco, a suo tempo di grande fama, Tartini pubblicò questo brano circondandolo di un alone di mistero e leggenda. Affermò infatti di aver incontrato il Diavolo in sogno e di avergli offerto il proprio violino per sentirlo suonare: il Diavolo accettò ed iniziò a suonare con tanta abilità ultraterrena da lasciarlo senza fiato. Al risveglio, Tartini cercò disperatamente di riprodurre la musica che aveva ascoltato dando vita a questa Sonata. L’intera Sonata è piena di passaggi virtuosistici, ma in particolare c’è un passaggio nel movimento finale che richiede di mantenere un trillo su una corda del violino mentre si eseguono arpeggi a doppie note sulle corde restanti: qualcosa di mai visto all’epoca e che ancora oggi rappresenta una grande sfida per i violinisti più avanzati.
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