venerdì 23 agosto 2019


Roberto ROSSI – “Sutor, ne ultra crepidam!” (racconto breve)


Con il racconto di Roberto Rossi si conclude la pubblicazione dei testi vincitori dell’edizione 2018 del concorso “Incrociamo le penne”: Sutor, ne ultra crepidam! ha ottenuto il primo posto. Commento di Cinzia Baldazzi.

Gabriele dormiva in un angolo isolato, riparato dal via vai dei viaggiatori e di quelli che transitavano tra via Marsala e via Giolitti. I pochi che arrivavano fin erano i clienti del piccolo supermercato, un negozio necessario che la logica del marketing aveva relegato lontano dal centro della galleria, riservato ai negozi di abbigliamento e ai fast food.
Gabriele si svegliò, ripose con ordine nella borsa la coperta, il vecchio maglione che usava come cuscino, si tolse le calze pesanti della notte, infilò le calze leggere del giorno. Scosse la polvere dai vecchi sandali di cuoio sbattendoli uno sull’altro, erano logori ma ancora sopportavano quel gesto quotidiano, pensò per un attimo ad un passo del Vangelo, poi gli tornò in mente quella vecchia pubblicità del sapone per i piatti e sorrise. Calzati i sandali prese il breviario ed iniziò a recitare le lodi, senza leggere. Teneva il breviario in mano un po’ per abitudine un po’ perché non si fidava più della sua memoria.
Infine si alzò ed iniziò a camminare, sicuro ed elegante, verso la cappella della stazione. A vederlo, con la borsa da calcio del Gubbio sulle spalle, poteva sembrare un vecchio calciatore passato dall’album Panini al dimenticatoio degli ex campioni, perdendo tutto in un investimento affrettato o alle carte.
Lo sguardo era luminoso, e il viso rilassato, nonostante le pene non aveva perso la pace interiore. Era sicuro di aver fatto la cosa giusta due anni prima, una scelta dolorosa ma necessaria, non aveva ripensamenti ed era sereno. Era stato severo ma meritava la punizione che si era dato. Gli sguardi frettolosi dei passanti vedevano in lui solo un vecchio barbone, con la sua borsa e il suo piattino. Quelli che la pace non la trovavano o non la cercavano più, non vedevano nulla oltre quella miseria.
Si fermò al bagno. Gabriele aveva cura di sé, si lavava scrupolosamente ogni mattino, ma non si radeva da due anni. Aveva una lunga barba bianca che nascondeva il suo viso ai tanti che potevano riconoscerlo e anche i pochi capelli rimasti ora scendevano fino alle spalle, legati da un elastico nero.
Guardandosi a torso nudo nello specchio ancora restava sorpreso, gli sembrava di essere diventato un attempato harlista, quei buffi centauri che incontrava all’autogrill di Orte, quando si fermava a fare colazione. Avevano un aspetto giovanile, ma la fatica che facevano a guidare quelle moto pesanti tradiva la loro età. Per Gabriele era un po’ così, la sua vita era diventata una Harley Davidson, non l'avrebbe mai mollata, ma guidarla era sempre più impegnativo.
Era già tardi, doveva sbrigarsi, la S. Messa ad agosto era anticipata di mezz’ora, anche il cappellano era partito e il giovane prete che lo sostituiva celebrava alle 6:30 perché alle 7:30 aveva un’altra messa a Santa Bibiana.
Gabriele faceva la comunione ogni giorno e si confessava regolarmente. Don Giovanni, il cappellano della stazione, custodiva fedelmente i pochi peccati e il grande segreto di Gabriele.
Finita la messa, restava da fare una cosa per completare la liturgia laica del mattino, prima di partire. Entrò nel bar e salutò ad alta voce.
“Buongiorno maresciallo!”.
“Buongiorno professo’!”, rispose Augusto il barista.
Augusto era un tipo molto curioso, non rinunciava mai ad una domanda di troppo o un consiglio non richiesto, per questo Gabriele lo chiamava il maresciallo. Augusto chiamava Gabriele il professore, per il suo parlare colto e eloquente, e per quelle battute incomprensibili in latino che ogni tanto gli scappavano, quando voleva chiudere dialoghi poco graditi.
Gabriele mise un euro sul bancone e chiese il solito caffè lungo al vetro. “Gabriè, ma quando finiscesta storia?Sto euro fa avanti e indietro da due anni. Il caffè lo offro io”, “Ma una volta fammi pagare. Per piacere, Augusto, il caffè me lo offrirai domani”.
“E se domani non te presenti?”
“E se domani non mi presento lo offrirai a qualcun altro. Dove pensi che vada?”
 “Magari te ne vai al mare, te farebbe bene un po’ de sole. Oppure ritorni a casa tua. Perchéna casa ce l’hai, vero Gabriè?”.
Augusto era da trent’anni e sapeva riconoscere i senzatetto da quelli che il tetto lo avevano abbandonato. Gabriele era certamente della seconda categoria. Gabriele sorrise ed esclamò: Sutor, ne ultra crepidam!”.
“Che sarebbe fatte un pacchetto de cazzi tua?” rispose Augusto ridendo. “Più o meno. Dài, fammi il caffè. Grazie”.
Mentre aspettava il caffè Gabriele pensava: “E se domani davvero non dovessi tornare? Dove potrei andare?”. Aveva in tasca un biglietto di sola andata, come al solito non aveva fatto il biglietto per il ritorno, ma non aveva preso nessuna decisione per il futuro, voleva solo lasciare aperta un'uscita d’emergenza, verso una fuga o un ritorno.
“Ecco il caffè”.
Sorseggiò lentamente per assaporare fino in fondo la fragranza di quella miscela di arabica robusta che a Termini si trovava solo da Augusto. Lasciò la tazzina sul banco malvolentieri, quel caffè del mattino era l’unico piccolo lusso che ancora si concedeva.
“Buona giornata professo’” augurò l’amico barista.
“Buona giornata maresciallo” rispose Gabriele uscendo.
La voce di Gabriele piaceva moltissimo ad Augusto, trasmetteva la forza di un leader, uno che poteva sedurre o convincere pronunciando poche parole al momento giusto. Fino a due anni prima per ascoltare Gabriele si organizzavano pullman da tutt’Italia, ora quella voce era un privilegio di Augusto, di don Giovanni e di pochi altri casuali incontri.

Gabriele doveva raggiungere il binario 1 est, il più lontano, occorrevano quasi 10 minuti per arrivarci. Da lì partivano i treni per l’Umbria. Gabriele ne era convinto: quel binario così scomodo era una prova per testare la pazienza di chi partiva per quella terra di santi.

Il treno era in leggero ritardo, Gabriele attese in piedi sul marciapiede spoglio, senza pensilina; il sole estivo già cominciava a scaldare la pelle. Non aveva bisogno di controllare il biglietto, i treni regionali non avevano posti prenotati come i treni ad alta velocità, ognuno poteva mettersi dove voleva. A Gabriele piaceva poter decidere al momento con chi viaggiare, senza sottostare alla fredda scelta di un computer.
Lo stridio dei freni annunciò l’arrivo del treno. I pochi viaggiatori spazientiti iniziarono a salire frettolosamente. Gabriele lasciò loro la scelta dei posti, poi salì con calma e andò a sedersi dove non c’era nessuno, quel giorno aveva deciso di stare da solo.
Ad occhi chiusi pregustava il piacere di visitare di nuovo Assisi, ancora due ore e si sarebbe realizzato quel desiderio atteso da un anno. Prese dalla borsa la foto di Patrizia, aprì gli occhi e la guardò con nostalgica tenerezza. In quel momento l'avrebbe voluta accanto a sé. Desiderava il suo umorismo raffinato ed ironico, per ridere delle tante piccole manie che Gabriele sapeva nascondere così bene. Aveva bisogno del suo ascolto attento e profondo, per continuare a scoprire ogni giorno qualcosa di ed accettarlo senza paura.
Un'amicizia, solo un'amicizia, si ripeteva Gabriele ogni volta che si incontravano, ma lo sguardo si perdeva sempre più spesso, nello spazio sempre più stretto che lo separava da Patrizia. Non mentiva a stesso, si era illuso di non oltrepassare mai il confine sottile, oltre il quale le loro vite sarebbero cambiate rovinosamente. Sapeva bene che se le anime si avvicinano troppo i corpi non possono andare contromano, ma la saggezza rimase nella testa, il cuore era già altrove. Gabriele aveva ceduto lentamente e inesorabilmente. Patrizia era entrata nella sua vita come la sabbia di una clessidra, poco per volta aveva riempito ogni pensiero, ogni ora, ogni preghiera. L'amicizia era diventata innamoramento e l'innamoramento passione. Patrizia non oppose alcuna riserva. Continuava a fare il suo dovere di moglie e di madre, ma Gabriele si era preso tutto quello che restava oltre gli obblighi coniugali e materni.
Gabriele capiva che le loro vite non potevano dividersi tra due amori, erano felici, ma la felicità non superava il senso di colpa. Un giorno, senza dire nulla a nessuno, neanche a Patrizia, rigirò la clessidra, ormai da troppo tempo piena solo nella parte bassa. Lasciò tutto e si trasferì a Roma.
Non cercò rifugio o aiuto, sarebbe stato insopportabile ammettere quel fallimento a quasi sessant'anni. Nessuno lo avrebbe capito, forse qualcuno lo avrebbe deriso o compianto. Decise di vivere in strada, dove capitava, nei mesi più caldi e più freddi preferiva la stazione Termini, dove ogni mattina prendeva la comunione e il caffè di Augusto.
La clessidra era stata girata di colpo, ma la sabbia scorreva con la stessa velocità in senso inverso. Patrizia dopo due anni stava ancora uscendo dalla vita di Gabriele, lentamente così come era entrata, senza sosta, con un tempo che non poteva essere accelerato arrestato. Fermò quei pensieri che lo confondevano e lo turbavano, era come se ricordasse il futuro, non lo avrebbe vissuto ma sapeva come sarebbe stato se non fosse scappato.
Ripensò per la millesima volta alla storia di Jacopa dei Settesoli e di San Francesco, erano stati legati da un'amicizia perfetta e infinita, erano rimasti uniti fino alla morte del santo, senza mai tradire e tradirsi. Gabriele non aveva avuto la forza di Francesco e Patrizia non aveva avuto la fedeltà di Jacopa. Gabriele aveva fatto la scelta di restituire quell'amore non suo, ma l’amore rubato non si può restituire, il senso di colpa era rimasto come un'ombra in un cortile assolato.
Il treno iniziò a muoversi. Gabriele rimise la foto di Patrizia nella borsa, la mano sfiorò la ruvida stoffa consumata dal tempo. Teneva sempre insieme la foto di Patrizia e il vecchio saio. Non aveva saputo scegliere tra due amori e aveva rinunciato ad entrambi. Non voleva più apparire quello che non meritava più di essere: Fra’ Gabriele.

NOTA AUTOBIOGRAFICA DELL’AUTORE

Sono Roberto Rossi, nato a Roma nel 1964. Vivo ad Ostia, sono sposato con Paola da quasi 30 anni, ho una figlia Francesca di 24 anni. Sono impiegato in un'azienda che opera nel settore delle telecomunicazioni. Mi impegno per lasciare il mondo un po’ migliore di come l'ho trovato, per questo dedico il mio tempo ai bambini, come capo scout, e alle coppie, come animatore di pastorale famigliare. Mi piace organizzare viaggi e occasioni speciali per amici e famigliari. Il mio motto è "conosco un posticino": ricordo senza nessuna incertezza bar, pizzerie, ristoranti, pasticcerie anche a distanza di molti anni. Sono un mediatore per natura, nel conflitto sono tendenzialmente pompiere: "Bobbo pensaci tu che sei così saggio". Non sopporto gli opportunisti, i falsi e i carrieristi. Ho sempre avuto la penna facile e da circa un anno ho cominciato a dedicarmi con passione alla scrittura.




commento di Cinzia Baldazzi

Quando mi accingo a interpretare l’intelaiatura tecnico-formale di un testo, soprattutto nella prosa, l’ipotesi di lavoro coincide con lo stabilire due possibili modi di procedere: scioglierne i quesiti, le pause della story, per mezzo delle tracce semiotiche di indizi, segni-segnali e sèmi; oppure decodificare l’universo di discorso indicante e il relativo universo di discorso indicato in un legame strettamente reciproco, intermittente, di forma-contenuto, stile e realtà contingente.
In Sutor, ne ultra crepidam!, come a volte accade, nessuna delle due chiavi esegetiche può essere preferita perché, leggendo il racconto, si rimane implicati, a pari merito, tanto nella soluzione della trama-intreccio semiotica, nel coerente iter guidato di inizio-fine, quanto in quella del messaggio insito nell’hic et nunc spirituale, immanente, ma anche inserito ex toto nel contesto storico attinente la rete di notizie necessarie.
Iniziamo, quindi, a svelare, nell’asse referenziale del titolo, uno dei principali nuclei tematici - divenuto orizzonte di modus vivendi - scelti da Roberto Rossi nella “novella”: il termine sembra adeguato in omaggio alla struttura pirandelliana del plot, nonché al background del Vangelo (εὐαγγέλιον: “la buona novella”, da εὐ, “bene, buono” e ἄγγελος, “annuncio”), presenti nell’intero brano. La locuzione “Ciabattino, non [andare] oltre le scarpe” discende dal latino e intende scoraggiare i giudizi parziali di chi intende misurarsi con materie o argomenti su cui non possiede alcuna competenza.
La frase, nell’originale, era “ne supra crepidam sutor iudicaret”, citata da Valerio Massimo in Factorum et dictorum memorabilium, nonché da Plinio il Vecchio in Naturalis historia: è attribuita ad Apelle di Coo, il quale esponeva in strada le proprie opere pittoriche per trarre profitto dai commenti e dalle critiche dei passanti. Un giorno, un calzolaio aveva messo in discussione la maniera adottata nel dipingere il sandalo di un personaggio (“crepida”, dal greco κρηπίς-krèpis): Apelle, al tempo considerato il maggior pittore mai esistito, corresse il particolare. In seguito, però, il ciabattino, altezzoso per aver trovato accolta la sua opinione, decise di biasimare la rappresentazione del ginocchio dell’uomo ritratto; a quel punto l’artista esclamò: “Ciabattino, non giudicare più in su della scarpa!”.
Con il celebre detto, il nostro homeless Gabriele risponde bonario ad Augusto, il quale vorrebbe sapere qualcosa di più sulla vita del suo avventore: siamo infatti nel bar in cui ogni mattina, non avendo mancato la liturgia delle 8.30 di don Giovanni (il cappellano della stazione), Gabriele degusta un caffè ben tostato, tentando invano di pagare la consumazione. Ma dove dorme il clochard? Tra le romane via Marsala e via Giolitti, in uno spazio tranquillo del grande atrio coperto della Stazione Termini a Roma. Appena desto, cambiate le calze pesanti della notte con il paio di tessuto sottile del giorno, scuote «la polvere dai vecchi sandali di cuoio sbattendoli uno sull’altro», «logori» però in grado di sopportare «quel gesto quotidiano». Pensa per un attimo a un passo del Vangelo, sorride nel ricordare una pubblicità di sapone per piatti. Indossati i sandali, stringendo il breviario, recita le lodi a memoria. Un credente di certo, immaginiamo: lo confermano i segnali del Vangelo, delle lodi impresse nella mente.
Nel Nuovo Testamento, l’evangelista Marco (6,7-13) racconta come Gesù, riuniti a sé i dodici Apostoli, ordinasse loro di viaggiare per diffondere la Parola fra la gente non portando pane, né sacca o denaro nella cintura, e calzando sandali: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Autore di preziosi commentari biblici, Beda il Venerabile, monaco cristiano, storico anglosassone del VII-VIII secolo, in proposito precisa: «I sandali hanno un significato mistico: il piede non è coperto sopra né nudo sotto, a indicare un cammino fatto con piedi aperti alla salvezza, alla trasparenza, alla trascendenza e all’apertura verso Dio e alla sua santa volontà. Più che la povertà i sandali rappresentano quindi il desiderio dell’uomo di camminare con Dio e i fratelli verso un regno che non ci appartiene e che non è di questo mondo».
L’unione semiologica di significante-significato della calzatura, nella trama del narrato di Roberto Rossi, acquista il parametro di segnale di riconoscimento molto importante: anche se veniamo momentaneamente distratti quando lo scrittore paragona il protagonista prima a un ex-calciatore famoso caduto in disgrazia, poi a un «un attempato harlista»; sappiamo anche come il cappellano a lui tanto familiare lo confessi sempre, conoscendo il suo «grande segreto».
Riflettendo riguardo a un domani ignoto, raggiunge i binari dei treni in partenza per l’Umbria. Salito sul convoglio diretto ad Assisi, che non visita da tempo, sceglie il posto e dalla borsa tira fuori, all’improvviso, la foto di Patrizia. Chi sarà? La legittima consorte abbandonata? L’amante dimenticata? L’uomo sembra ancora ascoltarne la voce, pur essendo trascorsi un paio d’anni dall’incontro più recente. All’inizio - comunica l’Io narrante - era semplice amicizia, poi l’innamoramento, quindi la passione: «Patrizia non oppose alcuna riserva. Continuava a fare il suo dovere di moglie e di madre, ma Gabriele si era preso tutto quello che restava oltre gli obblighi coniugali e materni». In altri termini «capiva che le loro vite non potevano dividersi tra due amori, erano felici, ma la felicità non superava il senso di colpa. Un giorno senza dire nulla a nessuno […] rigirò la clessidra, ormai da troppo tempo piena solo nella parte bassa. Lasciò tutto e si trasferì a Roma».
In sostanza, Gabriele ha avuto una relazione con una donna sposata con figli. Ed eccolo, mentre ripensa alla storia di San Francesco e di Jacopa de’ Settesoli (Giacoma Frangipane soprannominata de’ Normanni): «amicizia perfetta e infinita […] senza mai tradire e tradirsi». Perché rievocare il pio rapporto intercorso tra il poverello di Assisi e la ricca, potente romana, sepolta nella cripta della Basilica davanti alla tomba del Santo con i compagni, di fronte all’altare? Considerando pure che la donna, divenendo frate Jacopa, si ritirò a vivere nell’ordine laico “Fratelli e Sorelle della Penitenza”, fondato in suo onore.
Commovente la lettera ricevuta da Francesco: «Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i ceri per la sepoltura... Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri solita darmi quando mi trovavo malato a Roma». Forse, allora, un viaggio alla rovescia, essendo Gabriele ad allontanarsi dalla Capitale per andare da Patrizia, chissà, tormentata da situazioni precarie? Senza il dono dei prelibati “mostaccioli”, con il cuore in mano? Non è così, in effetti.
Con le ultime parole, l’unità minima di significante-significato, cioè l’arco reale del sèma, emerge schiacciante dietro la maschera nuda pirandelliana, scoprendo il vero volto del protagonista: quello di “Fra Gabriele”, suscettibile di una sola interpretazione, nella classe delle numerose possibilità - tutte probanti - magistralmente intessute da Roberto Rossi nel racconto. Così è, se ci pare. Oppure no: tanto non cambia, né si capovolge di nuovo la clessidra.



sabato 10 agosto 2019


Enrica DONINI – “Il bracciale di perle di vetro colorato” (racconto breve)



Con il racconto di Enrica Donini prosegue la pubblicazione dei testi vincitori dell’edizione 2018 del concorso “Incrociamo le penne”. Con un commento di Cinzia Baldazzi.


Il letto sopra di lei si muove ritmicamente, sbattendo contro il muro di lamiera come un tamburo. Bum-bum-bum-bum-bum.
La vecchia rete arrugginita si lamenta ad ogni affondo, cigola, stride, geme. Geme di dolore, come sua madre. Geme di piacere, come quell'uomo.
Shamoli schiaccia forte le mani sugli orecchi, tiene gli occhi chiusi. Cerca di appiattirsi il più possibile sul pavimento e contro il muro, non deve essere notata, non può fare alcun rumore. Respira a fatica, il suo nascondiglio diventa ogni anno più piccolo e scomodo.
I due corpi sopra di lei aumentano il ritmo, quell'uomo geme più forte, grugnisce. Hanno quasi finito, ancora pochi minuti e lei potrà uscire dal suo rifugio.

È l'imbrunire, Shamoli corre per le strade sporche di Kandapara. La mamma le ha dato alcune commissioni da sbrigare, rischia di arrivare tardi. Quando giunge al chiosco all'angolo c'è la fila, e Shamoli si mette pazientemente in coda.
Ha il fiatone, il fianco le fa male per la lunga corsa e le gira un poco la testa. Le sue mani stringono forte i soldi che la mamma le ha affidato, sono contati e non può certo rischiare di perderli. Ormai ha 10 anni, quella commissione l'avrà fatta un milione di volte e lei è una brava bambina, educata e responsabile. Sa bene che è così, perché lo ha sentito dire ieri dalla mamma alle altre donne mentre erano in coda per il bagno. Lei naturalmente ha fatto finta di non sentire, ma una punta di orgoglio l'ha fatta sorridere. Sorride anche adesso, mentre ci ripensa.
Alza lo sguardo e la bambina in coda davanti a lei le sorride di rimando. Shamoli non l'ha mai vista, dev'essere nuova. È bellissima, indossa un lungo vestito colorato e pieno di perline, il suo viso è dipinto come quello di una donna adulta ed è tutta agghindata. Sembra una principessa. Gioca nervosamente con i bracciali d'oro che porta al polso, i suoi grandi occhi neri guizzano impauriti di qua e di là. Sta tremando, e asciugandosi il sudore dalla fronte Shamoli pensa che forse è malata.
«Ciao, come ti chiami? Io sono Shamoli!» azzarda allungando una mano.
La bambina sgrana gli occhi e si fa piccola piccola. Prima di rispondere lancia un'occhiata alla donna che le sta accanto. È indaffarata a discutere con Faysal il proprietario del chiosco.
«Io sono Hashi» sorride timidamente, e le stringe la mano.
Shamoli nota che ha pianto da poco. Lo sa perché i suoi occhi sono lucidi e arrossati, come quelli della sua mamma al mattino quando prepara la colazione.
È in compagnia di una donna anziana, vestita di un bellissimo sari rosso e oro. Di sicuro è uno di quelli comperati in centro città, lo si capisce dalla buona fattura del tessuto.
Shamoli se lo immagina, il centro città, come se lo è immaginato tante volte: pieno di luci colorate e donne bellissime, e uomini ben vestiti che aprono loro le portiere di automobili luccicanti. Shamoli è una bambina con la testa tra le nuvole, lo sa bene perché sua madre glielo ripete in continuazione.
Viene riportata alla realtà da grida di rabbia. La grossa donna davanti a lei sta litigando furiosamente con Faysal: «Cos'è questa storia dell'aumento dei prezzi? Dimmi un po' ragazzino vuoi forse fregarmi? Ne ho una nuova, qui, che è magra come uno stecco! Me lo dici chi la vuole, ridotta così? Se non la metto all'ingrasso faccio un buco nell'acqua e non me lo posso mica permettere!»
Shamoli approfitta della distrazione della donna per provare a parlare con la ragazzina nuova, è strana ma le sembra simpatica. Forse ha solo bisogno di un'amica. Nelle mani stringe ancora quella di Hashi. «Ehi, stai bene? Il tuo vestito è bellissimo, te lo ha comperato tua madre? È una donna piuttosto vecchia!»
«Oh no, lei non è mia madre! Mia madre... mia madre non è più... lei...»
La grossa donna interrompe bruscamente Hashi, scuotendola con violenza per un braccio: «Ti ho detto di non parlare con nessuno, o sbaglio?»
Quando volge lo sguardo su Shamoli, i suoi occhi cattivi la fanno rabbrividire.
«E tu ragazzina, fatti gli affari tuoi se non vuoi finire nei guai!»
«Madame Asma mi scusi,» Faysal attira la sua attenzione, tentando di concludere l'affare «le prende o no queste pillole? Guardi, non sono certo io che decido i prezzi di mercato, il costo dell'Oradexon è aumentato qui, come in qualsiasi altro bugigattolo del quartiere. Lo vedrà lei stessa se non crede alle mie parole!» Madame Asma lo trafigge con lo sguardo. Shamoli osserva il povero ragazzo che fronteggia la prepotenza della sua cliente con audacia. La donna ritorna alla sua trattativa. Agita il pugno in aria e minaccia il ragazzetto con un grosso vocione rauco nella speranza di ottenere uno sconto. Shamoli le fa una smorfia e veloce come un fulmine infila nel braccio di Hashi uno dei suoi bracciali di perle di vetro colorato. Il suo preferito. Un segno di amicizia.
Quando la donna si allontana trascinandosi via la piccola Hashi, Shamoli le fa l'occhiolino. Si sorridono.
«Di' un po' ragazzina, hai intenzione di fare una brutta fine? Ma lo sai chi è quella lì? Se metti i bastoni tra le ruote a Madame Asma finisci in brutti guai, te lo dico io che lo so! Allora dimmi... cosa vuoi, il solito?» Il sorriso di Faysal scaccia via il gelo che quella donna aveva instillato nel suo cuore. La bambina annuisce felice. Shamoli lo conosce bene Faysal, viene spesso a far visita a sua madre.
«Mi dispiace bambina, ma il prezzo dell'Oradexon è aumentato e con questi soldi posso darti solo una confezione... e ora smamma! Fuori dai piedi che devo chiudere!»
Nonostante tutto Shamoli è contenta. È una bambina ottimista e questo è un dono. Lei lo sa perché la sua mamma non fa che ripeterlo a tutti quanti. Sorride tra sé e sé mentre trotterella verso la stanza che condivide con la madre.

Shamoli è una bambina fortunata e lei lo sa bene. La sua mamma è ancora giovane e bella, e riesce a guadagnare abbastanza per poterla mandare a scuola.
Molte delle bambine con le quali gioca abitualmente per le strade del suo quartiere stanno scomparendo un po' alla volta. Lei sa che non vanno da nessuna parte, semplicemente entrano nel mondo del lavoro. Cominciano a lavorare, proprio come lavorano le loro madri. E le madri delle loro madri prima di loro. Quasi tutte sono nate a Kandapara, come lei d'altronde.
Un po' alla volta “entrano nel giro”, come dice la mamma.
Sa anche che molte ragazzine della sua età sono costrette a lavorare per quelle vecchie signore, le Madame, come vengono chiamate da tutti. Ragazzine come la sua nuova amica Hashi.
Pensa a lei sulla via di ritorno da scuola, e pensa alla sua vita e a quella della sua mamma. Pensa al suo destino.
“...e se domani dovessi lasciare la scuola? Se la mia mamma non potesse più tenermi con sé, se decidesse di affidarmi ad una di quelle Madame?
...e se domani tutto quanto cadesse in pezzi?” La paura le stringe il cuore.
A Shamoli piace andare a scuola, le piace il futuro che le viene proposto tra quelle mura. Un futuro diverso dallo squallore del suo presente vuoto e senza luce.
Lei non lo sa quello che succede alle ragazze, quando arriva il momento di incominciare a lavorare. Quando la sua mamma riceve i clienti e lei si trova nella loro stanza, è costretta a nascondersi sotto al letto. Ai clienti non piace l'idea di avere dei mocciosi tra i piedi quando sbrigano i loro affari. Se la scoprissero se ne andrebbero via, scegliendo un'altra ragazza in un'altra stanza.
Shamoli non vuole certo che questo capiti a causa sua, e allora se ne sta buona buona, rintanata sotto al letto. E quando si ritrova lì, con la testa nascosta tra le braccia, si rifugia nei suoi sogni e scappa in quel futuro che ha imparato a immaginare tra i muri della sua amata scuola.
Sta camminando per le strade di Kandapara, i pensieri nel vento e gli occhi fatti di sole. Sta fantasticando sul suo domani quando accade l'inevitabile, quando la realtà le si presenta davanti con un bel pugno in pieno viso.
All'inizio nota solo un gran mucchio di persone ammassate attorno a un carro. Sembrano tutti profondamente turbati, qualche donna si copre il viso con il velo per non guardare. Si avvicina curiosa e nessuno tenta di fermarla, nessuno la nota, tutti parlottano: «...era una chukri, si è tolta la vita. Che sciocca!»
Hanno lo sguardo fisso a terra, come se provassero una vergogna di qualche tipo. «...no, non ce l'ha fatta... ma sì, si tratta di suicidio!»
Con gli occhi pieni di ingenuità Shamoli continua a camminare. Supera il muro di corpi che la separa dalla verità, dalla crudezza del suo mondo, dall'evidenza di un domani incerto.
La gente mormora, bisbiglia: «Era nuova vero? Madama Asma dici? Ne sei sicura...»
«Shhh! Sei matta, chiudi quella boccaccia!»
Lo spettro del suicidio aleggia tra la folla, la sua disperazione infonde il terrore negli animi, risveglia qualche coscienza intorpidita.
Shamoli si ferma, e per un attimo tutto rimane sospeso nel nulla, il tempo sembra congelarsi. C'è un carro davanti a lei, uno di quei vecchi carri di legno, coperto da un lenzuolo macchiato di rosso. Piano piano i suoi occhi mettono a fuoco un braccio, che sbuca fuori da quel lenzuolo sporco e ricade floscio fuori dal carro. Un braccio, un bracciale... il suo bracciale di perle di vetro colorato. Un brivido gelido le attraversa la schiena, il tempo riprende la sua corsa e Shamoli viene travolta dal suo fluire impietoso.
Cade a terra, le sue gambe esili non hanno retto ed è caduta sulle ginocchia appuntite. Non ha nemmeno sentito il colpo, l'aria sembra essersi addensata e Shamoli fatica a respirare. Un fischio forte riempie le sue orecchie ovattate, gli occhi spalancati sull'istantanea indelebile del braccio senza vita di Hashi. Con una mano si stringe forte il cuore. La vista annebbiata da un oceano d'acqua salata, la bocca spalancata in un grido muto.
Il vento soffia tra i suoi capelli sporchi, sussurrando paure che le nascono nel cuore e le muoiono in gola.
«... e se domani... e se il mio domani non dovesse mai arrivare?».





Enrica Donini è nata a Trento nel luglio del 1991 e vive a Molveno, un piccolo paese tra le montagne delle Dolomiti di Brenta.
«Amo i libri, adoro leggere», spiega la Donini, «e da qualche tempo mi sono avvicinata al mondo della scrittura».
Nel 2017, per gioco, partecipa al primo concorso letterario organizzato nel suo paese, "Molveno, il lago delle meraviglie... e se non fosse solo il solito lago?", vincendo il 1° posto nella sezione Narrativa.
«Considero questa data come una sorta di 'inizio'», prosegue la Donini, «da allora la scrittura si è trasformata in qualche cosa di più di un semplice interesse».
Il bracciale di perle di vetro colorato ha ottenuto il 2° posto nell’edizione 2018 del concorso “Incrociamo le penne”.




commento di Cinzia Baldazzi


Il racconto di Enrica Donini, apprezzabile ed efficace nella sua coesione tecnico-semantica, ricopre perfettamente il ruolo nel ciclo narrativo letterario illustrato da Claude Bremond in La logica dei possibili narrativi: infatti, consiste in un discorso all’altezza di integrare «una successione di eventi di interesse umano nell’unità di una stessa azione». Sempre a parere del grande semiologo francese, esperto di narratologia, dove non esiste successione non scaturisce un racconto: piuttosto, prende vita uno spazio descrittivo, deduttivo, un’effusione lirica e, soprattutto, è necessario esista tra le pagine un’unità d’azione ove siano implicati interessi umani o, meglio, un progetto che dona agli eventi raccontati un senso allargato oltre l’hic et nunc, campo illustrativo della storia.
Ciò accade ne Il bracciale di perle di vetro colorato, dove la voce narrante onnisciente procede sicura sin dalle prime parole, al suono ritmico di quel “bum-bum-bum-bum-bum” che, alle orecchie della bambina nascosta sotto il letto, sembra un gemito di dolore della madre, di piacere dell’uomo-cliente. Poi, appena finito il tutto, all’imbrunire la piccola Shamoli corre sulle strade sporche di Kandapara per adempiere a una commissione. Sì, proprio Kandapara, “la casa-quartiere di tolleranza” più antica del Bangladesh (è lì da due secoli), la seconda del paese per grandezza; venne distrutta nel 2014, in seguito ricostruita con l’aiuto di ONG locali, perché le donne lì nate e cresciute non disponevano di ulteriori rifugi o residenze. Oggi, avendo legalizzato nel 2000 la prostituzione, la zona a luci rosse nella città di Tangala, a nord di Dakha (capitale del Bangladesh), è circondata da un muro: bancarelle di alimentari, negozi di tè, venditori ambulanti, e le donne - o le ragazze - vivono là, nelle stanze, con i servizi igienici condivisi.
Però, l’acquisto affidato dalla mamma alla figliola di dieci anni, dopo essersi messa in fila, non riguarda cibo, né bevande o abbigliamento: la piccola deve comprare una dose di Oradexon, ovvero il Desametasone, un potente steroide usato dagli allevatori per ingrassare i bovini e utilizzato dai protettori allo scopo di gonfiare il corpo delle giovani così da apparire più in carne e attraenti. La bimba, ancora affannata per la corsa, stringe fra le mani il denaro con enorme senso di consapevolezza, in quanto - lo ha sentito affermare dalla mamma alle altre prostitute in coda per il bagno - «è brava, educata e responsabile». Ecco, alzato lo sguardo, scorge «bellissima […] con un lungo vestito dorato e pieno di perline […] il viso dipinto come quello di una donna adulta», un’altra giovanissima davanti a lei. «Sembra una principessa», eppure trema, si asciuga il sudore sulla fronte, «forse è malata».
Il lessico del racconto possiede una competenza discorsiva: tuttavia, il rapporto tra le parole-significato, fuori dalla consuetudine appunto “conversazionale” - direbbe Umberto Eco -, instaura con noi lettori una tecnica letteraria interpretativa, immediata, seria, drammatica: in termini specifici, la Donini riesce a far rivivere un’intelaiatura di presupposti non detti (essendo, in una “logica di senso comune”, inammissibili), piuttosto evocati quando, attraverso i segni scelti per la comunicazione della trama-intreccio del brano, il riquadro aberrante di quei meccanismi lascia purtroppo presumere come essi si concretizzino e si perpetuino.
Shamoli, quindi, incontra la coetanea Hashi, con «il viso dipinto come quello di una donna adulta, tutta agghindata», mentre accompagna la protettrice Madame Asma, pure lei in procinto di acquisire un improprio filtro magico (per rendere accattivante, appetibile la sua “merce”: «Ne ho una nuova, qui, che è magra come uno stecco!»). Asma è una Madame, potrebbe essere un “babu” (fidanzato, protettore, amico), con il ruolo di gestire l’infame traffico di scambio economico.
Ma non è così raro. Ragazze-madri, orfane lontane dal regolare sistema di sostegno, cadono vittima di un mercimonio di vite umane condotto da bande criminali queste ultime superano il confine indiano - in genere Jessore o Benapole - tanto che la polizia ha stimato in quindicimila il numero di donne e bambini introdotti ogni anno clandestinamente in Bangladesh: insieme al Nepal, il paese con il maggior numero di minori coinvolti nello sfruttamento, nella tratta di persone, dell’Asia meridionale. Adolescenti e giovanissime vengono poi anche esportate nelle “sin cities” dell’India, del Pakistan, della Malaysia, degli Emirati Arabi Uniti.
Tra la debolezza e l’abuso dell’autorità, il margine è stretto. Dopo aver protestato con il povero Faysal nel centro-vendita del chiosco, la maîtresse fulmina con lo sguardo Shamoli, colpevole di aver abbozzato un breve colloquio confidenziale con Hashi, sua “proprietà”. Concluso quel rapido contatto, la tenace paladina rientra a casa. «È una bambina fortunata e lo sa bene. La mamma, ancora giovane e bella, riesce a guadagnare abbastanza per poterla mandare a scuola», a differenza di molte amichette del quartiere che, nella precarietà totale, via via scompaiono. Ma lei, fra i banchi della classe, intravede un arco reale oltre il muro, costruendo con la coscienza gli strumenti per scavalcarlo al momento giusto.
La nostra scrittrice, a questo punto, proprio evocando la bimba mentre sogna un destino benevolo (nel timore, comunque, di vederne abbattute le ipotetiche basi da un istante all’altro), se non fosse che coincide con un evento fatale diffuso nell’ambiente, come ricorrendo a una sorta di deus ex machina, inserisce nella trama una vicenda tragica. Queste bambine, quasi fossero protagoniste di una fiaba maligna, anche loro, per sopravvivere, hanno bisogno di eliminare intralci sull’iter percorso: con ogni elemento possibile, da sole, o magari con l’aiuto di un alleato in grado di comportarsi da creditore del beneficiario (la madre di Shamoli). Di frequente, però, l’avversario ha la meglio, e nessuno riesce a infliggere danni tali da isolarlo e ostacolarlo nel colpire in modo ulteriore la vittima. Purtroppo la sventurata Hashi, all’esordio del cammino, senza alcuna negoziazione capace di trasformare minimamente l’antagonista in complice, si toglie la vita prima di aver saldato il debito inavvertitamente contratto.
Nella confusione, per strada, Shamoli si ferma: «c’è un carro davanti a lei […] coperto dal lenzuolo macchiato di rosso. […] Da quel lenzuolo sporco ricade floscio fuori un braccio, un bracciale […] il bracciale di pelle di vetro colorato» che, nel breve incontro con l’infelice bambina le era stato regalato come mezzo di fortuna, di sollievo, per combattere le avversità più crudeli.