Roberto ROSSI – “Sutor, ne ultra
crepidam!” (racconto breve)
Con il racconto di Roberto Rossi
si conclude la pubblicazione dei testi vincitori dell’edizione 2018 del
concorso “Incrociamo le penne”: Sutor, ne
ultra crepidam! ha ottenuto il primo posto. Commento di Cinzia Baldazzi.
Gabriele dormiva in un angolo isolato, riparato dal via vai dei viaggiatori e di quelli che
transitavano tra via Marsala e via Giolitti. I pochi che arrivavano
fin lì erano i clienti del piccolo supermercato, un negozio necessario che la logica del marketing aveva relegato lontano
dal centro della galleria, riservato
ai negozi di abbigliamento e ai fast food.
Gabriele si svegliò, ripose con ordine nella borsa la coperta, il vecchio maglione che usava come cuscino, si tolse le calze pesanti
della notte, infilò
le calze leggere
del giorno. Scosse la polvere dai vecchi sandali
di cuoio sbattendoli uno sull’altro, erano logori ma ancora
sopportavano quel gesto quotidiano, pensò per un attimo ad un passo del Vangelo, poi gli tornò in mente quella vecchia
pubblicità del sapone
per i piatti e sorrise. Calzati i sandali prese il breviario
ed iniziò a recitare le lodi, senza leggere. Teneva il breviario
in mano un po’ per abitudine un po’ perché
non si fidava più della
sua memoria.
Infine
si alzò ed iniziò a camminare, sicuro ed
elegante, verso la cappella
della stazione. A vederlo, con la borsa da calcio
del Gubbio sulle spalle, poteva sembrare un vecchio
calciatore passato dall’album Panini al dimenticatoio degli ex campioni, perdendo tutto in un
investimento affrettato o alle carte.
Lo sguardo
era luminoso, e il viso rilassato,
nonostante le pene non aveva perso la pace
interiore. Era sicuro di aver fatto la cosa giusta due anni prima, una scelta dolorosa
ma necessaria, non aveva ripensamenti ed era sereno.
Era stato severo ma meritava
la punizione che si era dato.
Gli sguardi frettolosi dei passanti vedevano in lui solo un
vecchio barbone, con la sua
borsa e il suo piattino. Quelli che la pace non la trovavano o non la cercavano più, non
vedevano nulla oltre quella miseria.
Si fermò al bagno. Gabriele aveva cura di sé, si lavava scrupolosamente ogni mattino, ma non si radeva
da due anni. Aveva una lunga
barba bianca che nascondeva il suo viso ai tanti
che potevano riconoscerlo e anche
i pochi capelli rimasti ora scendevano fino alle spalle, legati da un elastico nero.
Guardandosi a torso nudo nello specchio
ancora restava sorpreso, gli sembrava di essere diventato un attempato harlista,
quei buffi centauri che incontrava all’autogrill di Orte, quando si fermava a fare colazione. Avevano un aspetto giovanile, ma la fatica che facevano a guidare quelle
moto pesanti tradiva
la loro età. Per Gabriele
era un po’ così, la sua vita era
diventata una Harley Davidson, non l'avrebbe mai mollata, ma guidarla era sempre più impegnativo.
Era già tardi, doveva
sbrigarsi, la S. Messa ad agosto era anticipata di mezz’ora, anche
il cappellano era partito
e il giovane prete che lo sostituiva celebrava alle 6:30 perché alle 7:30
aveva un’altra messa a Santa
Bibiana.
Gabriele faceva la comunione
ogni giorno e si confessava
regolarmente. Don Giovanni,
il cappellano della stazione, custodiva fedelmente i pochi peccati e il grande
segreto di Gabriele.
Finita la messa, restava da fare una cosa per completare
la liturgia laica del mattino, prima di partire. Entrò nel
bar e salutò ad alta voce.
“Buongiorno maresciallo!”.
“Buongiorno professo’!”, rispose Augusto il barista.
Augusto
era un tipo molto curioso,
non rinunciava mai ad una domanda di troppo o un consiglio
non richiesto, per questo Gabriele lo chiamava il maresciallo.
Augusto chiamava Gabriele
il professore, per il suo parlare colto e eloquente, e per quelle battute incomprensibili in latino che ogni tanto gli scappavano, quando voleva chiudere
dialoghi poco graditi.
Gabriele mise un euro sul bancone
e chiese il solito caffè lungo al vetro. “Gabriè, ma quando finisce
‘sta storia? ‘Sto euro
fa avanti e indietro da due anni. Il caffè lo offro io”, “Ma una volta fammi pagare.
Per piacere, Augusto,
il caffè me lo offrirai
domani”.
“E se domani non te presenti?”
“E se domani non mi presento
lo offrirai a qualcun altro.
Dove pensi che vada?”
“Magari te ne
vai al mare, te farebbe bene un
po’ de sole. Oppure ritorni a casa
tua. Perché ‘na casa ce l’hai,
vero Gabriè?”.
Augusto era lì da trent’anni e sapeva riconoscere i senzatetto da quelli che il tetto lo avevano abbandonato. Gabriele era certamente della seconda categoria. Gabriele sorrise ed esclamò:
“Sutor, ne ultra crepidam!”.
“Che sarebbe
fatte un pacchetto
de cazzi tua?” rispose Augusto
ridendo. “Più o meno. Dài, fammi il caffè. Grazie”.
Mentre aspettava
il caffè Gabriele pensava:
“E se domani davvero non dovessi tornare?
Dove potrei andare?”.
Aveva in tasca un biglietto di sola andata,
come al solito
non aveva fatto
il biglietto per il ritorno,
ma non aveva preso nessuna decisione per il futuro, voleva solo lasciare
aperta un'uscita d’emergenza, verso una fuga o un ritorno.
“Ecco il caffè”.
Sorseggiò lentamente per assaporare fino in fondo la fragranza
di quella miscela
di arabica robusta
che a Termini si trovava
solo da Augusto. Lasciò la tazzina
sul banco malvolentieri, quel caffè del mattino era l’unico piccolo
lusso che ancora
si concedeva.
“Buona giornata
professo’” augurò l’amico
barista.
“Buona giornata
maresciallo” rispose Gabriele
uscendo.
La voce di Gabriele piaceva moltissimo ad Augusto, trasmetteva la forza di un leader, uno che poteva sedurre o convincere pronunciando poche parole al momento giusto. Fino a due anni prima per ascoltare Gabriele si organizzavano pullman da tutt’Italia, ora quella voce era un privilegio di Augusto, di don Giovanni e di pochi altri casuali incontri.
Gabriele doveva raggiungere il binario 1 est, il più lontano, occorrevano quasi 10 minuti per arrivarci. Da lì partivano i treni per l’Umbria. Gabriele ne era convinto: quel binario così scomodo era una prova per testare la pazienza di chi partiva per quella terra di santi.
Il treno era in leggero ritardo, Gabriele attese in piedi sul marciapiede spoglio, senza pensilina; il sole estivo già cominciava a scaldare la pelle. Non aveva bisogno di controllare il biglietto, i treni regionali non avevano posti prenotati come i treni ad alta velocità, ognuno poteva mettersi dove voleva. A Gabriele piaceva poter decidere al momento con chi viaggiare, senza sottostare alla fredda scelta di un computer.
Gabriele doveva raggiungere il binario 1 est, il più lontano, occorrevano quasi 10 minuti per arrivarci. Da lì partivano i treni per l’Umbria. Gabriele ne era convinto: quel binario così scomodo era una prova per testare la pazienza di chi partiva per quella terra di santi.
Il treno era in leggero ritardo, Gabriele attese in piedi sul marciapiede spoglio, senza pensilina; il sole estivo già cominciava a scaldare la pelle. Non aveva bisogno di controllare il biglietto, i treni regionali non avevano posti prenotati come i treni ad alta velocità, ognuno poteva mettersi dove voleva. A Gabriele piaceva poter decidere al momento con chi viaggiare, senza sottostare alla fredda scelta di un computer.
Lo
stridio dei freni annunciò l’arrivo del treno. I pochi viaggiatori spazientiti
iniziarono a salire frettolosamente. Gabriele lasciò loro la scelta dei posti,
poi salì con calma e andò a sedersi dove non c’era
nessuno, quel giorno aveva deciso
di stare da solo.
Ad occhi chiusi pregustava il piacere di visitare di nuovo Assisi, ancora due ore e si sarebbe realizzato quel desiderio atteso da un anno. Prese dalla borsa la foto di Patrizia,
aprì gli occhi e
la guardò con nostalgica tenerezza. In quel momento
l'avrebbe voluta accanto
a sé. Desiderava il suo umorismo raffinato ed ironico,
per ridere delle tante piccole manie che Gabriele sapeva nascondere così bene. Aveva bisogno del suo ascolto attento e profondo,
per continuare a scoprire
ogni giorno qualcosa
di sé ed accettarlo senza
paura.
Un'amicizia, solo un'amicizia, si ripeteva Gabriele
ogni volta che si incontravano, ma lo sguardo si
perdeva sempre più spesso, nello spazio sempre più stretto
che lo separava da Patrizia.
Non mentiva a sé stesso, si era illuso di non oltrepassare mai il confine sottile, oltre il quale le loro vite
sarebbero cambiate rovinosamente. Sapeva bene che se le
anime si avvicinano troppo i corpi non possono andare contromano, ma
la saggezza rimase nella testa, il cuore era già altrove. Gabriele aveva ceduto lentamente e inesorabilmente.
Patrizia era entrata nella sua vita come la
sabbia di una clessidra, poco per volta
aveva riempito ogni pensiero, ogni ora, ogni preghiera. L'amicizia
era diventata innamoramento e l'innamoramento passione. Patrizia
non oppose alcuna riserva. Continuava a fare il suo dovere di moglie e di madre, ma Gabriele
si era preso tutto quello che restava oltre gli obblighi
coniugali e materni.
Gabriele
capiva che le loro vite non potevano dividersi tra due amori, erano felici, ma la felicità non
superava il senso di colpa. Un giorno,
senza dire nulla a nessuno,
neanche a Patrizia, rigirò la clessidra, ormai da troppo tempo piena solo nella parte bassa. Lasciò tutto e si trasferì a Roma.
Non cercò rifugio o aiuto, sarebbe stato insopportabile ammettere quel fallimento a quasi sessant'anni. Nessuno lo avrebbe capito, forse qualcuno lo avrebbe deriso o compianto. Decise di vivere in strada, dove capitava, nei mesi più caldi e più freddi
preferiva la stazione
Termini, dove ogni mattina
prendeva la comunione e il caffè di Augusto.
La clessidra
era stata girata di colpo, ma la sabbia scorreva
con la stessa velocità in senso
inverso. Patrizia dopo due anni stava ancora uscendo dalla vita di Gabriele,
lentamente così come era entrata,
senza sosta, con un tempo che non poteva essere
né accelerato né arrestato. Fermò quei
pensieri che lo confondevano e lo turbavano,
era come se ricordasse il futuro, non lo avrebbe vissuto
ma sapeva come sarebbe stato se non fosse scappato.
Ripensò per la millesima
volta alla storia di Jacopa dei Settesoli
e di San Francesco, erano stati
legati da un'amicizia perfetta e infinita, erano rimasti uniti fino alla morte del santo, senza mai
tradire e tradirsi. Gabriele non aveva avuto la forza di Francesco
e Patrizia non aveva avuto la
fedeltà di Jacopa. Gabriele aveva fatto la scelta
di restituire quell'amore non suo, ma l’amore rubato
non si può restituire, il senso di colpa era rimasto come un'ombra
in un cortile assolato.
Il
treno iniziò a muoversi. Gabriele rimise la foto di
Patrizia nella borsa, la mano sfiorò la ruvida stoffa consumata
dal tempo. Teneva sempre insieme
la foto di Patrizia e il vecchio
saio. Non aveva saputo scegliere
tra due amori e aveva rinunciato ad entrambi. Non voleva più apparire
quello che non meritava più di essere: Fra’ Gabriele.
NOTA
AUTOBIOGRAFICA DELL’AUTORE
Sono
Roberto Rossi, nato a Roma nel 1964. Vivo ad Ostia, sono sposato con Paola da
quasi 30 anni, ho una figlia Francesca di 24 anni. Sono impiegato in un'azienda
che opera nel settore delle telecomunicazioni. Mi impegno per lasciare il mondo
un po’ migliore di come l'ho trovato, per questo dedico il mio tempo ai
bambini, come capo scout, e alle coppie, come animatore di pastorale
famigliare. Mi piace organizzare viaggi e occasioni speciali per amici e
famigliari. Il mio motto è "conosco un posticino": ricordo senza
nessuna incertezza bar, pizzerie, ristoranti, pasticcerie anche a distanza di
molti anni. Sono un mediatore per natura, nel conflitto sono tendenzialmente
pompiere: "Bobbo pensaci tu che sei così saggio". Non sopporto gli
opportunisti, i falsi e i carrieristi. Ho sempre avuto la penna facile e da
circa un anno ho cominciato a dedicarmi con passione alla scrittura.
commento di Cinzia
Baldazzi
Quando mi accingo a interpretare l’intelaiatura
tecnico-formale di un testo, soprattutto nella prosa, l’ipotesi di lavoro coincide
con lo stabilire due possibili modi di procedere: scioglierne i quesiti, le
pause della story, per mezzo delle
tracce semiotiche di indizi, segni-segnali e sèmi; oppure decodificare l’universo di discorso indicante e il
relativo universo di discorso indicato
in un legame strettamente reciproco, intermittente, di forma-contenuto, stile e
realtà contingente.
In Sutor,
ne ultra crepidam!, come a volte accade, nessuna delle due chiavi esegetiche
può essere preferita perché, leggendo il racconto, si rimane implicati, a pari
merito, tanto nella soluzione della trama-intreccio semiotica, nel coerente iter guidato di inizio-fine, quanto in
quella del messaggio insito nell’hic et
nunc spirituale, immanente, ma anche inserito ex toto nel contesto storico attinente la rete di notizie
necessarie.
Iniziamo, quindi, a svelare, nell’asse referenziale
del titolo, uno dei principali nuclei tematici - divenuto orizzonte di modus vivendi - scelti da Roberto Rossi nella
“novella”: il termine sembra adeguato in omaggio alla struttura pirandelliana
del plot, nonché al background del Vangelo (εὐαγγέλιον: “la
buona novella”, da εὐ, “bene, buono” e ἄγγελος, “annuncio”), presenti
nell’intero brano. La locuzione “Ciabattino, non [andare] oltre le scarpe” discende
dal latino e intende scoraggiare i giudizi parziali di chi intende misurarsi
con materie o argomenti su cui non possiede alcuna competenza.
La frase, nell’originale, era “ne supra
crepidam sutor iudicaret”, citata da Valerio Massimo in Factorum et dictorum memorabilium, nonché da Plinio il Vecchio in Naturalis historia: è attribuita ad Apelle
di Coo, il quale esponeva in strada le proprie opere pittoriche per trarre
profitto dai commenti e dalle critiche dei passanti. Un giorno, un calzolaio aveva
messo in discussione la maniera adottata nel dipingere il sandalo di un
personaggio (“crepida”, dal greco κρηπίς-krèpis):
Apelle, al tempo considerato il maggior pittore mai esistito, corresse il
particolare. In seguito, però, il ciabattino, altezzoso per aver trovato accolta
la sua opinione, decise di biasimare la rappresentazione del ginocchio
dell’uomo ritratto; a quel punto l’artista esclamò: “Ciabattino, non giudicare
più in su della scarpa!”.
Con il celebre detto, il nostro homeless Gabriele risponde bonario ad
Augusto, il quale vorrebbe sapere qualcosa di più sulla vita del suo avventore:
siamo infatti nel bar in cui ogni mattina, non avendo mancato la liturgia delle
8.30 di don Giovanni (il cappellano della stazione), Gabriele degusta un caffè
ben tostato, tentando invano di pagare la consumazione. Ma dove dorme il clochard? Tra le romane via Marsala e
via Giolitti, in uno spazio tranquillo del grande atrio coperto della Stazione
Termini a Roma. Appena desto, cambiate le calze pesanti della notte con il paio
di tessuto sottile del giorno, scuote «la polvere dai vecchi sandali di cuoio
sbattendoli uno sull’altro», «logori» però in grado di sopportare «quel gesto
quotidiano». Pensa per un attimo a un passo del Vangelo, sorride nel ricordare una
pubblicità di sapone per piatti. Indossati i sandali, stringendo il breviario,
recita le lodi a memoria. Un credente di certo, immaginiamo: lo confermano i segnali del Vangelo, delle lodi impresse
nella mente.
Nel Nuovo Testamento, l’evangelista Marco (6,7-13)
racconta come Gesù, riuniti a sé i dodici Apostoli, ordinasse loro di viaggiare
per diffondere la Parola fra la gente non portando pane, né sacca o denaro
nella cintura, e calzando sandali: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi
finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non
vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come
testimonianza per loro».
Autore di preziosi commentari biblici, Beda
il Venerabile, monaco cristiano, storico anglosassone del VII-VIII secolo, in proposito
precisa: «I sandali hanno un significato mistico: il piede non è coperto sopra
né nudo sotto, a indicare un cammino fatto con piedi aperti alla salvezza, alla
trasparenza, alla trascendenza e all’apertura verso Dio e alla sua santa
volontà. Più che la povertà i sandali rappresentano quindi il desiderio
dell’uomo di camminare con Dio e i fratelli verso un regno che non ci
appartiene e che non è di questo mondo».
L’unione semiologica di
significante-significato della calzatura, nella trama del narrato di Roberto
Rossi, acquista il parametro di segnale
di riconoscimento molto importante: anche se veniamo momentaneamente distratti quando lo scrittore paragona
il protagonista prima a un ex-calciatore famoso caduto in disgrazia, poi a un
«un attempato harlista»; sappiamo anche come il cappellano a lui tanto
familiare lo confessi sempre, conoscendo il suo «grande segreto».
Riflettendo riguardo a un domani ignoto, raggiunge
i binari dei treni in partenza per l’Umbria. Salito sul convoglio diretto ad
Assisi, che non visita da tempo, sceglie il posto e dalla borsa tira fuori,
all’improvviso, la foto di Patrizia. Chi sarà? La legittima consorte abbandonata?
L’amante dimenticata? L’uomo sembra ancora ascoltarne la voce, pur essendo
trascorsi un paio d’anni dall’incontro più recente. All’inizio - comunica l’Io
narrante - era semplice amicizia, poi l’innamoramento, quindi la passione: «Patrizia
non oppose alcuna riserva. Continuava a fare il suo dovere di moglie e di
madre, ma Gabriele si era preso tutto quello che restava oltre gli obblighi
coniugali e materni». In altri termini «capiva che le loro vite non potevano
dividersi tra due amori, erano felici, ma la felicità non superava il senso di
colpa. Un giorno senza dire nulla a nessuno […] rigirò la clessidra, ormai da
troppo tempo piena solo nella parte bassa. Lasciò tutto e si trasferì a Roma».
In sostanza, Gabriele ha avuto una
relazione con una donna sposata con figli. Ed eccolo, mentre ripensa alla
storia di San Francesco e di Jacopa de’ Settesoli (Giacoma Frangipane soprannominata
de’ Normanni): «amicizia perfetta e infinita […] senza mai tradire e tradirsi».
Perché rievocare il pio rapporto intercorso tra il poverello di Assisi e la ricca,
potente romana, sepolta nella cripta della Basilica davanti alla tomba del
Santo con i compagni, di fronte all’altare? Considerando pure che la donna, divenendo
frate Jacopa, si ritirò a vivere nell’ordine laico “Fratelli e Sorelle della
Penitenza”, fondato in suo onore.
Commovente la lettera ricevuta da
Francesco: «Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di
rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi
ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria
degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere
vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i
ceri per la sepoltura... Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri
solita darmi quando mi trovavo malato a Roma». Forse, allora, un viaggio alla
rovescia, essendo Gabriele ad allontanarsi dalla Capitale per andare da Patrizia,
chissà, tormentata da situazioni precarie? Senza il dono dei prelibati “mostaccioli”,
con il cuore in mano? Non è così, in effetti.
Con le ultime parole, l’unità minima di significante-significato,
cioè l’arco reale del sèma, emerge
schiacciante dietro la maschera nuda pirandelliana, scoprendo il vero volto del
protagonista: quello di “Fra Gabriele”, suscettibile di una sola interpretazione, nella classe delle numerose possibilità -
tutte probanti - magistralmente intessute da Roberto Rossi nel racconto. Così
è, se ci pare. Oppure no: tanto non cambia, né si capovolge di nuovo la
clessidra.