Cinzia BALDAZZI – Il giorno di Pasqua tra passato e
futuro
Quest’anno,
il sopraggiungere della Pasqua di Resurrezione porta con sé un sentimento
diverso. Personalmente, consiglio sempre di leggere molteplici poesie sul tema,
delle quali la letteratura è ricca. A una di esse, firmata da Guido Gozzano,
vorrei riservare particolare attenzione:
A festoni la grigia
parietaria
come una bimba
gracile s'affaccia
ai muri della casa
centenaria.
Il ciel di pioggia è
tutto una minaccia
sul bosco triste,
ché lo intrica il rovo
spietatamente, con
tenaci braccia.
Quand'ecco dai
pollai sereno e nuovo
il richiamo di
Pasqua empie la terra
con l'antica pia
favola dell'ovo.
Implicati
sulla preminenza del mondo animale e vegetale, dove la presenza umana è solo un
termine di paragone («come una bimba gracile»), i versi di Gozzano, ormai lontani più di un secolo,
hanno richiamato alla mente un episodio del 2009 della serie tv statunitense The forgotten, in cui lo sceneggiatore
suggerisce quanto l’arte spesso intenda svolgere il ruolo di «conciliare il
passato tangibile e tragico con un futuro intangibile e infinito». In una
situazione reale “standard”, dove numerosi problemi sono importanti, alcuni input si propongono con singolare
insistenza, sebbene - al pari della situazione attuale - il passo da intraprendere per soddisfarli
coincida con l’attendere.
Il
tema dell’attesa di un cambiamento,
l’aspettativa di una modificazione vicina o lontana rispetto a quanto viviamo
oggi, si propone in misura individuale e collettiva nella ricorrenza pasquale.
L’arte in generale, e in particolare la letteratura, può contribuire a onorare la
principale solennità del Cristianesimo, ovvero la Resurrezione, evento narrato nei
Vangeli e collocato nel terzo giorno dalla morte di Gesù in croce: acclamando
dunque, a piena voce, il superamento della morte intesa come conclusione
estrema, drammatica e precoce della vita. Insomma, è proprio il caso, nel triste
periodo vissuto da noi tutti, di augurarsi con tutto il cuore di tentare con
ogni forza di “passare” anche noi oltre l’attuale, sciagurata barriera del male.
Confinati
a casa in queste settimane, spesso provati da tensione emotiva, avvertiamo come
la nostra psiche sia soggetta a sfidare la prova della solitudine e
dell’isolamento dalla collettività. Magari non ne abbiamo bisogno, però se
coltivassimo l’utopia di un conforto grazie all’aiuto del padre della
psicoanalisi, sottolineo la “coincidenza” relativa a Sigmund Freud, impegnato
ad aprire il primo studio privato a Vienna proprio nella domenica pasquale del
1886. Aveva appena ricevuto l’incarico di dirigere il reparto di neurologia
dell'ospedale pubblico per bambini. Prese
in affitto un locale in Rathausstraße 7, vicino all’Università e alla Ringstraße.
Solo pochi mesi dopo, ormai sposato con Martha Bernays, trasferì studio e
appartamento nella Casa della Fondazione Imperiale non distante da Berggaße.
Per
molti personaggi della storia, in epoche diverse, la festività pasquale si è
configurata quindi nelle modalità di una giornata di lavoro o di studio. Penso
all’immancabile Immanuel Kant, che la madre, Regina Dorothea Reuter, iscrisse
al Collegium Fridericianum proprio il giorno di Pasqua del 1732, pochi giorni
prima del suo ottavo compleanno (Kant ne uscirà sedicenne). La genitrice era seguace
assidua del pietismo, una forma di protestantesimo interiore, individualista, e
trasmise al bambino un’educazione religiosa molto esigente. Il direttore dell’istituto
era diventato da poco Franz Albert Schultz, allievo di Christian Wolff, illustre
esponente del pietismo nonché professore di teologia: fu lui ad aiutare finanziariamente,
così come fecero vari amici di famiglia, gli studi dell’indigente ragazzo che
“prometteva bene”!
La
festa della Resurrezione ritorna nella vita del filosofo di Königsberg molti
anni dopo, in una lettera inviata all’austriaco Karl Leonhard Reinhold tra il
28 e il 31 dicembre 1787:
Al momento mi sto
occupando della critica del gusto. In questa occasione ho scoperto un tipo di
principi a priori nuovo rispetto ai precedenti. Le facoltà della mente sono
infatti tre: facoltà conoscitiva, sentimento di piacere e dispiacere, facoltà
di desiderare […]. Cosicché ora riconosco tre parti della filosofia, ognuna delle
quali ha i propri principi a priori […]. Spero di avere pronto verso Pasqua,
con il titolo Critica del gusto, il
manoscritto.
Ma
la bella sorpresa dentro l’uovo kantiano dal finissimo cioccolato gnoseologico,
ovvero la rinomata Critica del Giudizio,
si farà aspettare altri due anni…
Aspettiamo
quindi anche noi, giungendo al 1826, allorché Giacomo Leopardi, assai legato
alle tradizionali, rituali uova sode (uso gastronomico antichissimo, radicato
nella regione della sua Recanati), scrisse alla sorella Paolina:
Salutami il curato e
Don Vincenzo, e dà loro a mio nome la buona Pasqua, che io passerò senza uovi
tosti, senza crescia, senza un segno di solennità.
Due
anni dopo, fornirà alcuni consigli dettagliati:
A proposito di
Pasqua, vi raccomando quelle povere uova toste, che non le strapazziate quest’anno:
mangiatevele senza farle patire, e non siano tante.
Le
ricerche su consuetudini e rituali popolari hanno sempre messo in luce l’elemento
della “partecipatività” alle feste, religiose o meno, rispetto ai possibili
ruoli e contenuti proposti. Ha spiegato la studiosa Laura Tussi:
L’istituto festivo è
la riaffermazione e al contempo negazione dell’ordine sociale esistente, in un
mondo che riproduce il tempo della vita quotidiana per affermarlo, negarlo e,
infine, migliorarlo; è un hortus
conclusus, uno spazio/tempo, luogo dell’anima, un ambiente magico dove si
partecipa ad un lavoro di preparazione svolto collettivamente.
Sono
parole idonee a inscrivere la festività pasquale in un contesto
etno-antropologico, non diverse da quanto andava affermando il filosofo e critico
letterario russo Michail Michailovič Bachtin quando sosteneva come il momento
celebrativo del rito abbia rapporto con gli scopi superiori dell’esistenza
umana: la rinascita, il cambiamento, il rinnovamento, la rigenerazione.
Ascoltare
tali parole, di conseguenza, è il meglio che possa capitare ora. Un autore
contemporaneo, Giovanni Salzano, afferma:
È Pasqua ogni volta
che ridi dopo aver pianto. Ogni volta che rinasci dopo aver creduto di essere
morto. Ogni volta che perdoni un amico, che canti in macchina e che ti piaci
ancora. È Pasqua quando pensavi di non farcela. E invece vivi, malgrado tutto.
In
un’epistola di Sant’Agostino si esemplifica magistralmente il culto della
Pasqua. Il Vescovo di Ippona e Dottore della Chiesa aveva indirizzato
l’epistola all’amico Gennaro nel 400 d.C.:
Noi quindi
celebriamo la Pasqua in modo che non solo rievochiamo il ricordo d'un fatto
avvenuto, cioè la morte e la risurrezione di Cristo, ma lo facciamo senza
tralasciare nessuno degli altri elementi che attestano il rapporto ch'essi
hanno col Cristo, ossia il significato dei riti sacri celebrati. In realtà,
come dice l'Apostolo, «Cristo morì a causa dei nostri peccati e risorse per la
nostra giustificazione» e pertanto nella passione e risurrezione del Signore è
ìnsito il significato spirituale del passaggio dalla morte alla vita. La stessa
parola Pascha non è greca, come si
crede comunemente, ma ebraica, come affermano quelli che conoscono le due
lingue; insomma il termine non deriva da "passione", ossia
"sofferenza", per il fatto che in greco "patire" si dice πάσχειν, ma dal fatto che si passa, come
ho detto, dalla morte alla vita, com'è indicato dalla parola ebraica: in questa
lingua infatti "passaggio" si dice Pascha, come affermano i dotti. A cos'altro volle accennare lo
stesso Signore col dire: «Chi crede in me, passerà dalla morte alla vita»? Si
comprende allora che il medesimo evangelista volle esprimere ciò specialmente
quando, parlando del Signore che si apprestava a celebrare la Pasqua coi
discepoli, dice: «Avendo Gesù visto ch'era giunta l'ora di passare da questo
mondo al padre» etc. Nella passione e risurrezione del Signore vien messo
dunque in risalto il passaggio dalla presente vita mortale a quella immortale,
ossia il passaggio dalla morte alla vita.
Tra
le illustri ricorrenze pasquali della storia cristiana riportiamo quella del 774,
quando Carlo Magno, approfittando della facilità con cui procedeva l’assedio di
Pavia (dove si era rinchiuso Desiderio, re dei Longobardi), con la terza moglie
Ildegarda e i figli viaggiò verso Roma per trascorrere la Pasqua. Giunto nella
giornata del sabato santo, il re dei Franchi venne accolto dal clero e dalle
autorità cittadine in un clima maestoso; lo stesso pontefice Adriano I lo
incontrò sul sagrato di San Pietro. Lì venne suggellata, con un solenne
giuramento, un’amicizia personale e politica: il Papa, da parte sua, ebbe da
Carlo cenni rassicuranti sulle richieste di donazione al Vaticano dei territori
di Venezia, Spoleto, Benevento e Istria caduti in mano longobarda.
Nel
781 Carlo decise di riprendere la via dell'Italia per stipulare una nuova
alleanza con il Pontefice, chiedendogli di consacrare i due figli Carlomanno e
Ludovico il Pio. La cerimonia avvenne, di nuovo a Roma, nella Pasqua di
quell’anno. Il giorno prima, il Sabato Santo, aveva fatto battezzare entrambi
gli eredi - cambiando il nome di Carlomanno in Pipino (come il nonno) - e papa Adriano
I ne era stato il padrino. Nell’occasione, mantenne quanto promesso alcuni anni
prima, donando al papa molti territori sottratti ai Longobardi: la Sabina e
Rieti, alcune città della Toscana, Tivoli, la Tuscia e il ducato di Perugia, il
ducato di Spoleto. Si estesero così i domini del Vaticano nell’Italia centrale,
contribuendo a creare il nucleo del futuro Stato Pontificio.
Oggi,
superato ormai il potere temporale della Chiesa, ma comunque forti del suo
concreto messaggio di “buona novella”, cerchiamo dunque di andare “oltre” tutti
insieme, nell’auspicio si possa rinnovare il sorriso, nei cuori e nell’anima, anche
in chi l’ha perso da tanto; oppure, con le parole della scrittrice francese
Simone Weil, nella speranza che il futuro entri in noi «molto prima che accada».
E allora, buona Pasqua.
Ringrazio Adriano Camerini per le ricerche
bibliografiche e iconografiche.