Cinzia
BALDAZZI - “Le rose novembrine”, poesia di Isabella Sordi
Care amiche e cari amici, in un recente incontro di poetesse e
poeti da me organizzato a Roma, molte partecipanti hanno dedicato i loro
componimenti al tema della violenza e del femminicidio. In quell’occasione,
trovandomi a parlare con l’amico Sorin, ribadivo a lui la mia completa
solidarietà alle donne. Lui ha risposto: «Cinzia, tu non sei dalla parte delle
donne. Tu sei dalla parte della poesia».
Perché ho raccontato questo episodio? Come sapete, in questi anni
ho scelto e analizzato singole poesie dedicate alla violenza contro le donne e
alla loro morte violenta, sia per uccisione sia per tossicodipendenza. Ma erano
tutti componimenti di autori uomini.
Oggi, finalmente, propongo la poesia di una donna, la brava autrice Isabella Sordi con i suoi versi dal titolo Le rose novembrine. Spero che i luminosi spazi della vostra mente possano ospitarli entrambi.
Le rose novembrine
di Isabella Sordi
Mi fanno tenerezza
le rose novembrine,
serrano le corolle,
affilano le spine.
Sfidano il vento e il gelo
crudele, dell'inverno,
quello che, poco dopo,
le porterà all'inferno.
Vestono di rubino
e d'un rosso magenta,
è sangue che scolora
in una morte lenta.
Così come le rose
che perdono il colore
sono le donne sole
uccise dall'amore.
Le rose novembrine
mi fanno tenerezza,
non sanno che si può
morire di bellezza.
Il nome delle rose
Bellezza e morte nei versi di Isabella Sordi
di Cinzia Baldazzi
La violenza contro le donne
non è un problema esclusivamente femminile
e deve essere aggiunta
alla lista dei reati sancita dai trattati.
Ursula von der Leyen
Anche a voi
sarà accaduto di incontrare poesie associate nell’immediato all’esclamazione, scontata
e poco esplicativa, di “incantevole”. Quando entro in uno stato d’animo analogo,
il risultato consiste nell’approdare subito a uno stato di angoscia, di
inquietudine, sebbene il componimento - come invece questa volta - non lo suggerisca.
In breve, il dialogo interiore è il seguente: «Ma quale incanto… I poeti non hanno la bacchetta magica!». Sono infatti trascorsi svariati secoli dall’epoca in cui la
ποίησις (pòiesis) ha iniziato a vivere
svincolata dal rito cultuale-religioso, suo promotore nella notte dei tempi.
Ho potuto
“cogliere” le rose novembrine nell’autunno
del 2023, incontrando Isabella Sordi in un premio letterario da me gestito nella
veste di Presidente di Giuria: quel giorno, l’associazione I Percorsi delle Muse, tra gli organizzatori
del concorso, assegnò al testo un riconoscimento speciale.
Perché lo racconto? Per condividere il fatto di
averlo apprezzato in un equo asse referenziale meritocratico, criticamente
documentato, non incline tout-court a
una gerarchia di valori dove trovasse posto un giudizio perlopiù legato
all’“incanto” ineffabile della beltà dei versi. Vari decenni sono stati
impegnati nel dibattito sull’esistenza o sulla qualità della “bellezza in sé”, decisiva
o ingannevole rispetto a un approccio di metodologia critica: ciononostante, ritengo
l’argomento abbastanza d’antan,
dunque nelle mie riflessioni chiamerò in causa il concetto di una “bellezza poetica”
autonoma, nondimeno attinente a un messaggio, a una fonte significativa, umana,
quindi concreta.
In un ambito
affine ho considerato pregevole Le rose
novembrine, peraltro distratta dall’approfondimento
specifico a causa di diverse attività in corso; il giorno dopo, comunque, ospitando
l’autrice al Dima Book Festival, chissà perché le chiesi, fuori scaletta, di recitare
per noi la poesia vincitrice.
Forse,
però, ho insistito troppo: non siamo davanti a un mistero, in quanto, alla sola
lettura dell’incipit, suppongo parteciperete
senza difficoltà a un incantevole “fuori programma” di tale natura: «Mi fanno
tenerezza / le rose novembrine, / serrano le corolle, / affilano le spine».
Una
simile opinione la coltivo poiché, alcuni minuti dopo aver letto il componimento,
scoprirete la misura in cui gli ammalianti fiori autunnali, emblemi di «tenerezza»,
siano il simbolo persuasivo e immaginifico acquisito dall’ars poëtica della Sordi, propedeutico ad annunciare il tragico destino delle
vittime di femminicidio. Altro che le «spine» sotto le «corolle»! Il sostantivo
«tenerezza», forse obietterete, essendo rivolto a una commozione provata nei
riguardi di persone in termini di pietà amorosa e compassione, può apparire un
segnale appropriato nei confronti di donne forti, generose, sebbene alla fine abbattute:
esse soffrono per sfidare, in sintonia alle rose, «il vento e il
gelo / crudele» non dell’inverno, bensì dell’inferno della violenza assoluta e,
in seguito a una morte lenta (nonostante in botanica, per la famiglia delle
Rosacee, il mese di novembre sia assai propizio), smettono di vivere.
Eppure, una tenderness parallela, più che associata alla
disperata, ineffabile propensione
ad accogliere il martirio di una brutalità estrema, coincide con l’icona
epifanica di qualche tipo di riscatto ottenuto nel rifugio offerto dall’amore
materno indissolubile. Quasi Isabella Sordi, in un “incantesimo” fondato su una
precisa tecnica semantico-semiotica - in settenari ritmici cadenzati in cinque
quartine - e non su un vago, unspeakable filo
dal colore rubino, invitasse il lettore a “scrutare” le righe successive con
gli unici occhi posseduti, obbiettivamente carichi di bellezza, quella vera,
sempre salvifica, peculiare dell’affetto energico di una genitrice, di una μήτηρ
(mèter) capace di interrompere con il
suo sentimento totalitario il cammino del male. Come, vi chiederete? Di recente,
lo scrittore statunitense Chuck Palahniuk ha dichiarato: «Dimenticare il dolore
è difficilissimo, ma ricordare la dolcezza lo è ancora di più. La felicità non
ci lascia cicatrici da mostrare». La grazia e il fascino degli ammalianti
campioni floreali viaggiano oltre le profonde cicatrici della furia e degli
abusi.
Nel tentativo di
verificare l’ipotesi formulata all’inizio, vale a dire che nell’opera della
Sordi l’intento creativo sia di risarcire utopicamente, per mezzo di una
testimonianza a carattere lirico, un danno irreparabile, enfatizzo l’importanza
di almeno due τόποι (tòpoi) retorici tali
da poter confermare una lettura del genere, di certo correlata all’unione implicita,
definitiva di forma-contenuto: piuttosto interessata, però, percorrendo l’alto
sentiero allegorico del testo, a metterne in luce la prospettiva di
allontanarsi, tramite scelte di un καλόν (kalòn)
estetico, dalle abiette circostanze reali, non per ignorarle o sminuirle, piuttosto
per sublimarne in alternativa la virgiliana pietas
basata su rispetto, solidarietà e coraggio.
Nel macrocosmo omerico, presentando
le protagoniste dell’epos, l’aedo ne
proclamava l’avvenenza, il κάλλος (kàllos)
adeguato a renderle eterne: «E quando è pari a quella di Elena», afferma la
grecista Eva Cantarella, «questa bellezza fa perdonare tutto: per Elena, bella
come una dea immortale, dicono i vecchi troiani seduti presso le Porte Scee a
guardare la battaglia, “non è vergogna che i Teucri e gli Achei schinieri
robusti… soffrano a lungo dolori”». Allora, dunque,
a morire per la bellezza (femminile) erano gli uomini.
Sopra ogni cosa,
sottolineerei come, nella terza quartina, il rosso rubino (o magenta), colore
per antonomasia del sangue, costituisca in qualsiasi scala di valore
archetipica un segno di vita prima che di morte, evocando inoltre,
nell’universo di riferimento orientale, la nuance
per eccellenza di gioia e sensualità della coppia, oltre a significare vittoria
nella novità, nella conferma di quanto l’arco del vissuto sia di continuo custodito,
difeso a qualunque costo.
In secondo luogo, allorché
assistiamo al tormento subìto mentre esso «scolora» - oltre a tutto, a prezzo
di una «morte lenta» - anche qui possiamo tornare a uno schema modellare consono
a quello della madre (meglio: della Grande Madre), all’altezza di dissolvere in
un’indistruttibile, coraggiosa utopia, contrassegno di lotta, non di vuota
fantasia, il bisogno di compensare un’immane iniquità, poiché la legge giusta
del divenire umano naturale lo consente.
Ricordo le parole
utilizzate nel 1947 da Max Horkheimer e Theodor Adorno nella chiusura del
saggio sull’Odissea per illustrare la crudele uccisione delle ancelle di
Penelope (regina “madre”) impiccate da Telemaco. Nel finale del Canto XXII si
assiste agli spasmi di queste creature («coi piedi scalciavano; per poco, però,
non a lungo»), dove Omero consola se stesso insieme agli ascoltatori (scrivono
i filosofi: «sono in realtà lettori») con «l’affermazione provata che non è
durato a lungo, un attimo e tutto era finito. Ma dopo quelle tre parole
l’intimo flusso della narrazione si arresta». Interrompendo il corso del
racconto, «esso impedisce di scordare le vittime, e scopre l’indicibile, eterno
tormento di quel secondo in cui le ancelle lottano con la morte».
Nei versi della Sordi, le
martiri di femminicidio sono sciaguratamente decedute «essendo
donne sole / uccise dall’amore». Tuttavia, «sole» in senso di “isolate”,
“accessorie”, per fortuna nella storia del progresso le donne non sono mai
state, poiché il loro ruolo ha sempre comportato grandi vantaggi generali per l’intera
gens humana. L’archeologa inglese
Margaret Ehrenberg ha rilevato: «Bisogna riconoscere il ruolo delle femmine,
sia nel favorire una maggiore socializzazione della specie umana sia come prime
insegnanti di innovazioni tecnologiche durante il lungo periodo infantile».
In sostanza, risulta infondato
l’archetipo endemico della donna indifesa, “domestica”, e dell’uomo, potente
per le armi, intento a procurare, in misura esclusiva, il cibo per la
sopravvivenza della famiglia. Di nuovo la Ehrenberg esemplifica: «L’evoluzione
umana è stata sempre letta attraverso il ruolo dell’“uomo cacciatore”, con la
creazione di armi ed utensili per catturare e macellare le prede. E che cosa
faceva la donna nel frattempo? Rimaneva forse seduta in casa a girarsi i
pollici, aspettando che l’uomo procacciasse il cibo e diventasse così più abile
fino a trasformarsi in Homo
sapiens-sapiens?». Niente affatto, perché il nostro genere, provvisto di cellule
con doppio cromosoma X, sin dalle origini ha espresso propensioni operative
altissime accanto a opzioni di natura sessuale autonome nello scegliere maschi amichevoli,
inclini a spartire.
Ancora oggi, nel
componimento di Isabella Sordi, le incantevoli rose celebrate durante il mese
dedicato ai defunti (prendendo il posto dei rituali crisantemi) acquisiscono sembianze
muliebri per sostare qui con noi, mentre le scorgiamo continuare ad amare chi
come loro ama, non solo grazie a un
ininterrotto «diritto materno» della specie umana, nondimeno in virtù della
costante fiducia, della fede nel rapporto erotico fondato sul preferire l’unione
con uomini libera da vincoli aberranti di sottomissione. Non dimentichiamolo:
per ottenerlo, le nostre paladine hanno affrontato «il
vento e il gelo».
Nella narrazione mitica, le
figlie di Προῖτος
(Pròitos, Preto) rifiutarono di
prendere marito pur essendo state chieste in moglie, senza il loro consenso, da
tutti i Greci: per aver disprezzato ῞Ηρα
(Èra, sorella-sposa di Zeus), dea
protettrice del matrimonio, e Διόνυσος (Diòniusos),
dio iniziatore, furono aggredite da una malattia in grado di causare la perdita
dei capelli e lo scolorire della
pelle in chiazze bianche («Così come le rose /che perdono il colore», scrive
Isabella Sordi). Per disgrazia, queste sorelle annientate, lasciate sole, nella
poesia identificano ancora l’atto di amare con il “bello” della vita, del
Creato: di conseguenza, allo scopo di difenderlo, di far sì che continui a
sussistere, sono rassegnate ad abbandonare l’esistenza per amore, a «morire di
bellezza». Purtroppo, il sentimento dell’ἔρως (èros) per cui sono cadute, dalla parte
opposta si era manifestato unicamente in termini di ferocia, di perversione,
frutto di disuguaglianza, magari di sfruttamento, il tutto mascherato da formalità
retoriche, ambigue, contraddittorie.
Vorrei concludere rispondendo all’appello dell’incantevole poesia (ricordate?) nella speranza che, nell’atroce dolore sofferto lungo l’intervallo del θάνατος (thànatos) - lungo? breve? - le rose della Sordi, sbocciate in autunno, abbiano rammentato quanto, nella notte dei tempi, per fare del male a un individuo si ricorresse al gesto di colpire un suo modello, ad esempio romperlo per imitarne la morte, o infilzarlo di spilli per provocarne ferite profonde. Tuttavia - le nostre rose lo sanno bene - il modello così costruito serviva anche per azioni buone, ideate per guarire o guadagnare prosperità. Il sacrificio delle donne-rosa equivale proprio a questo: al tentativo, come hanno potuto, di opporsi agli assassini per impedire che essi seguitassero a uccidere. Un sincero “grazie” quindi a loro, e a Isabella Sordi che non ha voluto dimenticarle per condurle a noi in un illuminante “incanto”.
Si ringrazia Adriano Camerini per l’assistenza nel corso della stesura del testo.
Isabella Sordi, nata a Udine, residente a Mestre, è stata per vent’anni docente
di Letteratura Inglese nelle scuole superiori. Si è dedicata alla poesia fin
dall’età di otto anni: «Ho ancora il ritaglio della rivista “Amica” su cui
pubblicarono alcuni frammenti di mie poesie con giudizio positivo. Ero
quindicenne e tra i giurati c’era Dino Buzzati».
Ha pubblicato le sillogi poetiche Un Dio felice (Vitale,
2002), Sopra i cieli di Berlino (Arezzo, 2013) e In un vorticoso
tango (2022), questi ultimi editi da Helicon. «Mi piace sperimentare la
scrittura in altre lingue: ho scritto poesie in inglese, spagnolo, friulano e
nei dialetti veneto e romanesco».
Collabora attivamente con vari gruppi culturali di Mestre e di
Venezia attraverso letture, incontri e conferenze. Con l’associazione La Torre
di Mestre, dal 2018 in poi, ha contribuito ai reading poetici “Attorno a una panchina rossa”, contro la violenza
sulle donne.
È membro della Writers Capital Foundation e della International
Academy of Ethics. Ha organizzato il Premio Letterario Intercontinentale “Le
Nove Muse” a Mestre, nel 2022, del quale è stata Presidente di Giuria.
Ha conseguito
numerosi primi posti in concorsi nazionali e internazionali tra cui “Dino
Boscarato” (2008), “Città di Acqui Terme” (2009), “San Marco” (2010) e
“Certamen Apollinare Poeticum” (2023), nonché vari premi speciali tra cui “Scrittore
dell’anno” alla Rassegna Letteraria Olympus e “Writer of the Year 2023” alla
Writers Capital Foundation.
La poesia Le
rose novembrine ha ottenuto il Premio Speciale “I Percorsi delle Muse” nel
2023 a Roma al concorso “I colori delle parole”.