sabato 29 febbraio 2020



Cinzia BALDAZZI – Il fascino di essere donna e l’arma della scrittura. Ricordando Oriana Fallaci.





La collana editoriale “Stile Euterpe”, che ha dedicato le prime quattro uscite rispettivamente a Sciascia, Palazzeschi, Morante e Rodari, rende omaggio a Oriana Fallaci con un volume di saggi, articoli, poesie e racconti. La partecipazione è aperta fino al 20 settembre 2020. 

Nel 1960 la trentunenne Oriana Fallaci intraprende un lungo viaggio in Oriente come inviata del settimanale "L'Europeo" per dare una risposta sul campo ad alcune domande chiave sull’universo femminile. L’anno successivo, il magistrale reportage che l’ha portata in India, Cina, Giappone, Singapore, Malesia, Hong Kong, Hawaii, diventa un libro dal titolo Il sesso inutile. Non è semplice, per una donna combattiva e indipendente come lei, proiettarsi in una ricerca simile, al punto da scrivere nella prefazione:

Per quanto mi è possibile, evito sempre di scrivere sulle donne e sui problemi che riguardano le donne. Non so perché, la cosa mi mette a disagio, mi appare ridicola. Le donne non sono una fauna speciale e non capisco per quale ragione esse debbano costituire, specialmente sui giornali, un argomento a parte: come lo sport, la politica e il bollettino meteorologico.

Allora, che cosa ha convinto Oriana a viaggiare per l’Oriente?

Mi venne in mente che i problemi fondamentali degli uomini nascono da questioni economiche, razziali, sociali, ma i problemi fondamentali delle donne nascono anche e soprattutto da questo: il fatto di essere donne.

Sembra nascere da questa contraddittorietà, unica e irripetibile, l’idea collegiale del Consiglio Direttivo dell'Associazione Culturale "Euterpe", presieduta da Lorenzo Spurio, di dedicare il quinto volume della collana “Stile Euterpe” proprio alla giornalista e scrittrice fiorentina (1929-2006), dopo aver riservato i primi quattro ad altrettanti protagonisti del nostro ‘900: Leonardo Sciascia, cronista di scomode realtà, a cura di Martino Ciano, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2015; Aldo Palazzeschi, il crepuscolare, l’avanguardista, l’ironico, a cura di Martino Ciano, Lorenzo Spurio, Luigi Pio Carmina, PoetiKanten Edizioni, Sesto Fiorentino, 2016; Elsa Morante, rivoluzionaria narratrice del non tempo, a cura di Valentina Meloni, edito online sul n°22 della rivista Euterpe nel febbraio 2017; Il “libbro” di Gianni Rodari, a cura di Francesco Martillotto, Ass. Euterpe, Jesi, 2019.
È possibile partecipare (fino al 30 settembre 2020) con testi appartenenti a tutti i generi - poesia, racconto breve, prosa, saggio letterario, articolo, aforisma, recensione - che abbiano attinenza (o siano dedicati, o ispirati) alla figura di Oriana Fallaci, prediligendo «il tema dell’amore, della mancata maternità, la difficile collocazione nei riguardi di una caratterizzazione di femminismo, la malattia e altro», spiega Lorenzo Spurio, presidente dell’Associazione Culturale Euterpe.




Promuovere un dibattito pertinente allo status tipico dell’universo femminile era valutato dalla Fallaci, già sessant’anni orsono, un discorso in grado di mettere le donne in notevole disagio. Si chiedeva chissà per quale motivo dovremmo costituire, nei mass-media, una “sezione” a se stante:

Il padreterno fabbricò uomini e donne perché stessero insieme e dal momento che ciò può essere molto piacevole, checché ne dicano certi deviazionisti, trattare le donne come se vivessero su un altro pianeta dove si riproducono per partenogenesi mi sembra privo di senso.

È vero, ma la stessa attività sessuale procreativa, di compartecipazione e scambio, purtroppo diviene spesso il luogo in cui si esplicano la maggioranza delle violenze su adulte, ragazze, bambine. Oriana ha girato i continenti per decifrare non solo la matrice, la causa di un simile male perpetuato, ma, subito dopo, le leve del potere che, quasi immutate, dalle origini se ne sono impadronite, sfruttandole a proprio vantaggio.  
Cosa fare? Ognuna di noi ha il suo compito: da parte sua, Oriana ha lottato e sacrificato tanto per l’emancipazione, pagando il prezzo di poter essere libera di fare ciò che voleva. Ma come? Usando quale arma? Scrivendo, raccontando, lasciando il segno del suo viaggio nel mondo, trasferito dalla realtà alla letteratura, alla poesia della solitudine, delle sofferenze.
Due, a mio parere, sono gli episodi fondamentali da considerare sotto questa prospettiva.
Innanzitutto il libro postumo Un cappello pieno di ciliege, con la storia di un tentativo di stupro di cui fu vittima un’antenata incinta, ad opera dei soldati di Napoleone nel 1796 a Livorno. La trama-intreccio compie, a un tratto, un salto di circa un secolo e mezzo: siamo infatti nel 1960 a Saigon, dove il coprifuoco rende le strade deserte più o meno come nella Livorno di fine Settecento. A percorrerle, adesso, è una giovane corrispondente di guerra con lo zaino in spalla, tornata dal fronte: una camionetta l’ha appena accompagnata in rue Pasteur e qui cammina per rientrare in albergo. Passa davanti a un bivacco; i giovani militari vietnamiti la seguono, la circondano, cercano di toccarla:

Mani e braccia che sembrano tentacoli d’un polipo affamato. Lei si difende. Coi pugni, con le pedate, con l’ira che viene dalla rabbia e dall’impotenza. Tutti insieme la avvinghiano, la bloccano, la gettano a terra, cercano di spogliarla. La salveranno due americani che a bordo d’una jeep pattugliano la via.




Il secondo episodio risale al 1979, anno del romanzo Un uomo, dedicato ad Alexandros Panagulis: con lui, dissidente contro la dittatura dei colonnelli in Grecia, la Fallaci ebbe una tormentata e devastante storia d’amore a metà anni ’70:

Per abitudine si vive accanto a persone odiose, si impara a portar le catene, a subir ingiustizie, a soffrire, ci si rassegna al dolore, alla solitudine, a tutto. L’abitudine è il più spietato dei veleni perché entra in noi lentamente, silenziosamente, cresce a poco a poco nutrendosi della nostra inconsapevolezza e, quando scopriamo di averla addosso ogni fibra di noi s’è adeguata, ogni gesto s’è condizionato, non esiste più medicina che possa guarirci.

Oriana invece, traducendo pensieri e terrori in parola, è riuscita a “guarire”, dopo anni di una convivenza che considerare “burrascosa” appare riduttivo. Lo racconta Edoardo Perazzi, nipote nonché unico erede, per lungo tempo assistente della Fallaci:

Oriana non subiva soltanto, ma le dava pure. Sono stato personalmente testimone. Lui era un eroe, un solitario, un completo pazzo. Difficilissimo stargli accanto.

Preparando il prossimo numero di “Stile Euterpe”, Lorenzo Spurio ha voluto esortare i collaboratori a circoscrivere il campo, invitandoli a una sorta di auto-limitazione, dunque «a rimarcare le caratteristiche di donna, piuttosto che quelle più controverse legate all’impegno civile, politico, di denuncia». Ma subito dopo, a dissolvere ogni sospetto, Spurio precisa:

Non dimenticando la sua natura antifascista, il sostegno alla lotta d’indipendenza del popolo greco, il suo importante apporto al giornalismo d’inchiesta e la sua visione premonitrice di un dissidio globale nello scenario socio-politico contemporaneo, l’iniziativa in oggetto vuole dar maggiore voce alla Oriana donna nella sua complessità.
L’obiettivo di questo progetto non è quello di plagiare o scovare la nuova Oriana Fallaci, o di darne una lettura onnicomprensiva della sua complessa figura, bensì di rileggere i contenuti biografici e le motivazioni che hanno spinto la scrittrice fiorentina a un dato percorso umano e professionale.

Siamo d’accordo con Perazzi (e con Spurio) nel sottolineare come pochi altri grandi scrittori al pari della Fallaci abbiano, con la letteratura, svelato la parte più intima del proprio Io, tentando di aiutare noi, tutta la gente, tutte le donne, tutte le persone amate e rispettate.
In conclusione, Oriana era convinta di quanto l’universo femminile potesse risultare un’esperienza primaria, fondamentale:

Essere donna è così affascinante. È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza.

Allora, se fosse vero, noi donne per combattere la violenza potremo veramente sostenere - come canta Bob Dylan - di avere “God on Our Side”, “Dio dalla nostra parte”.



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Stile Euterpe – Antologia tematica per una nuova cultura è il progetto dell’Associazione Culturale Euterpe di Jesi (AN), su ideazione dello scrittore calabrese Martino Ciano (con successive modifiche e integrazioni), volto a rileggere, riscoprire e approfondire, mediante opere di produzione propria (racconti, poesie, articoli, saggi e critiche letterarie), un intellettuale ritenuto di prim’ordine del panorama culturale italiano.


Il progetto

Il nuovo volume monografico sarà interamente dedicato alla scrittrice fiorentina Oriana Fallaci (1929-2006). Sarà possibile partecipare con testi appartenenti a tutti i generi (poesia, racconto breve, prosa, saggio letterario, articolo, recensione) che abbiano attinenza (siano dedicati o ispirati) alla figura di Oriana Fallaci, sia come donna che come intellettuale.

In particolare si apprezzeranno tutte quelle opere che risultino rilevanti e significative in merito ad alcune tematiche che rappresentarono degli aspetti importanti della vita della Fallaci quali ad esempio il tema dell'amore, della mancata maternità, la difficile collocazione nei riguardi di una caratterizzazione di femminismo, la malattia e altro. Aspetti tesi a rimarcare le caratteristiche di donna, piuttosto che quelle più controverse legate all'impegno civile, politico, di denuncia.
Non dimenticando la sua natura antifascista, il sostegno alla lotta d'indipendenza del popolo greco, il suo importante apporto al giornalismo d'inchiesta e la sua visione premonitrice di un dissidio globale nello scenario socio-politico contemporaneo, l'iniziativa in oggetto vuole dar maggiore voce alla Oriana donna, nella sua complessità.
Saranno escluse opere che presentino riferimenti, analisi e considerazioni, nonché producano come dissertazione elementi che possano configurarsi come estremistici in qualsiasi sfera e di possibile incitamento all'odio, di qualsiasi tipo e lesivi, pertanto, del pacifico senso di comunità.

L’obiettivo di questo progetto non è quello di plagiare o scovare la nuova Oriana Fallaci, o di darne una lettura onnicomprensiva della sua complessa figura, bensì di rileggere i contenuti biografici e le motivazioni che hanno spinto la scrittrice fiorentina a una dato percorso umano, professionale etc., attraverso un’antologia tematica, aperta a tutti coloro che abbiano qualcosa da dire, riferire, quale riflessione o risposta alla sua opera, in merito alla Fallaci, a distanza di quattordici anni dalla sua morte.



Selezione del materiale e composizione dell’antologia

Ciascun partecipante potrà inviare:
- un massimo di 3 poesie (massimo 30 versi l’una);
- un massimo di 2 racconti o prose brevi (massimo 5.000 caratteri spazi esclusi l’una);
- un massimo di 2 saggi brevi o articoli (massimo 5.000 caratteri: spazi, note a piè di pagina e bibliografia escluse);
- un massimo di 3 recensioni sui suoi libri (massimo 4.000 caratteri spazi esclusi l’una);
- altra tipologia di materiali quali aforismi (massimo nr. 5 di lunghezza non superiore alle 10 righe Times New Roman corpo 12), riflessioni, etc. (massimo 4.000 caratteri).

I lavori, all'atto dell'invio della propria partecipazione, dovranno essere rigorosamente inediti, vale a dire non pubblicati in precedenza in libri con codice ISBN o rivista con codice ISSN.
Qualora rappresentino dei contributi già apparsi su siti, riviste, blog non dotate di codice ISSN dovranno essere rimaneggiati cambiando il titolo e apponendo all'interno del materiale inedito per almeno il 50% del contenuto totale, riportando una nota in calce che il dato brano è una versione successiva, elaborata ulteriormente e accresciuta, del precedente intervento (indicando il titolo precedente) dicendo con precisione dove è apparso (su quale sito, rivista), fornendo la data di pubblicazione e il relativo link. In questo caso l'autore si premurerà di ottenere il consenso a effettuare tale operazione da parte del sito, blog, rivista che in precedenza ha pubblicato una versione iniziale del detto brano, sollevando gli organizzatori da qualsiasi disputa e problematica possa sorgere.

I materiali, in formato Word, dovranno essere corredati di un ulteriore file contenente la propria biografia letteraria scritta in terza persona dove siano indicati libri pubblicati (con anno di pubblicazione) distinguendoli per i vari generi (poesia, narrativa, saggistica, etc.) ed eventuali altre notizie che si reputino importanti quali collaborazioni con riviste letterarie, premi, siti culturali, etc., e una scelta massima di tre premi letterari vinti, scelti tra i più importanti, indicando in maniera precisa il nome del premio, l'edizione, la città e l'anno. Biografie non congrue a quanto richiesto non saranno prese in considerazione.

La mail dovrà contenere anche i dati personali dell'autore (nome, cognome, indirizzo fisico, indirizzo mail, data e luogo di nascita, numero di telefono) e il tutto dovrà pervenire entro il 30-09-2020 alla mail rivistaeuterpe@gmail.com indicando nell'oggetto “Stile Euterpe 5 – Oriana Fallaci”.

Il volume sarà organizzato e curato dall'Ass. Culturale Euterpe.

Entreranno a far parte dell’antologia un congruo numero di testi poetici, narrativi e saggistici nonché recensioni, articoli e critiche letterarie alle sue opere.

La pubblicazione dell’antologia avverrà a tiratura limitata in un numero di copie pari a quelle richieste dagli autori, aumentate di quelle riservate alle donazioni a biblioteche civiche e universitarie, centri culturali e altro dove l'opera entrerà nei relativi circuiti OPAC e potrà essere presa in prestito e consultata, in vari luoghi del territorio nazionale.

La partecipazione alla selezione dei materiali è gratuita.

Tutte le opere selezionate, di cui l'Ass. Euterpe darà conto mediante un verbale di selezione che sarà diffuso sul sito e inoltrato in privato per mail a tutti i partecipanti, verranno pubblicati in antologia secondo i criteri sopra esposti.

L’autore selezionato per la pubblicazione s’impegnerà ad acquistare nr. 2 (DUE) copie dell’antologia al prezzo totale di 20€ (spese di spedizione incluse con piego di libri ordinario) dietro sottoscrizione di un modulo di liberatoria rilasciato all'Associazione Culturale Euterpe e versamento della cifra a copertura delle spese di stampa e spedizione del volume.

Essendo il progetto volto alla costruzione di un'opera antologica monografica non vi sarà nessuna premiazione, ma potranno organizzarsi – anche grazie all'aiuto, alla disponibilità e alla collaborazione degli autori inseriti – presentazioni dell'opera in contesti opportuni che possano ben accogliere il progetto.


INFO:
rivistaeuterpe@gmail.com




sabato 22 febbraio 2020


Piero SESIA -  "Gigli spezzati" (racconto breve)


Era un pomeriggio di un giorno di settembre ancora caldo, anzi direi proprio afoso, quello nel quale, sotto un noccioleto giovane e fresco, vidi per la prima volta quell’uomo.
Da due giorni appena io, nato nel 1933, XI anno dell’èra fascista, ero entrato nel mio dodicesimo anno di età.
Mia madre era stata per settimane sdraiata in un letto, preda di una malattia che ancora oggi non saprei se definire incurabile oppure eravamo noi troppo poveri per curarla. Poi, quasi improvvisamente, una mattina di pochi giorni prima di questo mio strano incontro, era andata via per sempre.
Mio padre, chiuso in un silenzio ostinato, provava a strappare la vita con i denti per tutti noi.
Poi c’era mia sorella. Mia sorella piccola. A quasi dieci anni ancora incapace di parlare, mangiare da sola, vestirsi.
E infine mio fratello. 19 anni. Chiamato a fare il soldato per la Repubblica di Salò aveva preferito, sin dalla primavera precedente, scappare con i partigiani. O con i banditi, a seconda dei punti di vista.
Io, da parte mia, trascorrevo le giornate aiutando mio padre in campagna e badando a mia sorella ma, soprattutto, vagavo senza meta e cercavo uva e pesche e prugne da rubare e a cui demandare il difficile compito di combattere una fame che, sia pur di derivazione secolare, risultava però ferocemente incattivita dalla guerra e dalle conseguenti ulteriori privazioni.
Vidi quell’uomo, stavo dicendo, e mi spaventai decisamente. 
Un giovane uomo con l’incedere così stanco e sofferente da apparire come un vecchio. Indossava, sopra una maglietta che nemmeno più ricordava di essere stata bianca, giacca e pantaloni invernali vistosamente rappezzati. Trascinava, con fatica e con aria smarrita, un enorme zaino gonfio oltremisura.
Ci arrestammo di colpo e all’unisono. Entrambi governati dalla paura e dalla diffidenza.
Per la verità io non compresi che timore potesse avere un ventenne alto quasi due metri e con muscoli vivi e vivaci nei confronti di un undicenne che, debbo ammettere, dimostrava financo meno della sua età.
E infatti fui io ad arretrare e a pensare di scappare il più velocemente possibile.
«Non scappare, ti prego. Non voglio farti del male. Fermati. Ti prego…».
Queste parole furono pronunciate in italiano, anche se condite da un accento che allora mi suonò semplicemente strano senza che riuscissi a comprenderlo.
Ma fu soprattutto quel «Ti prego…», ripetuto due volte, che mi bloccò, impedendomi di principiare a correre.
Ci avvicinammo l’un l’altro a minuscoli passi e con le braccia tese in avanti, come se il terreno fosse ricoperto di ghiaccio e noi volessimo evitare di scivolare e cadere.
Le nostre mani arrivarono così vicine da avvertire il reciproco tremolio, tanto accostate da respingersi robustamente come i poli opposti di due calamite, per poi riavvicinarsi cautamente.
«Io, John Lo Cicero» disse l’uomo indicando se stesso con una delle due mani.
«Mi chiamo Giovanni Lo Cicero, mio padre era italiano» aggiunse, pensando che italianizzando quel “John” avrebbe favorito la mia comprensione.
Seppi così che suo padre Tommaso era partito, poco più che ventenne, da Salerno a inizio secolo, che aveva venduto pizze per strada per venti anni a Filadelfia prima di aprire un ristorante italiano divenuto con il tempo molto famoso in città e che tutto questo daffare non gli aveva impedito di generare cinque figli, i tre maschi dei quali erano tutti in qualche parte del mondo a guerreggiare, mentre le figlie, rimaste nella cucina di un ristorante di Filadelfia,  facevano quello per cui erano state generate: pizze e spaghetti al pomodoro.
Ma un particolare colpì in maniera grande la mia fantasia di ragazzo.
«Paracadutista? Sei un paracadutista?».
«Sì. Sono un paracadutista. Sono stato lanciato a inizio giugno in Normandia, Francia».
Persino mio padre, pur nella sua impermeabilità ai fatti del mondo, aveva un giorno farfugliato qualcosa circa lo sbarco degli americani in Francia, notizia arrivata dribblando le censure e le retoriche ufficiali di una guerra che, pur odorando già abbondantemente di sconfitta, era stata immaginata come obbligatoriamente vittoriosa.
Poi furono due ore di chiacchiere e discussioni e anche confidenze.
L’essere un undicenne di campagna fece sì che la mia bocca si spalancò oltremisura allorquando John, armeggiando nel suo immenso zaino, mi mostrò, nell’ordine, il telo bianco del suo paracadute, il fucile mitragliatore, la pistola, misteriose bustine per rendere potabile l’acqua, un coltello multiuso.
John mi raccontò che dal giorno nel quale aveva toccato terra in Normandia aveva camminato pressoché ininterrottamente e del tutto a caso. Aveva attraversato la Francia evitando accuratamente le città, sorvolato montagne con slancio e percorso pianure con fatica, era stato aiutato da alcuni contadini e, due giorni prima, aveva compreso di esser giunto in Italia.
A quel punto aveva rallentato la sua corsa, piangendo mezza giornata. Al pensiero dei suoi genitori, ma non solo.
Poi chiese a me se Sanremo, che dal punto in cui eravamo seduti vedevamo vagamente assopita giù attigua al mare, era vicina a Salerno.
Io risposi di no, ma non ne ero certo.   
«Cosa si prova», gli domandai spezzando un momento di pausa della chiacchierata, «a lanciarsi dall’aereo nel vuoto? a volare giù verso la terra?».
«Vedi Giovanni» (adesso ve lo posso confessare, anche io mi chiamo Giovanni!) «le sensazioni sono molte. Paura, soprattutto. Un terrore freddo e buio e nero. Ma anche emozione, eccitazione, cuore che batte. Poi, quando il paracadute si apre, una dolce commozione ti pervade. Come quando, da piccolo, la mamma ti cullava».
John si arrestò nella narrazione e fece un gesto come se stesse fumando una sigaretta che non aveva. Poi proseguì.
«Non scorderò mai la notte del lancio nel cielo della Normandia. Mai. Migliaia e migliaia di paracadute dondolanti nella notte. Pallide macchie nel cielo scuro. Lampi rossi e secchi rumori metallici a fare da lontano sfondo ad un silenzio pressoché totale. La scena era interamente occupata dai paracadute, quasi come se gli uomini appesi non vi fossero, relegati al ruolo di propaggini scure di quei grandi fiocchi chiari. Migliaia di fiori bianchi in un campo nero. Migliaia di gigli fluttuanti nel vuoto. Gigli fragili ed eleganti».
I ragazzini stentano a comprendere la commozione degli adulti. Ed io non facevo eccezione. Pertanto vedere John stropicciarsi gli occhi alla fine del suo breve racconto mi suonò strano e mi imbarazzò.  Anche se comprendo adesso che lì, proprio lì ed in quel momento, diventai un poco più grande.
Ma, sorprendentemente, John continuò a parlare.
«Sai, Giovanni, ho 20 anni. Sono il figlio di un salernitano analfabeta. Io stesso ho fatto solo tre anni di scuola. Però non sono stupido. E, soprattutto, “non voglio” essere stupido. Pertanto so benissimo che fare il paracadutista equivale a morire. E morire presto. Per primi. E, di conseguenza, so altrettanto bene quale è stata la fine delle migliaia di gigli caduti con me dal cielo. Sopravvissuto. Sono un sopravvissuto».
E di nuovo John parve commuoversi.
Poi, quasi d’improvviso, si addormentò, come sfatto e distrutto dalle sue stesse parole.
Lo voltai addossandolo contro il muro del casotto nel quale ci eravamo riparati con l’arrivare della sera, provai a coprirlo con la sua giacca e, non prima di aver frugato ben bene nel suo gigantesco zaino, me ne tornai a casa.
Era praticamente ancora notte quando tornai nella piccola costruzione in muratura situata nella vigna sulla collina. John dormiva ancora, quasi nella stessa identica posizione nella quale lo avevo lasciato poche ore prima.
La rugiada era ancora regina incontrastata della natura e solamente il sole, forse e più tardi, l’avrebbe detronizzata.
Rovesciai addosso al giovane uomo il contenuto della borsa che avevo portato con me e provocai il suo subitaneo entusiasmo.
Pane, anzitutto. John affrontò una delle due pagnotte di pane come se si trattasse di un capitano dell’esercito germanico. Poi il formaggio. Un pezzo di toma che il giovane, prima ancora di addentare, annusò con evidente voluttà. E infine un piccolo salame che lo esaltò oltremisura.
«Sai», mi disse tra un boccone e l’altro, «in realtà sia in Francia che negli ultimi giorni sono riuscito abbastanza a procurarmi da mangiare. Per fortuna è estate e la frutta non manca. Però, caro Giovanni, quanto mi manca il salato. Pane, formaggio, salame. Ah, che meraviglia! Una pizza. Darei non so cosa per una pizza!».
Io allora non sapevo cosa era una pizza, però in quel momento, pur immaginando si trattasse di una prelibatezza, non ebbi alcuna voglia di chiederglielo.
Ma il massimo della gioia lo raggiunse quando vide un piccolo pacchetto di colore verde con stampato in nero il profilo di un bastimento. Sigarette.
Fosse dipeso da lui, in quel preciso momento, credo mi avrebbe fatto santo.
Poi valutò e salutò con soddisfazione, nell’ordine, una camicia blu, un paio di pantaloni neri, due mutande, calzini, una canottiera, un paio di scarpe che, miracolosamente, si avvicinavano molto al suo numero. Infatti, oltre alla dispensa, avevo anche saccheggiato l’ormai inutile armadio di mio fratello. Mio padre se ne sarebbe certo accorto entro brevissimo tempo, ma non avrebbe avuto alcun modo di redarguirmi per l’azione commessa.
John mangiò lentamente e, tutto sommato, poco. Con adulta saggezza. Poi prese a sistemare cibo e vestiario nelle millanta tasche di quell’enorme zaino.
«Giovanni, piccolo stronzo italiano, cosa ti è preso? Sei diventato scemo?».
Solo in quell’istante John si era accorto che la pistola non era più nello zaino e che la stessa ostentava la sua grande mole nelle mie piccole mani. Ero arrivato da quasi mezz’ora e John, distratto da cibo e regalie varie, non se n’era accorto punto.
Me la strappò di mano con decisione borbottando qualcosa che non intesi compiutamente, anche se immaginai che si trattasse di giudizi sugli italiani non esattamente lusinghieri.
«Merda!», gridò John balbettando e quasi scosso da tremiti, «è tiepida. La pistola è ancora calda. L’hai usata, imbecille. Hai sparato. Cosa hai combinato? Mancano due colpi. Raccontami subito!».
E allora gli dissi tutto. Vuotai il sacco, come si dice nei libri. Non trascurando nulla, nemmeno di piangere nei passaggi più importanti.
Cominciai da mia mamma ammalata. Grave. Praticamente immobile nel letto da settimane, se non addirittura da mesi. La settimana precedente mia mamma si era fortemente aggravata e il dottore (mio padre vendette un bosco per pagare il dottore a mia mamma) ci informò che ne aveva per poco. Stava per morire.
Il mio papà non pianse, non era da contadini piangere. Salutato il dottore uscì di casa e bussò alla porta di un vicino di casa. Dopo poco tempo vennero entrambi e mi chiamarono.
Raccontai a John che, rompendo il suo silenzio di acciaio, mio padre mi prese da parte e, con aria solenne, mi parlò.
«Giovanni, devi fare una cosa. Per me, per la mamma, per tutti noi. Questa sera alle sette sali alla collina Buttelli, vai nel bosco di faggi dietro la vigna. E aspetti. A chiunque ti si presenti chiamandoti per nome e cognome tu consegni questa».
Così dicendo mio padre mi consegnò una busta su cui c’era scritto un nome: Aurelio. Mio fratello.
Arrancai sulla collina Buttelli ben prima delle sette. Con il cuore in gola e la solennità di una spia internazionale, allungai tremando la busta a due giovani dall’aria piuttosto truce che mi si erano presentati dinnanzi con fazzoletti rossi e mitra in mano. Che, per tutta risposta, mi liquidarono con uno scortese «Aspettaci. Non muoverti da qui». Ciò detto scomparvero in un baleno.
Riapparvero sorprendentemente alle mie spalle facendomi sussultare.
«Riferisci a tuo padre che Aurelio verrà la prossima notte. A mezzanotte. Ciao ragazzo», disse, guardandomi negli occhi, quello che, tra i due, pareva avere facoltà di decidere.
A questo punto John represse, con grande ed encomiabile sforzo, un moto di insofferenza per la lentezza della mia narrazione che pareva non venire mai al dunque. Prese una sigaretta dal pacchetto verde con la nave e la accese.
Da questo punto in avanti il mio racconto accelerò progressivamente, come in un film di Charlie Chaplin.
E allora narrai a John del mio ritorno, della risposta riferita a mio padre, della nostra attesa.
Dell’ulteriore peggioramento di mia mamma e della nostra angoscia.
Gli parlai del mio stato d’animo e del prete con l’estrema unzione. Della processione dei vicini e del silenzio di mio padre. Della malata indifferenza di mia sorella e della mia adolescenziale impreparazione.
Dell’arrivo di mio fratello poco dopo mezzanotte.
O meglio del “mancato” arrivo di mio fratello.
Già, perché Aurelio, appena entrato nel cortile, fu intercettato da due miliziani della RSI e da due soldati tedeschi che lo aspettavano. Venne malmenato e portato via. 
Qui John accese un’altra sigaretta e, ben sapendo di intaccare una scorta già di per sé minuscola, mi chiese se ne volevo una. Risposi di no, chiedendomi se stavo rinunciando ad un’altra occasione per diventare grande.
«Glielo ho detto, John!», gridai nel vuoto pneumatico di una notte lucida non ancora trasformatasi in mattino. «Glielo ho detto», insistetti non riuscendo a trattenere i singhiozzi.
«John, quando il prete mi aggredì apostrofandomi con “Tuo fratello per stare dietro ai comunisti è lontano e si è dimenticato di sua madre”, io digrignai i denti e, parimenti, lo assalii: “Aurelio non ha certo scordato sua mamma e verrà da lei questa notte”.
«Capisci John? L’ho detto al prete. Nessun altro lo sapeva», ribadii piangendo ancora.
Tra John e me calò il silenzio, si direbbe nel libro di prima, mentre in lontananza cani troppo mattutini presero a latrare.
John accese ancora una sigaretta prima di spegnere quella precedente.
Qualche voce astrusamente metallica attraversò lo spazio giungendo sino a noi dalla pianura sottostante. Rumore di fronde spostate ci colpirono e dei cani (tanti cani) sentivamo ormai, oltre all’abbaiare, financo l’ansimare.
«Ti ho messo nei guai vero John? Ho ucciso un uomo. Anzi no. Ho ucciso un prete. L’ho fatto con la tua pistola».
«Giovanni, non è colpa tua. Io nei guai ci sono entrato quando sono partito da Filadelfia».
Presero a giungere ordini secchi, suoni gutturali, parole incomprensibili. Mi venne paura e freddo. Ero uscito con la sola canottiera ed avevo tanto freddo. John mi coprì con il telo del suo paracadute. Poi accese due sigarette e senza attendere il mio assenso me ne infilò una in bocca.
I cani, prima lontani e ora vicinissimi, continuavano ad abbaiare sempre più rabbiosamente.
Malamente trattenuto il primo cane entrò nel casotto ringhiando e sbavando.
E non compresi perché un cane odiasse così tanto due gigli spezzati che non conosceva nemmeno. 




Piero Sesia (Torino, 1954) dopo il diploma al Liceo Scientifico Galileo Ferraris si è laureato in Lettere (indirizzo storico) all’Università di Torino. Ex gestore di imprese, attualmente in pensione, collabora con un’agenzia letteraria, partecipando inoltre a gruppi di lettura nell’ambito dei quali si occupa anche della redazione di schede libro e di recensioni. Da numerosi anni scrive racconti, soprattutto di origine o ambientazione storica. A partire dal 2018 ha partecipato a diversi Concorsi Letterari per racconti inediti, conseguendo sinora una trentina di riconoscimenti. Nell’ottobre 2019 ha pubblicato il suo primo libro, una raccolta di racconti dal titolo Una valigia di perplessità (Edizioni Tecniche), dove figura tra gli altri Gigli spezzati che si è classificato al 2° posto nel concorso “I colori delle parole”. 


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commento di Cinzia Baldazzi

Ogni opera d’arte è una pregiata forma di provocazione: non potendo spiegarla al completo, è preferibile piuttosto misurarsi con essa. Leggendo il racconto Gigli spezzati di Piero Sesia, ripenso a un celebre brano del filosofo-critico Walter Benjamin:

C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta.

Per il progresso, appunto, per un possibile futuro, si spezzano i gigli di questa narrazione. Uno dei protagonisti, l’italo-americano John Lo Cicero, paracadutato nel cielo della Normandia il 6 giugno del 1944, ricorda:

Non scorderò mai la notte del lancio nel cielo della Normandia. Mai. Migliaia e migliaia di paracadute dondolanti nella notte. Pallide macchie nel cielo scuro. […] Migliaia di fiori bianchi in un campo nero. Migliaia di gigli fluttuanti nel vuoto. Gigli fragili ed eleganti.

Sono le parole di un soldato ventenne proveniente da Filadelfia, figlio di un salernitano immigrato, rivolte ad un ragazzo di dodici anni (la voce narrante), mentre paragona se stesso, i commilitoni, a «gigli» sparsi su un «campo nero». In un altro campo, lontano nello spazio-tempo da quello percorso dall’intreccio di Sesia, ma in via utopica ad esso vicino, il candido fiore compare in una lirica della statunitense Emily Dickinson del 1863:

Attraverso la Buia Zolla - per Istruirsi -
Il Giglio passa sicuro -
Non avverte il suo Candido piede - trepidazione -
Né la sua fede - ha paura -
Dopo - nel Prato -
Oscilla la sua Corolla di Berillio -
La Culla primigenia - del tutto dimenticata - ora -
Nell'Estasi - e nella Fossa –

Il traduttore Giuseppe Ierolli annota:

Il giglio passa attraverso il buio della zolla in cui è posato il seme che lo farà nascere, si fa largo senza paura in quegli oscuri meandri, e quando sboccia imperioso nel prato e sfoggia la sua "corona di berillio" l'estasi di vivere gli fa dimenticare la fatica di nascere.

E tuttavia,

è, nello stesso tempo in estasi e con un piede nella tomba (ovvero nella fossa) […] una sorta di "memento mori".

Anche i personaggi principali della short story di Sesia, candidi nella bellezza e nella forza della loro giovinezza ma già del tutto disillusi, provano paura osservando un recentissimo e tragico vissuto: sono spinti da una tempesta benjaminiana verso un domani non progressivo, avvolto però dalla violenza del passato ancora in fieri.
La vicenda narrata in queste pagine espone un episodio di fantasia legato al periodo storico della Resistenza: con un linguaggio indirizzato al reale e lo sguardo doppiamente nuovo - quello dei due giovani nella trama, e di una immaginaria gioventù autobiografica dello scrittore nei confronti delle circostanze illustrate - viene anticipata e prolungata una prospettiva di amore filiale, fraterno, mai spezzato. È notevole l’accenno formulato dall’Io narrante  di “raccontare” quasi stesse “scrivendo” un libro, con l’obiettivo di potenziare la cultura nella sua funzione di proteggere la società in una battaglia ininterrotta: da una parte, difendendosi dal realismo calcolato e pianificato (nel brano è evitata la descrizione diretta, in atto, degli eventi drammatici e brutali), dall’altra contro parzialità e soggettività limitative (al di là dell’inesperienza, il piccolo Giovanni riesce infatti, comunicando, a condividere fenomeni concreti a lui estranei).
Il tessuto tecnico-semantico del plot, articolato secondo l’ampia e preziosa capacità di attirare l’interesse sugli oggetti e sui sentimenti - in un presente all’altezza di divenire però, per noi, urgente da verificare - evoca un istituto semiotico abbastanza singolare, coincidente con il nostro ruolo di pubblico-interlocutore. Negli anni ’70, il sociologo francese Robert Escarpit notava come ognuno, «al momento di scrivere, ha presente alla coscienza un pubblico, non foss’altri che lui stesso. Una cosa non è completamente detta, se non ha un destinatario». Poi precisa: «Si può anche asserire che una cosa non può essere detta “a” qualcuno se non sia stata detta “per” qualcuno. Non sempre i due “qualcuno” coincidono».
Ma quando accade - ed è il caso di Gigli spezzati - la struttura logico-intuitiva si proietta in un terreno di destinatari troppo molteplici e contradditori per risultare unificati. Il risultato coincide con uno schema semiotico inquietante, carico di suggestioni avvincenti: tanto stretto sembra il rapporto tra chi parla per sé e per gli altri personaggi del racconto, da condurre il lettore a uno spaesamento, a non trovarsi a proprio agio, suscitando tuttavia in lui - cosciente di un simile status - un alto grado di apprezzamento.
Il panorama delineato da Sesia emerge tanto intimo e universale (il sacrificio di innocenti per stroncare il Nazismo) da tramutare il lettore-destinatario in un essere invisibile in grado di essere dappertutto, di vedere e sentire ogni cosa, di percepire e comprendere le situazioni, senza riuscire né tentare (perché limiterebbe il fascino dei segni-segnali) di possedere una reale esistenza di voce, un point of view in campo nel quale riconoscersi in linea diretta. Nonostante egli assista a un dialogo alla sua portata, quando sembra essere sul punto di esaurirne il contenuto in una interpretazione univoca, qualcosa immancabilmente sfugge, spalancando le porte a una pluralità di voci e di possibilità:

Mia madre era stata per settimane in un letto, preda di una malattia che ancora oggi non saprei se definire incurabile oppure eravamo noi troppo poveri per curarla.

E in un altro passo:

E infine mio fratello. 19 anni. Chiamato a fare il soldato per la Repubblica di Salò, aveva preferito, sin dalla primavera precedente, scappare con i partigiani. O con i banditi, a seconda dei punti di vista.

Ne deriva un rilevante piacere estetico, provato per risonanza a lasciarsi trasportare dagli affetti, dalle idee, dallo stile, senza dover sostenere la fatica della responsabilità morale e la conseguenza della sciagura: piuttosto, Gigli spezzati enfatizza il male, gli errori, la cattiveria, accanto alla speranza di costruire un avvenire ormai sgombro dalle zone atroci del passato. Non alludo, però, a un atteggiamento del destinatario nel ricevere in solitudine forma-contenuto del testo: penso invece a un nucleo di personalità coltivato non attraverso l’obbedienza o la replica meccanica di comportamenti socialmente riconosciuti (ad esempio, il rispetto totale per l’ambito di “bontà” e “giustizia” gestito dalla Chiesa). Mi riferisco a processi dinamici profondi dell’individuo in rapporto all’interagire costante tra gli ostacoli causati dalla violenza e la forza della solidarietà:

«Glielo ho detto, John!», gridai nel vuoto pneumatico di una notte lucida non ancora trasformatasi in mattino. «Glielo ho detto», insistetti non riuscendo a trattenere i singhiozzi. […] «Capisci John? L’ho detto al prete. Nessun altro lo sapeva», ribadii piangendo ancora.

In questo passo, l’espressione e l’impressione procedono in piena indipendenza generando, da uno spietato, vile tradimento, l’icona indistruttibile della libertà, del libero arbitrio del giudizio critico, in esperienze vissute o immaginate ma verosimili.
Nell’epilogo ascoltiamo «i cani, prima lontani ed ora vicinissimi», continuare «ad abbaiare sempre più rabbiosamente», con il coraggioso protagonista, imperterrito, a dichiarare:

Non compresi perché un cane odiasse così tanti due gigli spezzati che non conosceva nemmeno.

Noi dedichiamo a lui e al ventenne soldato statunitense un brano dall’Eneide di Virgilio, composto per la morte precoce del nipote di Augusto, il diciannovenne Marco Claudio Marcello. Il verso «Manibus date lilia plenis» è talvolta inciso su lapidi funebri di bambini, recisi nella primavera della vita:

Manibus date lilia plenis
Purpureos spargam flores animamque nepotis
His saltem adcumulem donis et fungar inani
Munere.

A piene mani, oh!, mi date
gigli, ch’io sparga fiori purpurei, che l’anima colmi
di doni, e faccia, almeno, al nipote questo inutile onore.