Tagliavamo il fiore del vento
in una veloce corsa in mezzo al campo. Lui non vedeva niente fra le erbe
lunghe: io ero gli occhi. Non sentiva nient’altro intorno che il raschiare delle
erbe secche contro il cranio: io ascoltavo la natura per lui. Mi agganciavo
fortemente al suo torso con le mie mani fisse. A lui però non facevo male,
perché la sua pelliccia era troppo fitta per i miei lunghi artigli di umana. Le
mie gambe storte si adattavano perfettamente alla sua ruvida pancia, e con i
piedi sentivo il su e giù dei suoi polmoni.
Questo è uno dei miei ricordi
più intensi. Non ricordo perché correvamo, ricordo solo che la sensazione di
libertà e potere sui suoi fianchi, contro ogni elemento della natura, mi faceva
sentire invincibile. I miei lunghi capelli si intrecciavano da soli in questa
frenetica velocità, mi coprivano il viso, mi entravano in bocca. Eravamo pura
vita.
Ora lui è vecchio. Spesso va
contro gli alberi e non riesce nemmeno a sfiorare una lepre. Sono io ogni
mattina a lasciarlo sul letto di muschio per andare a cacciare qualche
animaletto. Quando lo mangia, sembra prenderne la vita direttamente dal suo
sangue, per poi, qualche ora dopo, ributtarsi a terra. Vedo nei suoi occhi
bianchi la stanchezza di una vita vissuta intensamente.
Oggi c’è luna piena. Siamo
sdraiati accanto a un fuoco che non ho mai capito come ho imparato a creare. Da
un lato, la luce dorata illumina le sue zampe, il suo petto, il suo muso, le
sue palpebra. Dall’altro, la pelliccia della sua schiena riflette la luce
argentata che sembra dare alle costole un’apparenza di statua vivente. A un
certo punto mi giro verso il cielo per trovare le stelle. Fin da piccola le
guardavo e le contavo come se fossero i giorni che avevamo passato insieme. Più
guardavo nel nero, più ne vedevo. Pensavo che i giorni condivisi sarebbero stati
così infiniti come gli astri. Ora sento veramente che le stelle stanno per
finire e i battiti del suo cuore per estinguersi. Mi sdraio accanto a lui,
lasciandogli gli ultimi attimi di caldo provenienti da quella danza di fiamme e
cenere.
Apro gli occhi. Il sole mi
colpisce, ho sete e mal di testa. Il fuoco è spento e le braci grigie. Pure
lui.
Dal muschio lo sposto a un
letto di radici intrecciate quasi disegnate apposta lì, dove la terra sarà la
sua coperta. Spero che gli sia lieve. Vorrei baciare il suolo che lo ricopre,
come l’ho baciato ogni notte, per augurargli un’eternità d’oro. Appoggiando le
mani sul punto dove dovrebbe essere il suo petto, in un’ultima carezza, mi alzo
e guardo ancora una volta il faggio che farà compagnia a mio padre.
Con tutto il dolore che mi
appesantisce il cuore, devo lasciarlo: sento l’urgente bisogno di partire
svelta a cercare la risposta che mi solleverà almeno un po’ di vecchie catene,
con me da sempre e da mai: come sono arrivata qua? Chi sono? Come faccio a
conoscere la parola, senza un ricordo di alcuna conversazione? Dove sono tutti
gli umani? Come conosco la loro esistenza?
Ora che non ho nessuno, ora
che non c’è niente da perdere, voglio perdere me stessa. Mi abbandono
all’azzardo, mi lascio portare dal bosco.
II.
Cari genitori,
dove siete? Vi cerco e non vi
trovo. Vi cerco nella rugiada, tra il fogliame, fino fra le crepe della
corteccia degli alberi, ma non ci siete. Provo ad annusare l’aria per trovare
quel filo di profumo che mi porterà magicamente da voi. Ma non sento niente.
Sì, sì che sento qualcosa: un buco nell’aria, sento un buco a casa mia; un
vuoto che mi attira verso lui per provare a mangiarmi e farmi sparire. Ma non
lo permetterò. Io lo voglio riempire, voglio dirgli che posso vivere
perfettamente senza di lui, che non ho bisogno di nessuno. Invece, mi manca un
pezzo d’aria, e non so dove andare a trovarlo.
Siete presenti nei ricordi
del cuore, ma non della testa. Non ricordo mai un abbraccio o un pranzo
condiviso insieme, ma la sensazione di essere insieme in famiglia la sento per
tutto il corpo come già vissuta, come qualcosa di non nuovo. Mi chiedo perché
non ci siete, mi chiedo che avete deciso di fare, mi chiedo come mai da un
giorno all’altro tutto sia diventato un ricordo vago che ora mi sembra irreale.
Come quella volta che il babbo e io vedemmo quel cavallo enorme.
È passato all’improvviso, e
io non ci davo attenzione ma, passando davanti a noi, a ogni galoppo,
m’incantavo di più: quella meravigliosa creatura piena di magia che sembrava
non disturbarsi per la nostra presenza. Vi giuro, oramai mi sembra lontano,
inesistente, perché è andato via così come arrivò.
Però di lui almeno ho questa
vera messa in scena della natura, questo sogno in carne e ossa. Ma di voi...
Che ne ho? Spinte istintive? La sensazione di amore? Il ricordo di un profumo?
III.
Sento di nuovo un enorme
buco, ma ora nello stomaco, che alimenta se stesso nella mancanza di cibo. Non
caccio niente da giorni, raccolgo solo frutti di questo bosco che ingoio subito
e freneticamente. Poca è l’energia che danno per sopravvivere in questi paraggi
ostili; meno male che il loro sapore e colore, più che il corpo, mi riempie la
lingua e l’anima. Ma ora, proprio ora, pur analizzando ogni ramo a ogni metro,
non trovo niente. E mi butto arresa su un pezzo di muschio, che è quello che mi
fa sentire a casa. Il muschio come protettore di ogni pericolo.
In ogni caso, sono esausta.
Mi manca: ho imparato il mondo da lui e io ora cerco di trovarne uno mai
esistito, o almeno per me. Lascio cadere la testa abbattuta, poi la schiena,
vertebra a vertebra, su un tronco di un faggio. In questo giorno grigio, sento
poca vita sia fuori sia dentro di me... E queste palpebre che mi pesano
irrimediabilmente.
O, forse... Prima che le
ciglia arrivino a inchinarsi verso il mondo, in segno di resa dopo la
sconfitta, vedo di fronte uno scoiattolo. Si trova su un ramo, non troppo alto,
e penso “ce la faccio, ce la posso fare”. Mi lancio in un salto, come avrebbe
fatto lui, con un piede a più di un metro dell’altro e, sull’aria, mi sento già
girare la testa, annebbiarsi la vista... Ci sono quasi, allungo il braccio,
prima di perdere l’equilibrio e...
Sento il profumo del muschio.
Fresco sotto la guancia; non è freddo. Apro gli occhi è c’è lui. Di fronte a
me. Si richiudono. Non vedo bene. Riprovo: vedo luce, vedo lui, ma mi fa paura.
Pure lui mi guarda stranito e teso. Perché? Perché è uno strano. Così, comincia
ad annusarmi dalla testa ai piedi. Si ferma un attimo, due, tre, che mi
sembrano eterni. Poi, avvicina il suo muso a me e, all’improvviso, comincia a
leccarmi la faccia per, finalmente, sdraiarsi accanto a me.
Oltre tutte le sensazioni,
sento l’intenso profumo del muschio, addirittura più forte del suo odore. Una
felicità mi scuote dagli organi fino ai nervi delle punte delle dita pur avendo
una bestia del genere davanti. Rimango lì, respiro lì, con il suo collo intorno
alla mia testa. Finalmente trovo qualcuno. Ora sì che sento caldo. Lascio
andare le palpebre, voglio sentire meglio.
Subito dopo si rialzano da
sole. Niente babbo, niente sole, solo faggi e faggi. Ma il profumo di muschio,
quel profumo che ci accompagnava ogni mattina al risveglio, sì che è qui! Ora
ho capito tutto. Ecco da dove vengo.
Vengo dalla terra, dal letto
di muschio; nasco dal momento in cui quell’animale ha deciso che avrei fatto
parte di lui. Chi saprà spiegare come ho imparato ad arrampicarmi, cucinare la
carne o per quale ragione i miei capelli siano rossi e non neri? Non so come ci
sono arrivata quella mattina lì, tanti anni fa, tenera, io, da sola, e senza
ricordi. So solo che il momento in cui ho sentito per la prima volta il profumo
di muschio insieme alla sua presenza è cominciata la mia vita, quella vera.
E
ogni mattina, mi risveglierò accanto a lui. Ogni mattina rinascerò di nuovo.
Da
alcuni anni Inés Sánchez Mesonero dedica il proprio tempo libero alla scrittura, anche seguendo corsi specializzati. Nel 2017 è stata finalista nel
concorso di scrittura creativa del Caffè Letterario "Le Murate" di
Firenze e ha partecipato con il racconto Un
profumo tra i ricordi alla III edizione del bando “Incrociamo le penne” ad
Aprilia. È attualmente al lavoro su un racconto lungo, con l'idea di sviluppare
in maniera più complessa personaggi e trame.
(c.b.) Le letterature classiche offrono una
ricca sintesi degli schemi di narrazione successivi, insieme al loro procedere
interattivo nei paradigmi di contenuto funzionali sviluppati nei secoli. In Occidente,
l’epos omerico (ἕπος) consente di enfatizzare
culture ignare del divario tra mitologia e storicità, dati concreti e fantasie,
aree di significante e significato, ambedue candidate a costruire il plot simbolico ideato. Una volta registrata
nelle civiltà posteriori la diversità, l’eterogeneità tra spazi verosimili e
immaginari, unità di lessico e messaggio sono progredite (sotto l’egida della
validità e della bellezza) in correnti letterarie dove ora affiora l’indice
fantastico, ora l’approccio di impianto immanente, o entrambi. Nel dettaglio, però,
la parola histor (ἱστορ), adottata
dal capostipite degli aedi nella pertinenza di “uno che chiede informazioni” - anche
se il concetto di histor sul piano
referenziale moderno non esisteva affatto - era proclamata e creduta
prioritaria.
Nel racconto di Inés Sánchez, dunque, già nella prima riga, l’autrice risponde alla nostra necessità
di essere “informati” attraverso la presunta voce narrante, con notizie
fondamentali attinenti se stessa e il misterioso compagno di avventura: «Lui
non vedeva niente fra le erbe lunghe: io ero gli occhi», inoltre: «Non sentiva
nient’altro intorno che il raschiare delle erbe secche contro il cranio: io
ascoltavo la natura per lui». Pertanto, il potere dello sguardo e del percepire
suoni nell’aria è consono all’espressione principale della protagonista, la cui
vita sin da bambina (almeno suppongo) è stata custodita da un lupo in una sorta
di foresta o zona boschiva. Studiando, rammento di aver appreso la vicenda - seguita
agli inizi dell’Ottocento dal medico e pedagogista Jean Itard - del mitico
Victor dell'Aveyron, un trovatello vissuto per circa dodici anni in solitudine
nei boschi del Massiccio centrale in Francia, e di altri fanciulli cresciuti in
luoghi selvatici: ad esempio, Marie-Angélique-Memmie le Blanc, conosciuta dagli
anglofoni con l’appellativo di “The Wild Child of Champagne”, l’unica enfant sauvage al mondo capace, con l’aiuto di un clan di esperti, di imparare a
leggere e a scrivere.
Sull’importanza dei
cinque sensi, l’abate naturalista Pierre Joseph Bonnaterre ha precisato quanto,
per un’infanzia non ambientata nel sistema di condizionamenti relativi allo status civilizzato, fosse preminente l'olfatto, seguito dal gusto,
dall'udito, dalla vista e, quindi, dal tatto. Per coerenza, nell’aura del brano
della Sánchez predomina l’aroma, la fragranza del muschio, com’è esplicitato con
chiarezza dall’Ego femminile in campo a parlare per noi: «Sento il profumo del
muschio. [...] Apro gli occhi è c’è lui. Di fronte a me. Si richiudono. Non
vedo bene. Riprovo: vedo luce, vedo lui, ma mi fa paura. Pure lui mi guarda
stranito e teso. Perché? Perché è uno strano. Così, comincia ad annusarmi dalla
testa ai piedi. Si ferma un attimo, due, tre, che mi sembrano eterni. Poi,
avvicina il suo muso a me e, all’improvviso, comincia a leccarmi la faccia per,
finalmente, sdraiarsi accanto a me».
Chi sarà tale inquietante
creatura femminea dalla lunga capigliatura e le «gambe storte», bloccata nel “ricordare”
la “famiglia” d’origine? Dei genitori, infatti, confessa: «Siete presenti nei
ricordi del cuore, ma non della testa. Non ricordo mai un abbraccio o un pranzo
condiviso insieme […] Mi chiedo perché non ci siete, mi chiedo che avete deciso
di fare, mi chiedo come mai da un giorno all’altro tutto sia diventato un
ricordo vago che ora mi sembra irreale». Nondimeno, sappiamo con esattezza in
quale misura il nucleo parentale di base della tradizione, agli albori della
società organizzata in termini tecnico produttivi, scosse i capisaldi dell’ordinamento
comunitario arcaico, motivando la svolta della matrice tipica dell’epos russo
dove, appunto, a lottare per l’incolumità della prole è di norma la mamma e non
il pater familias. Nelle analisi minuziose di S.V.
Jastremskij, su un simile repertorio popolare, nel prologo delle trame-tipo la
moglie dell’eroe era, di frequente, rapita da un mostro: nel frattempo,
generando un erede, le spettava l’incombenza di difenderlo e mantenerlo. In
seguito il figlio, da adulto, avendo combattuto il nemico proprio e della
madre, lo uccideva: non prima di allora sopraggiungeva il padre, divenuto uno straniero, vissuto sino allora in uno stato
contemplativo, essendo «stato salvato dai messi celesti che lo hanno
risvegliato dal congelamento».
Per certo, l’arte
delinea un quid inedito e innovativo, alieno da margini
inibitori e influenze troppo condizionanti: nonostante ciò, affonda radici
indelebili nell’hic et nunc
quotidiano, “visitandolo” in modalità particolari nella civiltà letteraria
globale, in un topos ospite di complessi
microcosmi individuali e collettivi confortati da strutture intime o di gruppo.
Nel racconto di Inés Sánchez, il vero “babbo” della
nostra eroina dai capelli lunghi, soggetti a intrecciarsi «da soli in questa
frenetica velocità», mentre le «coprivano il viso» o «entravano in bocca» ed
erano «pura vita», non vuole trascurarla: e, sebbene anziana, la bestia,
lasciata sul «letto di muschio», rimane protettiva e premurosa, malgrado la
pelliccia sia adesso rada e nei «suoi occhi bianchi» emerga «la stanchezza di
una vita vissuta intensamente». A un tratto, però, non respira più. «Con tutto
il dolore che […] appesantisce il cuore», la ragazza deve andarsene, afflitta
da una dilagante disperazione: «Niente babbo, niente sole, solo faggi e faggi».
Avverte, comunque, diffuso «il profumo di muschio, quel profumo che ci
accompagnava ogni mattina al risveglio, sì che è qui!», e dichiara: «Ora ho
capito tutto. Ecco da dove vengo. Vengo dalla terra, dal letto di muschio;
nasco dal momento in cui quell’animale ha deciso che avrei fatto parte di lui».
La bellezza di queste
pagine è assai notevole, sebbene, appena la scena di giudizio è varcata dalla categoria della beltà, non è realistico identificarne e spiegarne ovunque, e con adeguata
efficacia, le caratteristiche peculiari. Tra di esse citerei l’affascinante
scelta di un’intelaiatura di canoni logico-causali sincronica/diacronica
incrociata nel passato, nell’attualità e nel futuro; inoltre, ne apprezzo lo
stile in quanto incrementato in virtù di una rete semiotica lessicale accurata,
incisiva, con numerosi contrappunti di stampo drammaturgico, teatrale, allusivo
delle “battute” in campo.
Il racconto potrebbe
così rievocare, entro il margine di un’attrattiva poetica e simbolica utopica e
strumentale, alcune riflessioni teoriche sul bello artistico
illustrate da Immanuel Kant nella Critica del giudizio (1790), allorché scriveva: «Quando, scavando in una palude, si trova,
come spesso accade, un pezzo di legno sgrossato, non si dice che esso è un
prodotto della natura, ma dell’arte; la sua causa efficiente concepì uno scopo,
cui esso deve la sua forma. D’altra parte si vede volentieri dell’arte in tutto
ciò che è fatto in modo che la sua rappresentazione dovette essere nella causa
prima della realizzazione». Il filosofo pensa alle cellette di cera costruite a
regola dalle api. «Ma quando qualche cosa», prosegue, «si chiama assolutamente
un’opera d’arte, per distinguerla da un effetto della natura, si intende
sempre, con ciò, un’opera degli uomini».
Nel nostro caso
ringraziamo, quindi, la Sánchez per aver agevolato il
lettore nel condividere la bellezza dell’habitat, dei
sentimenti, nello sviluppo di un terreno semantico narrativo con protagonista
un autentico essere umano, una giovane, la quale, pur lasciandosi «portare dal
bosco» e cercando invano i genitori «nella rugiada, fra il fogliame, fino fra
le crepe della corteccia degli alberi», non appare emanazione di un’indole
ancestrale involutiva: piuttosto, risulta animata da un meccanismo di libertà legittima,
totale, fulcro essenziale, del resto, del valore universale della Schönheit
kantiana.
Racconto decisamente originale, dal lessico ricco e appropriato, che in qualche moda mi riporta agli albori dell'umanità, quando la componente sensoriale era fondamentale per l'esistenza in una natura vergine ma piena di insidie. Solo che qui , l'io narrante non è una creatura dai connotati psichici ancora "animaleschi" ma un essere umano che pensa come gli umani e "sente" come gli umani. E mi pare che proprio su questa spiccata sensibilità l'autrice indugi con una ricchezza di particolari che sorprende e che da un tono lieve, poetico e favolistico a tutto il racconto.
RispondiEliminaGrazie, Rossella, per il commento puntuale.
EliminaIl mito del " buon selvaggio" o dell' uomo,che non è stato toccato dalla civiltà, tocco' racconti e riflessioni di antropologi,e scrittori del passato.Il pedagogista Rousseau diceva che il fanciullo,una volta a contatto con la civiltà,perde tutte le sue qualità,e si fa condizionare.Il profumo del bosco,le sensazioni tattili,ci riportano a quella parte vera e pura di noi,fanciullesca,in cui tutto è natura. Tutto è purezza..Come un ritorno all' utero materno.Una rinascita..Un sogno..Che forse,ognuno di noi coltiva nella mente...
RispondiEliminaGrazie, Valentina, per la tua appropriata osservazione. Oltre che Jean Itard, commentando il racconto, è giusto ricordare anche Jean Jacques Rousseau.
EliminaUn racconto che ti prende per mano e ti conduce insieme alla protagonista nelle viscere della ricerca, della natura, dell'io incontaminato.
RispondiEliminaGiusto, Marianeve. Un io veramente incontaminato.
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