domenica 21 luglio 2019


Diego RIA – “Note a margine” (racconto breve)
 



 
Con il racconto di Diego Ria prosegue la pubblicazione dei racconti premiati e menzionati all’edizione 2018 del concorso “Incrociamo le penne”.
 
 
 
Mario si sedette sulla sua poltrona preferita, sistemò con cura il piede ingessato nella posizione più comoda e avvicinò a sé il tavolinetto vuoto. Poi guardò l'uomo in piedi davanti a lui.
          «Che ti porto, Mario?»
          «Tè verde. E qualcosa di Hemingway.»
          Osservò l'uomo dirigersi verso il bancone di quella grande libreria. Lo vide armeggiare con il bollitore e poi disperdersi nei meandri della sezione narrativa.
Annusò l'aria: era asettica come quella del suo sportello alla banca. Non c'era odore di stampa, di polvere o di carta vissuta come nelle altre librerie della città. Pensò di essere molto fortunato a averla sotto casa, specialmente ora che, con quel piede, gli era impossibile stare al suo posto di impiegato e, fuori, un gelido antipasto d'inverno pizzicava la pelle.
          «Maledetti scalini» sussurrò tra i denti, riposizionando il gesso. Alzò lo sguardo verso l'uomo che stava tornando da lui con un volume in mano e vide la ragazza, sullo sfondo, seminascosta da uno scaffale. Era sicuro di averla vista altre volte perché quell'ampio basco e quella lunga sciarpa di lana fantasia arcobaleno, erano così appariscenti da essere inconfondibili. Si rese conto che da venti giorni ormai aveva un ferro a tenere insieme il malleolo, e che di quei venti giorni ne aveva passati almeno quindici in quella libreria, leggendo e osservando le persone. Quella ragazza, per esempio, si fermava ogni giorno lunghi minuti davanti alla vetrina e allargava le narici, come volesse respirarne l'essenza, per poi sparire e tornare ancora.
          L'uomo della libreria adagiò l'edizione economica di Festa mobile sul tavolinetto e ripartì verso il banco. Mario vide che la ragazza stava scrivendo su di un libro. Se l'era portato in grembo, per nascondersi, ma lui vedeva chiaramente la mano fluttuare sulla pagina e il calcio di una penna svolazzarle tra le dita. La vide rimettere il libro al suo posto e rimanere un attimo imbambolata, assorta nei propri pensieri, per poi uscire, in fretta, coprendosi la bocca con la sciarpa. Per un'ora Mario combatté una battaglia persa con il suo falso, educato pudore, come quando, davanti al suo terminale, si riprometteva di non guardare il saldo delle persone che serviva allo sportello, finendo inevitabilmente per sbirciarlo e trarne ogni tipo di conclusione, le più ciniche e catastrofiche di solito. Alla fine posò il suo Hemingway, ancora aperto sull'introduzione, inforcò le stampelle e si diresse allo scaffale della ragazza. Frugò freneticamente nella fila dove l'aveva vista riporre il libro: Sartre, Scott Fitzgerald, Steinbeck. Trovò la scritta sul frontespizio di Furore. Era un corsivo tremolante ma leggibile: “Domani passerai di qui, io lo so. E inevitabilmente aprirai questo libro perché, anche se ne hai già una vecchia copia, è il tuo preferito e non resisterai. E troverai me, che tu lo voglia o meno, perché io sono tua e so tutto di te. E se domani chiuderai questo libro e lo rimetterai su questo scaffale, avrai chiuso fuori per sempre la mia colpevole anima.” Mario digerì quella frase per qualche secondo: “Stupidaggini melensi nella testa di una ragazzina” si disse alla fine, rimettendo il libro al suo posto.
          «Festa mobile non andava bene?» gli chiese il commesso, sorpassandolo con uno scatolone in mano.
          «Va benissimo. Dovevo controllare una cosa, togliermi una curiosità.»
          E la curiosità, mista a un vago sentore di disprezzo per la patetica modalità di quella sciocca ragazza, lo portò alla libreria ancora prima, la mattina seguente. Controllò che il libro marchiato fosse al suo posto, si sedette sulla stessa poltrona, ordinò il solito tè e si fece riconsegnare la sua copia di Hemingway con il segnalibro buttato nel mezzo, a caso. Dopo un paio d'ore, l'uomo comparve. Era alto e elegante nel suo cappotto grigio. Era il proprietario del tabacchi in fondo alla via. Si fermò da Mario per salutarlo e chiedergli del piede, poi fu inghiottito dal negozio. Mario aveva sempre ammirato quell'uomo. Sembrava sempre sereno, aveva un conto in banca di tutto rispetto e sua moglie, che lo aiutava nel tabacchi, era sempre stata la donna più bella del quartiere, e forse lo era ancora, nonostante avesse passato i cinquanta.
Così, quando lo vide prendere Furore tra le mani, rimase sbigottito. Mentre l'uomo sfogliava svogliatamente qualche pagina, Mario li immaginò insieme. La ragazza doveva avere trent'anni meno di lui e non era per niente elegante. Portava vestiti larghi e colorati. La moglie invece era sempre precisa e raffinata, con occhi profondi e qualche merletto nei punti giusti che la rendeva sobriamente piccante. Come poteva un uomo simile commettere una tale sciocchezza a cinquanta metri dal proprio negozio, Mario non lo capiva.
Si passò le dita della mano sulla gobba del naso, sugli zigomi alti e affilati. Nessuna donna avrebbe mai scritto una frase simile per lui, non sarebbe mai riuscito a evocare un sentimento talmente cieco e potente, mentre quell'uomo, che stava ora uscendo dalla libreria con una rivista in mano, poteva scegliere quale amore godersi, e tradirli entrambi, impunito. Pensò che se una ragazza era tanto ingenua da farsi usare a qual modo non meritava pietà e, ora che l'uomo l'aveva abbandonata su quello scaffale, forse anche lui avrebbe potuto approfittare di lei. Soppesò i pro e i contro, come stesse trattando un derivato. D'altronde lui, dopo vari tentativi andati male, era single. Aveva trentacinque anni e un buon lavoro, una casa di proprietà e il letto freddo. La ragazza non era bella, ma era giovane e manipolabile.
Zoppicò nuovamente verso lo scaffale con il risolino di chi è più furbo appiccicato in faccia. Ma, a tu per tu con le frasi di lei, si rese conto di essere tanto abile coi numeri, quanto inetto con le parole. Prese la sua penna dal taschino e la tamburellò sulle labbra. Migliaia e migliaia di frasi dei più grandi scrittori lette e nemmeno un'idea su come impressionare una piccola sciocca. Poi un fulmine: “Domani sarà l'alba di un nuovo amore.” Carino e banale. “L'uomo dal gesso” una firma inequivocabile per lei che tutti i giorni si appiattiva alla vetrina. Si assicurò di essere fuori dalla vista del commesso e scrisse quelle cose. E una volta scritte, assunsero una profondità nuova, diversa e amplificata e lui, riguardandole, fu costretto a riflettere. Amore. Perché aveva usato quella parola per una situazione del genere? Cos'era l'amore?
Sui manuali operativi della banca non c'era niente del genere. Nelle sue dispense del codice di comportamento, marchiate con riservato, c'era tutto su come giustificare a un cliente il crollo dei titoli consigliati, ma niente sull'amore. D'amore si nutrivano però le pagine di quel posto e lui capì finalmente perché gli piacesse tanto passarvi le giornate. Non era il tè, o il fatto che fosse sotto casa. Non era l'odore, non solo. Improvvisamente si sentì pesante e triste, di una tristezza buona che non aveva mai provato ma che riconobbe appena si posò sul suo petto. Guardò la sua frase e pensò al domani. Pensò al calore a alla gioia. Pensò a come sarebbe stato sciogliersi una volta, una sola vola nella vita, dopo aver appeso il cappotto nel guardaroba di casa e chiuso la banca fuori e si chiese come mai a lui, a lui che amava così tanto i libri, tutto questo fosse stato sempre negato.
          E così, con il libro in una mano e la penna nell'altra, sospeso tra la paura di cancellare tutto e il desiderio di sottolineare “domani”, la vide alla vetrina. Aveva le mani incrociate in grembo e lo guardava con occhi talmente grandi e sbarrati da cancellarle il viso. Entrò a passi lenti nella libreria e lui la osservò, pietrificato. Quando gli fu davanti, l'unica cosa che pensò fu che quel cappello arcobaleno le calzava male sulla testa. Tutti gli altri pensieri erano congelati dal terrore che lei potesse aprire bocca e distruggere l'ultimo briciolo di dignità che lui aveva in tasca. La ragazza gli sfilò il libro di mano, sempre guardandolo fisso, poi poggiò lo sguardo sulla frase. Alzò di nuovo gli occhi, e questa volta erano due fessure opache, mentre la bocca le si arricciò talmente che, Mario, pensò volesse sputargli addosso. Ma lei si voltò. Quasi vacillando, raggiunse la cassa e pagò il libro. Uscì. Passando davanti alla vetrina ebbe l'istinto di guardare dentro ma, con un gesto dell'avambraccio, ricacciò indietro quel pensiero e sparì lungo la strada.
Il sangue tornò a scorrere nel corpo di Mario, ma era gelido e duro. Non ci sarebbe stato domani. Ci sarebbero stati altri tè, altri libri e poi altri conti correnti, altri titoli e nessun domani. Tornò al suo posto. Per tentare di cancellare dalla testa l'accaduto, aprì il suo libro: “E poi c'era il brutto tempo. Arrivava da un giorno all'altro una volta passato l'autunno.” Andò avanti un'ora, senza assorbire niente di ciò che leggeva, poi la donna entrò. Poteva avere sessant'anni, era leggermente sovrappeso e indossava un cappotto dai colori sgargianti. Scrollò le spalle come se avesse freddo e si tolse i guanti di lana color arcobaleno. Si mosse per il locale con gli occhi di Mario incollati addosso e inevitabilmente, come teleguidata, si fermò alla S. Prese una copia di Furore e si lasciò scorrere qualche pagina tra le dita, con un benevolo sorriso stampato sulla faccia, poi la posò e proseguì il suo giro. Mario la vide scegliere due volumi, pagarli alla cassa e muoversi verso l'uscita, allora la richiamò con un gesto della mano. La donna si avvicinò, guardò il gesso: «Mi dica.»
          Mario le indicò cortesemente la poltrona accanto alla sua, ma la donna lo fermò allungando il palmo della mano. «No guardi, ho fretta. Che vuole?»
          «Se avessi una figlia» disse lui, «non aspetterei una vita per perdonarla.»
          La donna schioccò la lingua con un gesto di stizza: «Ma lei non ce l'ha, vero? Sapesse...»
          «No» rispose Mario. «Non ho niente di così prezioso, ma so per certo cosa vorrà dire, domani, pentirsi della stupidità di oggi.»
          Lei aggrottò le sopracciglia. Le sue labbra si mossero alla ricerca di qualcosa da dire.
          «E lei chi diavolo sarebbe?» sibilò.
          «L'uomo dal gesso» rispose Mario. «Un uomo solo.»
          La donna sbuffò e uscì a passo svelto. Passando davanti alla vetrina guardò dentro con una smorfia di rabbia stampata sul volto. Lui, da dentro, la salutò con la mano ma lei trottò via senza un gesto. Poi fece qualche passo indietro, si fermò. Rimase un minuto immobile. La sua faccia sembrava sofferente ora. Mario la vide frugare nella borsa e estrarre il cellulare. La vide sospirare e, con l'apparecchio all'orecchio, sparire alla sua vista. Lui si guardò la gamba. Pensò che era mercoledì. L'indomani aveva una visita e forse gli avrebbero tolto il gesso. Forse avrebbe imparato a camminare di nuovo, domani.
 
 
Diego Ria è un operaio metalmeccanico livornese di 49 anni con una grandissima passione per la letteratura. Quattro anni fa ha seguito un corso di scrittura creativa nella sua Livorno e ha iniziato a scrivere racconti brevi. È stato finalista del premio “Città di Livorno” del 2016 col racconto L'ultimo sciopero della mia vita e del premio “Terra di Guido Cavani” 2017 con E Nunzia, che dice? Il racconto Ezio e il campanile è arrivato terzo nel concorso letterario “Incrociamo le penne” 2017, mentre nell’edizione 2018 ha conseguito una Menzione di Merito con Note a margine.

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