venerdì 16 marzo 2018


Enrico GRAGLIA - “Una singola macchia di sangue” (racconto breve)

 


Rientrando a casa, Roberto notò una macchia, davanti alla porta dell’appartamento, al secondo piano del palazzo in cui abitava. Una singola macchia di sangue. Si chinò ad esaminarla, incuriosito: una goccia rosso cupo, fresca. Qualcuno si era fatto male, forse il dottor Carlucci, proprietario dell’appartamento.
Roberto si rialzò, con l’idea di salire al piano di sopra e proseguire la sua esistenza, facendosi una doccia e preparandosi la cena. Più tardi, ci sarebbe stato tempo per un buon libro, da sfogliare con il gatto sulle ginocchia, che faceva le fusa. Assaporò quell’idea, osservando la macchia, e la scacciò. Spinse, invece, la porta dell’appartamento di fronte a sé. Era socchiusa e si aprì su un ingresso di piccole dimensioni, che dava su un salotto immerso nella penombra.
Roberto sommò la goccia di sangue e la porta aperta e ottenne un risultato spiacevole. Ripensò a doccia, cena e libro, ma suo malgrado avanzò nell’appartamento in cui viveva il dottor Carlucci: un uomo distinto, sempre ben vestito, molto educato, con una moglie la cui bellezza andava di pari passo con l’eleganza.
In una delle stanze affacciate sul corridoio, che si apriva sulla destra del salotto, c’era una luce accesa e Roberto andò verso quella luce, come verso un destino inevitabile. Sfiorò la spalliera di un divano, apprezzò i quadri affissi alla pareti e la libreria ad angolo, il tappeto persiano e la mobilia raffinata. Si muoveva come in un sogno.
«Dottor Carlucci», disse, troppo piano perché qualcuno potesse udirlo. «Sono l’inquilino del piano di sopra. Ho trovato la porta aperta e ho pensato…».
Il corridoio portava al bagno e alla camera da letto dei coniugi Carlucci. Era da quest’ultima che veniva la luce. Roberto si avvicinò lentamente e si affacciò alla porta della stanza. I coniugi Carlucci erano sdraiati sul letto, ma non stavano dormendo: erano morti. Il loro sangue aveva intriso il copriletto bianco, fuoriuscendo da numerose ferite al petto e all’addome. Si tenevano la mano, i due, gli occhi spalancati rivolti al soffitto, le bocche aperte, la carnagione pallida come cera. Il sangue era colato dal letto al pavimento. Scorrendo in mille rivoli, si raccoglieva in una scritta, incisa sul parquet, che recitava “OCCHIO PER OCCHIO, DENTE PER DENTE” in rosso scuro.
Roberto osservò la scena per qualche secondo, che la sua mente percepì lunghissimo, quasi eterno. Ogni particolare si impresse nella sua memoria. Pensò che sarebbe caduto in ginocchio e si sarebbe messo a vomitare, o che sarebbe fuggito urlando dall’appartamento. Poi, visto che il suo corpo non reagiva in quel modo, si vide chiamare i carabinieri, comporre il numero di telefono, denunciare l’accaduto. Non poteva certo andarsene, tornare al programma della sua serata, senza prendersi responsabilità; in fondo, aveva iniziato a farlo nel momento stesso in cui aveva posato gli occhi su quella singola macchia di sangue. Pensò al calore della doccia, al cibo della cena che gli riempiva lo stomaco vuoto, alla trama avvincente in cui si sarebbe calato, leggendo il suo libro.
Un rumore lo fece tornare alla realtà: dei passi e un respiro trattenuto, alle sue spalle. Si voltò e si trovò davanti una figura, nel corridoio. Un uomo alto e magro lo osservava. Era molto pallido, aveva il cranio rasato e sembrava vecchio e stanco. Eppure, a guardarlo bene, non superava la quarantina.
Stringeva un coltello nella mano sinistra, segno che era mancino. E che aveva ucciso i coniugi Carlucci, naturalmente.
«Buonasera», disse, in tono pacato, per niente minaccioso.
«Buonasera a lei», rispose Roberto.
Non provava timore, davanti all’assassino. Gli riservava la cordialità che di solito usava coi clienti, al lavoro. Lo osservò, cercando di capire cosa lo avesse spinto a quel gesto. Trovò curioso che non avesse sangue né sulla lama del coltello, né sui vestiti. Al di fuori della camera da letto, c’era soltanto quella singola macchia sul pianerottolo.
«Ha trovato la porta aperta, vero?», gli chiese l’assassino. «Me ne sono dimenticato».
«Sì, ma non era mia intenzione entrare».
«Capisco. Non ha toccato nulla, giusto? Meglio così. Devo chiederle, per cortesia, di lasciare questa stanza, andare a casa e dimenticare quello che ha visto. Si faccia una doccia, mangi e legga un buon libro».
«È stato lei a…?».
«Sì, li ho uccisi io. Il dottor Carlucci ha ammazzato mia moglie, che dio la benedica. Era malata e lui non ha saputo curarla. Lei è morta. E io ho ucciso il dottor Carlucci, così tutto è tornato in equilibrio. Sua moglie, però, non ha capito quello che stavo facendo. Si è messa in mezzo, ha iniziato a gridare. Ho dovuto uccidere anche lei. E ora devo ristabilire l’equilibrio un’altra volta, per cui la prego di andarsene. Sarebbe così gentile?».
Roberto diede un’occhiata ai corpi stesi sul letto, al sangue e alla scritta. Poi guardò l’assassino negli occhi. Aveva capito quello che stava per fare e vederli sgombri di ogni timore, limpidi e determinati, lo fece sorridere: sarebbe morto in pace, avrebbe ristabilito l’equilibrio.
«Mi scusi», disse, passando accanto all’assassino. «Buonasera».
«Può chiudere la porta, andando via?».
«Ma certo».
Roberto uscì dall’appartamento del secondo piano, senza voltarsi indietro. Chiuse piano la porta, per non disturbare, e abbassò gli occhi. Il pavimento del pianerottolo era pulito, non c’erano macchie. D’altra parte, lui non era mai stato in quell’appartamento.
Salì le scale e rientrò a casa. Si tolse il cappotto, accarezzò il gatto, che gli veniva incontro stiracchiandosi, e si preparò a farsi la doccia, cenare e leggere il suo libro.




La narrativa di Enrico Graglia mostra un interesse particolare per il genere thriller, nella tradizione, insieme ad altri, del maestro dichiarato e indiscusso Stephen King: «Io vedo realmente, davanti a me, gli orrori che racconto, come fossi ipnotizzato». In occasioni ripetute lo scrittore statunitense ha precisato: «Tant'è che se non scrivo, mi addormento a fatica e faccio brutti sogni: quelle allucinazioni devono comunque affiorare, nel sonno o nella veglia».

L’iter comunicativo di Una singola macchia di sangue, dove il rappresentato è accresciuto da una sviluppata fisicità del significante, cioè del lessico selezionato, è caratterizzato da una trama-intreccio intessuta con appropriata cura stilistica: procede avara di intervalli, non volendo indurre il lettore a subire un percepire automatico tra i segni-segnali elaborati e quanto ad essi pertinente. Si snoda dunque, nel discorso, un’energica e rapida indagine in chiave di strumento di controllo (in senso polivalente) circa le reazioni dell’animo umano di fronte al brivido e alla violenza di un sanguinoso crimine sconcertante e inatteso.

L’assassino, di conseguenza, appare nella penombra, calvo come un pagliaccio, non estraneo ai tanti clown materializzati in fondo al corridoio, secondo un’iconografia largamente ripresa dal cinema e da prodotti televisivi di notevole fama, inaugurata da It, la famosa horror novel di King, e ricreata a distanza di trent’anni - nelle vesti di serial killer - in Mr. Mercedes.

Ma il nostro Graglia, dopo aver reso omaggio al romanziere, orienta la struttura del plot all’interno di un originale arco semiotico connesso a un’intelaiatura ostensiva di impianto filmico, quasi ricostruendo l’episodio delineato sull’aura e la corrispondenza significativa del montaggio di una celebre sequenza: la cruenta scoperta del detective Will Graham alla luce della torcia, nell’appartamento buio dell’ambiente circostante, nel film Manhunter, diretto e sceneggiato da Michael Mann, e con la scelta di evocare, benché liberissima e non manipolata, la figura alta e spettrale ispirata all’agghiacciante protagonista Dollarhyde; non trascurando inoltre, nella mia proposta di lettura - in un ulteriore volo di associazioni utopiche - il profilo, tra le righe, di John il Rosso e del suo modus operandi, nel ruolo di imprendibile omicida della serie tv Mentalist di Bruno Heller.

Tuttavia, uno dei maggiori pregi della short story di Graglia consiste nel maturare il processo efficace di un fitto terreno semantico veicolo espressivo di un eccelso agreement condiviso tra il carnefice e il visitatore casuale: ne emerge un dialogo educato, formale, consono della norma del codice convenuto, tra spiritualità e stati del mondo, destinato però a scivolare nell’abisso dell’indistinto.

Chissà se il condomino testimone della vicenda riuscirà a difendere il programma auspicato a conclusione della giornata, nei termini in cui lo aveva immaginato giungendo, ignaro, sul pianerottolo: una doccia, la cena, quindi un buon libro «da sfogliare con il gatto sulle ginocchia». Il gusto di pagine di ottima qualità letteraria? Nonostante sia reduce dal tremendo accaduto? In un giudizio reale, potrebbe sembrare un’eventualità contraddittoria e non verosimile; eppure Enrico Graglia è nel giusto, pensando al consiglio dell’autore di The Shining, e a dispetto del suo indimenticabile e scioccante writer’s block: «Quando tutto il resto fallisce, arrenditi e vai in biblioteca».

A ben vedere, però, nella dinamica del narrato trapela un messaggio eluso, o per volontà ignorato, da Stephen King: dinanzi alle tragedie altrui, l’impulso predominante coincide con l’urgenza di tornare, non esitando, a casa; perché, almeno per ora, non è toccato a noi, senza colpa, soccombere. All’epoca nella quale uno dei capostipiti dell’horror contemporaneo (nato a Portland, in quello stato del Maine, teatro della serie Murder, she wrote di Fischer, Levinson e Link, ossia della “signora in giallo”, la mitica Jessica Fletcher) ha iniziato a scrivere, il terrorismo mondiale su ampio raggio era di là da venire: oggi, purtroppo, è in agguato ovunque. Pertanto non sono incline a rimproverare qualcuno - o, peggio, discriminare - se, all’improvviso, davanti a una o più vittime innocenti, in analogia a quanto succede all’inquilino Roberto, invece di essere travolto dal dolore degli altri lasciandosi trascinare dalla loro tragica e sciagurata fine, come immediata reazione coltiva invece l’idea del piacere scaturito dalla sopravvivenza personale. E magari, a questo punto, con anima e corpo già alloggiati nella dimora-rifugio, riparo confortevole dalla morte sin dalla civiltà archetipica, assapora in anticipo il ristoro di poter approfittare della compagnia di un “buon libro”.  (c.b.) 



 

5 commenti:

  1. Un feroce delitto con gentilezza...incredibile ed affascinante.

    RispondiElimina
    Risposte
    1. All'interno del leitmotiv della horror novel di Stephen King, hai ragione, è proprio in questo contrasto tra la ferocia e la gentilezza che viaggia indipendente la scelta semantica efficace di Graglia.

      Elimina
  2. Il racconto scorre liscio ma dal momento che apre la porta tutto diviene scontato se non fosse per la presenza di un “educato “assassino. Difficile poi far finta di nulla e tornare a casa .

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Difficile, hai ragione, ma a volte l'istinto della sopravvivenza riesce nell'impossibile. Concordo con te sull'educato assassino: molto complessa è la scelta di far finta di non averlo visto. E' infatti l'assurdo che si aggiunge alla tragedia.

      Elimina
  3. Da un punto di vista generale ed umano, questo racconto breve mi sembra l’emblema dei nostri, tempi in cui possiamo visionare, dal vivo o tramite mass- media ,i fatti più ignobili o più tragici, commentandoli con due lacrime di pietà e un momento di sconforto ( a volte nemmeno questi), per poi tornare alla nostra rassicurante quotidianità: il protagonista, pur non resistendo alla curiosità e in un certo senso all’imperativo “etico” di sapere e di conoscere, anche quando si trova davanti alla macabra scena dei due corpi esanimi, feriti e insanguinati, continua a pensare ,in forma più o meno latente, alla confortante sequenza di azioni in cui si potrà cullare, una volta rientrato tra le pareti domestiche. Ad una analisi più specificatamente “letteraria” mi sembra di individuare, nel suo svolgersi graduale, due fasi pressoché distinte, anche se accumunate dal pathos fatto di attesa e di tensione, proprio di quasi tutto il racconto. Nella prima parte, seguendo l’iter narrativo tipico del trillher, l’autore si avvale di un approccio stilistico e di una scelta lessicale che guidano il lettore, a piccoli passi pieni di tensione, fino al dramma e alla rivelazione finale. La seconda parte (l’incontro con l’assassino), è ricca di elementi surreali che si rivelano nel tratteggio sicuro delle caratteristiche dei due protagonisti, nel loro dialogo da persone perbene, nei loro saluti cortesi: mi sembra, in altri termini, che il racconto potrebbe prestarsi bene ad una traduzione teatrale, teatro, per l’appunto, dell’assurdo.

    RispondiElimina