venerdì 23 agosto 2019


Roberto ROSSI – “Sutor, ne ultra crepidam!” (racconto breve)


Con il racconto di Roberto Rossi si conclude la pubblicazione dei testi vincitori dell’edizione 2018 del concorso “Incrociamo le penne”: Sutor, ne ultra crepidam! ha ottenuto il primo posto. Commento di Cinzia Baldazzi.

Gabriele dormiva in un angolo isolato, riparato dal via vai dei viaggiatori e di quelli che transitavano tra via Marsala e via Giolitti. I pochi che arrivavano fin erano i clienti del piccolo supermercato, un negozio necessario che la logica del marketing aveva relegato lontano dal centro della galleria, riservato ai negozi di abbigliamento e ai fast food.
Gabriele si svegliò, ripose con ordine nella borsa la coperta, il vecchio maglione che usava come cuscino, si tolse le calze pesanti della notte, infilò le calze leggere del giorno. Scosse la polvere dai vecchi sandali di cuoio sbattendoli uno sull’altro, erano logori ma ancora sopportavano quel gesto quotidiano, pensò per un attimo ad un passo del Vangelo, poi gli tornò in mente quella vecchia pubblicità del sapone per i piatti e sorrise. Calzati i sandali prese il breviario ed iniziò a recitare le lodi, senza leggere. Teneva il breviario in mano un po’ per abitudine un po’ perché non si fidava più della sua memoria.
Infine si alzò ed iniziò a camminare, sicuro ed elegante, verso la cappella della stazione. A vederlo, con la borsa da calcio del Gubbio sulle spalle, poteva sembrare un vecchio calciatore passato dall’album Panini al dimenticatoio degli ex campioni, perdendo tutto in un investimento affrettato o alle carte.
Lo sguardo era luminoso, e il viso rilassato, nonostante le pene non aveva perso la pace interiore. Era sicuro di aver fatto la cosa giusta due anni prima, una scelta dolorosa ma necessaria, non aveva ripensamenti ed era sereno. Era stato severo ma meritava la punizione che si era dato. Gli sguardi frettolosi dei passanti vedevano in lui solo un vecchio barbone, con la sua borsa e il suo piattino. Quelli che la pace non la trovavano o non la cercavano più, non vedevano nulla oltre quella miseria.
Si fermò al bagno. Gabriele aveva cura di sé, si lavava scrupolosamente ogni mattino, ma non si radeva da due anni. Aveva una lunga barba bianca che nascondeva il suo viso ai tanti che potevano riconoscerlo e anche i pochi capelli rimasti ora scendevano fino alle spalle, legati da un elastico nero.
Guardandosi a torso nudo nello specchio ancora restava sorpreso, gli sembrava di essere diventato un attempato harlista, quei buffi centauri che incontrava all’autogrill di Orte, quando si fermava a fare colazione. Avevano un aspetto giovanile, ma la fatica che facevano a guidare quelle moto pesanti tradiva la loro età. Per Gabriele era un po’ così, la sua vita era diventata una Harley Davidson, non l'avrebbe mai mollata, ma guidarla era sempre più impegnativo.
Era già tardi, doveva sbrigarsi, la S. Messa ad agosto era anticipata di mezz’ora, anche il cappellano era partito e il giovane prete che lo sostituiva celebrava alle 6:30 perché alle 7:30 aveva un’altra messa a Santa Bibiana.
Gabriele faceva la comunione ogni giorno e si confessava regolarmente. Don Giovanni, il cappellano della stazione, custodiva fedelmente i pochi peccati e il grande segreto di Gabriele.
Finita la messa, restava da fare una cosa per completare la liturgia laica del mattino, prima di partire. Entrò nel bar e salutò ad alta voce.
“Buongiorno maresciallo!”.
“Buongiorno professo’!”, rispose Augusto il barista.
Augusto era un tipo molto curioso, non rinunciava mai ad una domanda di troppo o un consiglio non richiesto, per questo Gabriele lo chiamava il maresciallo. Augusto chiamava Gabriele il professore, per il suo parlare colto e eloquente, e per quelle battute incomprensibili in latino che ogni tanto gli scappavano, quando voleva chiudere dialoghi poco graditi.
Gabriele mise un euro sul bancone e chiese il solito caffè lungo al vetro. “Gabriè, ma quando finiscesta storia?Sto euro fa avanti e indietro da due anni. Il caffè lo offro io”, “Ma una volta fammi pagare. Per piacere, Augusto, il caffè me lo offrirai domani”.
“E se domani non te presenti?”
“E se domani non mi presento lo offrirai a qualcun altro. Dove pensi che vada?”
 “Magari te ne vai al mare, te farebbe bene un po’ de sole. Oppure ritorni a casa tua. Perchéna casa ce l’hai, vero Gabriè?”.
Augusto era da trent’anni e sapeva riconoscere i senzatetto da quelli che il tetto lo avevano abbandonato. Gabriele era certamente della seconda categoria. Gabriele sorrise ed esclamò: Sutor, ne ultra crepidam!”.
“Che sarebbe fatte un pacchetto de cazzi tua?” rispose Augusto ridendo. “Più o meno. Dài, fammi il caffè. Grazie”.
Mentre aspettava il caffè Gabriele pensava: “E se domani davvero non dovessi tornare? Dove potrei andare?”. Aveva in tasca un biglietto di sola andata, come al solito non aveva fatto il biglietto per il ritorno, ma non aveva preso nessuna decisione per il futuro, voleva solo lasciare aperta un'uscita d’emergenza, verso una fuga o un ritorno.
“Ecco il caffè”.
Sorseggiò lentamente per assaporare fino in fondo la fragranza di quella miscela di arabica robusta che a Termini si trovava solo da Augusto. Lasciò la tazzina sul banco malvolentieri, quel caffè del mattino era l’unico piccolo lusso che ancora si concedeva.
“Buona giornata professo’” augurò l’amico barista.
“Buona giornata maresciallo” rispose Gabriele uscendo.
La voce di Gabriele piaceva moltissimo ad Augusto, trasmetteva la forza di un leader, uno che poteva sedurre o convincere pronunciando poche parole al momento giusto. Fino a due anni prima per ascoltare Gabriele si organizzavano pullman da tutt’Italia, ora quella voce era un privilegio di Augusto, di don Giovanni e di pochi altri casuali incontri.

Gabriele doveva raggiungere il binario 1 est, il più lontano, occorrevano quasi 10 minuti per arrivarci. Da lì partivano i treni per l’Umbria. Gabriele ne era convinto: quel binario così scomodo era una prova per testare la pazienza di chi partiva per quella terra di santi.

Il treno era in leggero ritardo, Gabriele attese in piedi sul marciapiede spoglio, senza pensilina; il sole estivo già cominciava a scaldare la pelle. Non aveva bisogno di controllare il biglietto, i treni regionali non avevano posti prenotati come i treni ad alta velocità, ognuno poteva mettersi dove voleva. A Gabriele piaceva poter decidere al momento con chi viaggiare, senza sottostare alla fredda scelta di un computer.
Lo stridio dei freni annunciò l’arrivo del treno. I pochi viaggiatori spazientiti iniziarono a salire frettolosamente. Gabriele lasciò loro la scelta dei posti, poi salì con calma e andò a sedersi dove non c’era nessuno, quel giorno aveva deciso di stare da solo.
Ad occhi chiusi pregustava il piacere di visitare di nuovo Assisi, ancora due ore e si sarebbe realizzato quel desiderio atteso da un anno. Prese dalla borsa la foto di Patrizia, aprì gli occhi e la guardò con nostalgica tenerezza. In quel momento l'avrebbe voluta accanto a sé. Desiderava il suo umorismo raffinato ed ironico, per ridere delle tante piccole manie che Gabriele sapeva nascondere così bene. Aveva bisogno del suo ascolto attento e profondo, per continuare a scoprire ogni giorno qualcosa di ed accettarlo senza paura.
Un'amicizia, solo un'amicizia, si ripeteva Gabriele ogni volta che si incontravano, ma lo sguardo si perdeva sempre più spesso, nello spazio sempre più stretto che lo separava da Patrizia. Non mentiva a stesso, si era illuso di non oltrepassare mai il confine sottile, oltre il quale le loro vite sarebbero cambiate rovinosamente. Sapeva bene che se le anime si avvicinano troppo i corpi non possono andare contromano, ma la saggezza rimase nella testa, il cuore era già altrove. Gabriele aveva ceduto lentamente e inesorabilmente. Patrizia era entrata nella sua vita come la sabbia di una clessidra, poco per volta aveva riempito ogni pensiero, ogni ora, ogni preghiera. L'amicizia era diventata innamoramento e l'innamoramento passione. Patrizia non oppose alcuna riserva. Continuava a fare il suo dovere di moglie e di madre, ma Gabriele si era preso tutto quello che restava oltre gli obblighi coniugali e materni.
Gabriele capiva che le loro vite non potevano dividersi tra due amori, erano felici, ma la felicità non superava il senso di colpa. Un giorno, senza dire nulla a nessuno, neanche a Patrizia, rigirò la clessidra, ormai da troppo tempo piena solo nella parte bassa. Lasciò tutto e si trasferì a Roma.
Non cercò rifugio o aiuto, sarebbe stato insopportabile ammettere quel fallimento a quasi sessant'anni. Nessuno lo avrebbe capito, forse qualcuno lo avrebbe deriso o compianto. Decise di vivere in strada, dove capitava, nei mesi più caldi e più freddi preferiva la stazione Termini, dove ogni mattina prendeva la comunione e il caffè di Augusto.
La clessidra era stata girata di colpo, ma la sabbia scorreva con la stessa velocità in senso inverso. Patrizia dopo due anni stava ancora uscendo dalla vita di Gabriele, lentamente così come era entrata, senza sosta, con un tempo che non poteva essere accelerato arrestato. Fermò quei pensieri che lo confondevano e lo turbavano, era come se ricordasse il futuro, non lo avrebbe vissuto ma sapeva come sarebbe stato se non fosse scappato.
Ripensò per la millesima volta alla storia di Jacopa dei Settesoli e di San Francesco, erano stati legati da un'amicizia perfetta e infinita, erano rimasti uniti fino alla morte del santo, senza mai tradire e tradirsi. Gabriele non aveva avuto la forza di Francesco e Patrizia non aveva avuto la fedeltà di Jacopa. Gabriele aveva fatto la scelta di restituire quell'amore non suo, ma l’amore rubato non si può restituire, il senso di colpa era rimasto come un'ombra in un cortile assolato.
Il treno iniziò a muoversi. Gabriele rimise la foto di Patrizia nella borsa, la mano sfiorò la ruvida stoffa consumata dal tempo. Teneva sempre insieme la foto di Patrizia e il vecchio saio. Non aveva saputo scegliere tra due amori e aveva rinunciato ad entrambi. Non voleva più apparire quello che non meritava più di essere: Fra’ Gabriele.

NOTA AUTOBIOGRAFICA DELL’AUTORE

Sono Roberto Rossi, nato a Roma nel 1964. Vivo ad Ostia, sono sposato con Paola da quasi 30 anni, ho una figlia Francesca di 24 anni. Sono impiegato in un'azienda che opera nel settore delle telecomunicazioni. Mi impegno per lasciare il mondo un po’ migliore di come l'ho trovato, per questo dedico il mio tempo ai bambini, come capo scout, e alle coppie, come animatore di pastorale famigliare. Mi piace organizzare viaggi e occasioni speciali per amici e famigliari. Il mio motto è "conosco un posticino": ricordo senza nessuna incertezza bar, pizzerie, ristoranti, pasticcerie anche a distanza di molti anni. Sono un mediatore per natura, nel conflitto sono tendenzialmente pompiere: "Bobbo pensaci tu che sei così saggio". Non sopporto gli opportunisti, i falsi e i carrieristi. Ho sempre avuto la penna facile e da circa un anno ho cominciato a dedicarmi con passione alla scrittura.




commento di Cinzia Baldazzi

Quando mi accingo a interpretare l’intelaiatura tecnico-formale di un testo, soprattutto nella prosa, l’ipotesi di lavoro coincide con lo stabilire due possibili modi di procedere: scioglierne i quesiti, le pause della story, per mezzo delle tracce semiotiche di indizi, segni-segnali e sèmi; oppure decodificare l’universo di discorso indicante e il relativo universo di discorso indicato in un legame strettamente reciproco, intermittente, di forma-contenuto, stile e realtà contingente.
In Sutor, ne ultra crepidam!, come a volte accade, nessuna delle due chiavi esegetiche può essere preferita perché, leggendo il racconto, si rimane implicati, a pari merito, tanto nella soluzione della trama-intreccio semiotica, nel coerente iter guidato di inizio-fine, quanto in quella del messaggio insito nell’hic et nunc spirituale, immanente, ma anche inserito ex toto nel contesto storico attinente la rete di notizie necessarie.
Iniziamo, quindi, a svelare, nell’asse referenziale del titolo, uno dei principali nuclei tematici - divenuto orizzonte di modus vivendi - scelti da Roberto Rossi nella “novella”: il termine sembra adeguato in omaggio alla struttura pirandelliana del plot, nonché al background del Vangelo (εὐαγγέλιον: “la buona novella”, da εὐ, “bene, buono” e ἄγγελος, “annuncio”), presenti nell’intero brano. La locuzione “Ciabattino, non [andare] oltre le scarpe” discende dal latino e intende scoraggiare i giudizi parziali di chi intende misurarsi con materie o argomenti su cui non possiede alcuna competenza.
La frase, nell’originale, era “ne supra crepidam sutor iudicaret”, citata da Valerio Massimo in Factorum et dictorum memorabilium, nonché da Plinio il Vecchio in Naturalis historia: è attribuita ad Apelle di Coo, il quale esponeva in strada le proprie opere pittoriche per trarre profitto dai commenti e dalle critiche dei passanti. Un giorno, un calzolaio aveva messo in discussione la maniera adottata nel dipingere il sandalo di un personaggio (“crepida”, dal greco κρηπίς-krèpis): Apelle, al tempo considerato il maggior pittore mai esistito, corresse il particolare. In seguito, però, il ciabattino, altezzoso per aver trovato accolta la sua opinione, decise di biasimare la rappresentazione del ginocchio dell’uomo ritratto; a quel punto l’artista esclamò: “Ciabattino, non giudicare più in su della scarpa!”.
Con il celebre detto, il nostro homeless Gabriele risponde bonario ad Augusto, il quale vorrebbe sapere qualcosa di più sulla vita del suo avventore: siamo infatti nel bar in cui ogni mattina, non avendo mancato la liturgia delle 8.30 di don Giovanni (il cappellano della stazione), Gabriele degusta un caffè ben tostato, tentando invano di pagare la consumazione. Ma dove dorme il clochard? Tra le romane via Marsala e via Giolitti, in uno spazio tranquillo del grande atrio coperto della Stazione Termini a Roma. Appena desto, cambiate le calze pesanti della notte con il paio di tessuto sottile del giorno, scuote «la polvere dai vecchi sandali di cuoio sbattendoli uno sull’altro», «logori» però in grado di sopportare «quel gesto quotidiano». Pensa per un attimo a un passo del Vangelo, sorride nel ricordare una pubblicità di sapone per piatti. Indossati i sandali, stringendo il breviario, recita le lodi a memoria. Un credente di certo, immaginiamo: lo confermano i segnali del Vangelo, delle lodi impresse nella mente.
Nel Nuovo Testamento, l’evangelista Marco (6,7-13) racconta come Gesù, riuniti a sé i dodici Apostoli, ordinasse loro di viaggiare per diffondere la Parola fra la gente non portando pane, né sacca o denaro nella cintura, e calzando sandali: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Autore di preziosi commentari biblici, Beda il Venerabile, monaco cristiano, storico anglosassone del VII-VIII secolo, in proposito precisa: «I sandali hanno un significato mistico: il piede non è coperto sopra né nudo sotto, a indicare un cammino fatto con piedi aperti alla salvezza, alla trasparenza, alla trascendenza e all’apertura verso Dio e alla sua santa volontà. Più che la povertà i sandali rappresentano quindi il desiderio dell’uomo di camminare con Dio e i fratelli verso un regno che non ci appartiene e che non è di questo mondo».
L’unione semiologica di significante-significato della calzatura, nella trama del narrato di Roberto Rossi, acquista il parametro di segnale di riconoscimento molto importante: anche se veniamo momentaneamente distratti quando lo scrittore paragona il protagonista prima a un ex-calciatore famoso caduto in disgrazia, poi a un «un attempato harlista»; sappiamo anche come il cappellano a lui tanto familiare lo confessi sempre, conoscendo il suo «grande segreto».
Riflettendo riguardo a un domani ignoto, raggiunge i binari dei treni in partenza per l’Umbria. Salito sul convoglio diretto ad Assisi, che non visita da tempo, sceglie il posto e dalla borsa tira fuori, all’improvviso, la foto di Patrizia. Chi sarà? La legittima consorte abbandonata? L’amante dimenticata? L’uomo sembra ancora ascoltarne la voce, pur essendo trascorsi un paio d’anni dall’incontro più recente. All’inizio - comunica l’Io narrante - era semplice amicizia, poi l’innamoramento, quindi la passione: «Patrizia non oppose alcuna riserva. Continuava a fare il suo dovere di moglie e di madre, ma Gabriele si era preso tutto quello che restava oltre gli obblighi coniugali e materni». In altri termini «capiva che le loro vite non potevano dividersi tra due amori, erano felici, ma la felicità non superava il senso di colpa. Un giorno senza dire nulla a nessuno […] rigirò la clessidra, ormai da troppo tempo piena solo nella parte bassa. Lasciò tutto e si trasferì a Roma».
In sostanza, Gabriele ha avuto una relazione con una donna sposata con figli. Ed eccolo, mentre ripensa alla storia di San Francesco e di Jacopa de’ Settesoli (Giacoma Frangipane soprannominata de’ Normanni): «amicizia perfetta e infinita […] senza mai tradire e tradirsi». Perché rievocare il pio rapporto intercorso tra il poverello di Assisi e la ricca, potente romana, sepolta nella cripta della Basilica davanti alla tomba del Santo con i compagni, di fronte all’altare? Considerando pure che la donna, divenendo frate Jacopa, si ritirò a vivere nell’ordine laico “Fratelli e Sorelle della Penitenza”, fondato in suo onore.
Commovente la lettera ricevuta da Francesco: «Sappi, carissima, che il Signore benedetto mi ha fatto la grazia di rivelarmi che è ormai prossima la fine della mia vita. Perciò, se vuoi trovarmi ancora vivo, appena ricevuta questa lettera, affrettati a venire a Santa Maria degli Angeli. Poiché se giungerai più tardi di sabato, non mi potrai vedere vivo. E porta con te un panno di colore cenerino per avvolgere il mio corpo e i ceri per la sepoltura... Ti prego anche di portarmi quei dolci, che tu eri solita darmi quando mi trovavo malato a Roma». Forse, allora, un viaggio alla rovescia, essendo Gabriele ad allontanarsi dalla Capitale per andare da Patrizia, chissà, tormentata da situazioni precarie? Senza il dono dei prelibati “mostaccioli”, con il cuore in mano? Non è così, in effetti.
Con le ultime parole, l’unità minima di significante-significato, cioè l’arco reale del sèma, emerge schiacciante dietro la maschera nuda pirandelliana, scoprendo il vero volto del protagonista: quello di “Fra Gabriele”, suscettibile di una sola interpretazione, nella classe delle numerose possibilità - tutte probanti - magistralmente intessute da Roberto Rossi nel racconto. Così è, se ci pare. Oppure no: tanto non cambia, né si capovolge di nuovo la clessidra.



4 commenti:

  1. Nella dotta disamina di Cinzia Baldazzi, questo struggente racconto di Roberto Rossi rivela un percorso interiore di grande sofferenza che si risolve in limpidezza e libertà. Il sentimento religioso del protagonista viene a scontrarsi con il suo umanissimo desiderio - corrisposto - di amare una donna sposata e con figli, che tuttavia non rinuncia al suo ruolo di moglie e di madre. Due amori esclusivi, dove innocenza e colpevolezza si rincorrono, lasciando il protagonista apparentemente nell'incertezza, ma in realtà fiero della sua scelta di vita libera, da clochard. Interessanti i riferimenti alla storia di Francesco e Jacopa, signora del castello di Marino (che è la mia città) con quel ricordo dei "mostaccioli" (i durissimi "tozzetti" che io ben conosco), dando l'idea della ruvidezza del santo che riesce a mangiarli un attimo prima di spirare.
    Franco Campegiani

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    1. In effetti, hai ragione, Franco. Il percorso di "limpidezza e libertà" compiuto dal protagonista nelle pagine di questo racconto ne costituisce il leitmotiv all'altezza, peraltro, di coinvolgere anche noi lettori su questo sentiero di amore liberatorio, anche se tormentato dal rimorso, dal senso del peccato cristiano che, però, si può espiare. Preziosa la precisazione sui "mostaccioli", simbolo, come tu dici, della ruvidezza, della sincerità umana di Francesco, forte ma, chissà, in qualche modo bambino, anche morente.

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  2. Già la locuzione latina fa pensare a qualcosa di colto (ciabattino non andare oltre le scarpe...fatti i c... tuoi!) e popolano. Al di là della clamorosa sorpresa finale, sono rimasto colpito dall'avvento di Patrizia, che compare senza preavviso...dalla borsa e scompare (messaggio subliminale, ma chiaro). In più, il simpaticissimo rapporto tra Gabriele (professore) e Augusto (barista, maresciallo: Sutor, ne ultra crepidam!). Complimenti vivissimi a Roberto Rossi, unitamente a Cinzia Baldazzi.

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